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La potenza atomica europea al collasso politico e sociale: cosa accadrà alla Francia?

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Succede che le elezioni francesi hanno mostrato qualcosa di prevedibile ma al contempo incredibile. Succede che la situazione di Parigi, oramai, è considerabile solo come pericolosissima.

 

Andiamo con ordine: le elezioni sembrava le dovesse vincere, anzi, stravincere, la Le Pen con il suo delfino Bardella. L’«estrema destra» al potere a Parigi: si era a pochi metri. Come hanno notato molti osservatori, Macron – l’uomo del sistema, forse in maniera così profonda ed esoterica che non ancora possiamo comprendere – ha manovrato così bene che invece al potere ci andrà l’estrema sinistra del Nouveau Front Populaire.

 

Capito? In meno di qualche giorno, da una Francia di estrema destra ci siamo ritrovati in una Francia di estrema sinistra. Interessante.

 

Rubo le considerazioni di David Sacks, investitore americano che viene dalla cosiddetta «PayPal mafia», il gruppo di ragazzi (da Musk a Peter Thiel ad una manciata di altri) che hanno creato gran parte di internet così come la conosciamo ora.

 

«Macron ha cospirato con l’NFP per eliminare 200 candidati dal ballottaggio, assicurando che RN vincesse il terzo maggior numero di seggi anche se aveva la percentuale più alta di voti. Ciò potrebbe essere stato legale, ma non è stato “solo” il voto a produrre questo risultato».

 

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«Sì, hanno votato, ma per un ventaglio di scelte ridotto. Macron ha cospirato con l’NFP per eliminare 200 candidati dal ballottaggio, assicurando che RN vincesse il terzo maggior numero di seggi anche se aveva la percentuale più alta di voti. Potrebbe essere stato legale, ma non facciamo finta che “il semplice voto” abbia prodotto questo risultato».

 

Aveva ragione Macron: alla destra è stata tirata davvero una granata fra le gambe. E mica è finita: ora la magistratura muove contro la Le Pen. Si sa, i francesi amano distinguersi: in Italia e negli USA la giustizia ad orologeria colpisce prima delle elezioni, in Francia dopo. Forse, oltre che segno chic, è anche indice di una coordinazione maggiore, di una certezza salda sull’esito delle cose. Chissà.

 

C’è da dire che bisogna ritirare tanti mugugni fatti in questi anni sul Front National ora Rassemblement National «venduto». È chiaro: ai Le Pen non faranno mai toccare il potere francese. Un qualcosa che dice molto non solo su Marine e compagni, ma anche su un altro suo amico al quale chiaramente mai faranno vedere davvero la stanza dei bottoni – Matteo Salvini – e quindi forse qui c’è un rilievo da fare anche su Giorgia Meloni…

 

La tempesta di citochine politiche contro i Le Pen è risalente.

 

Chi scrive ricorda il primo vero botto: era il 2002, c’erano le presidenziali, era vivo il presidente Chirac, gollista atomico completamente fuso nell’establishment nazionale francese e in quello europeo – vabbè sintetizziamo pure che dicono che avesse dei massoni in famiglia. Incredibilmente, al ballottaggio non arrivò il socialista Jospin, ma lui, l’innominabile, il guercio, il picaresco, l’intollerabile, irricevibile, inimitabile Jean-Marie Le Pen.

 

Fu una di quelle prime volte in cui giornali ed opinionisti cominciarono a lasciarsi scappare che sì, la democrazia non va benissimo, la democrazia può dare scandalo.

 

Rammento il discorso di Le Pen al suo popolo ad un festone in una villa di Montmartre: inarrestabile, ironico, forse già vecchio, ma emanante l’aria di chi ha fatto l’impresa. La gente lo acclamava: «Le-Pen-président-Le-Pen-président». Per qualche ragione, finito il comizio, fecero partire la canzone di Kylie Minogue che spopolava in quel momento. «Na-na-na, na-na-nan-nan-na». Ci stava pure.

 

Notai all’epoca, anche in Italia, come nessuno fosse davvero preoccupato della possibilità che Jean-Marie potesse ascendere all’Eliseo. In TV c’era Giuliano Ferrara, che sorvolava sulla cosa, dicendo che più che Le Pen bisognava guardare le motivazioni che avevano portato i francesi a votarlo (forse al giornalista romano interessava all’epoca più che altro la questione islamica, per certi motivi), che comunque in pochi giorni il Front National sarebbe – spero di ricordare bene l’espressione, tornato nelle fogne. Sapete, era un vecchio adagio dell’estrema sinistra da cui proveniva il Ferrara: «fascisti/carogne/tornate nelle fogne».

 

Così fu: al ballottaggio stravinse lo Chirac.

 

Sarebbero seguiti altri déjà vu. 2017: Marine Le Pen, che oramai da anni ha ereditato il partito dal padre, va al ballottaggio con Macron e perdere, nonostante il record di 10 milioni di voti, mai visti per il FN: è il doppio dei voti che prendeva il genitore.

 

Alle presidenziali 2022 Marine prende addirittura 13 milioni di voti, ma – guarda guarda – lo strano personaggio che viene dalla Banca Rothschild e ha sposato la sua insegnante di quando era ragazzino la batte e si tiene il potere. Au revoir, Marine.

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2024, fino a poche ore fa la vittoria tanto agognata sembrava a portata, vento degli exit poll in poppa. Macché. Ecco il pazzesco fenomeno per cui è possibile passare dall’estrema destra all’estrema sinistra, perché tutto può cambiare al fine di mantenere le cose come stanno – e quindi lasciare i Le Pen fuori dai giochi.

 

A questo punto bisogna fare un discorsetto storico-morfologico sull’accaduto, tanto per unire qualche puntino.

 

Le Pen è un fenomeno organico. Si è fatto largo partendo dal nulla. Dalla sua aveva, si dice, un finanziatore che era il re francese dei cementi, la simpatia non nascosta di Brigitte Bardot, e una capacità affabulatoria e persuasiva unica nel panorama ingessato dei burocrati politici d’Oltralpe. È poca cosa, se si va contro il mastodonte dell’establishment illuminista francese, che ha radici violente che affondano in più di due secoli.

 

La prima crescita fu quando, si dice, Mitterand gli permise di andare in TV: al furbo presidente serviva far crescere il FN per sgonfiare gli avversari gollisti. Giammaria si fece strada alla grande, talk show dopo talk show, sparando verità indicibili una dopo l’altra. È il modello che una trentina di anni dopo avrebbe portato a Brasilia Javier Messias Bolsonaro.

 

Un amico mi raccontò di quando andò a prendere parte dell’occupazione della chiesa parigina di Saint Nicolas du Chardonnet da parte della Fraternità San Pio X – i lefebvriani, per chi non sa. Era il febbraio 1977: un manipolo di membri della FSSPX sotto la guida del sacerdote letterato Francois Ducaud-Bourget (1897-1984) entrarono nella chiesa e ne presero possesso – ancora oggi vi si celebrano quantità di messe vetus ordo.

 

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L’amico mi racconta che, arrivato con il primo treno da Firenze, trovò una situazione unica: c’erano fedeli e novizi di tutte le razze che dormivano sulle panche, c’era un senso di urgenza e di unione unico, era come sentire una Francia sepolta che stava tornando fuori in maniera potente, forse perfino circense: mi dice che fuori dalla chiesa ad un certo punto si presentò un tizio con un coccodrillo al guinzaglio, cose così, era membr0 del circo – anche quella una comunità dedita ad un’arte antica incompatibile con il mondo moderno, così come c’erano personaggi di ogni risma.

 

Ad un certo punto, mi dice, apparve anche Jean-Marie Le Pen.

 

In quello storico coacervo di stranezza e determinazione, mica poteva mancare: del resto, a differenza della figlia, della sua stravaganza lui ha fatto la sua cifra. È poco noto che Jean-Marie fu amicissimo di Marco Pannella, e diceva di stimarlo enormemente. Qualcuno anni fa ha raccontato ai giornali che se andavi a casa di Pannella a Roma poteva anche capitarti di trovarci ebbro il Le Pen, che in anni recenti ha pure protestato per la fine dei finanziamenti pubblici a Radio Radicale (!)

 

È chiaro quindi cosa è costata questa scalata: una vita intera, partita dai bassifondi più strambi, un’anabasi attraverso i decenni, mentre la Francia socialista diventava sempre più solidamente mondialista ed apertamente massonica, mentre la quantità di immigrati che vi venivano buttati dentro – da molto prima delle crisi migratorie degli anni Duemila – rendevano le città francesi delle bombe ad orologeria.

 

La risalita di Le Pen, che sistematizza un partito copiando il simbolo da quello dell’MSI (la fiammella, che dovrebbe essere ancora da qualche parte nello stemma del partito di governo in Italia FdI), giocoforza, accelerava mentre il popolo veniva aggredito ogni giorno di più dalla realtà. Tutti quei temi strani, le idee «della fogna» (sulla minaccia di immigrazione, droga libera, decadenza dei costumi), divengono una realtà sensibile per tanti cittadini francesi… al contempo, la castrazione della sua impresa politica si fa inevitabile.

 

Avete capito dove voglio arrivare: il potere francese è detenuto ancora oggi dagli eredi della ghigliottina, i massoni che rivoltarono trono e altare, con relativo genocidio in Vandea e non solo. Secoli sono passati, ma il potere mai davvero è passato di mano: anzi, nonostante le batoste belliche, vive ancora tranquillo con i suoi miti, come quello del distruttore d’Europa Napoleone Bonaparte: gli italiani dovrebbero capirlo meglio di chiunque altro, perché è proprio da lì che viene l’atteggiamento della Francia nei confronti del nostro Paese, visto – con una punta di rabbia, o ammirazione, o invidia – come una terra da depredare. L’assalto del capitalismo francese sulle nostre grandi aziende, sulle nostre banche, assicurazioni etc. deriva da qui. Il «Trattato del Quirinale», pure.

 

Questa conformazione politica storica – che, essendo basata su sempiterni ideali antireligiosi, è in realtà metapolitica e metastorica – forma una cappa da cui nessun’altra Francia è lasciata emergere. C’est-à-dire: la «cristianissima Francia», la Francia dei paesini e dei campi, la Francia delle famiglie e dei bambini, la Francia della storia e della tradizione cattolica, non la vedrete mai, e quelle volte che si è affacciata (sovvengono le proteste contro il matrimonio gay a metà anni 2010) viene soffocata, repressa con la forza.

 

Insomma: se la Le Pen vuole arrivare, deve fare più di un’abiura laicista (non costa niente, magari pure possiamo considerare che l’abbia già fatta: del resto i suoi deputati hanno votato l’aborto in Costituzione di Macron): deve purgare da sé il germe della Francia morale, la Francia eterna, la Francia cristiana. Perché la paranoia massonica altrimenti mai le permetterà di avvicinarsi al vertice: il rischio che scoppi la rivoluzione – cioè, la Controrivoluzione – è troppo grande per loro, che temono il vulcano. La valanga di voti di RN, i gilet gialli, le messe strapiene della FSSPX, i movimenti giovanili identitari, le proteste spontanee contro l’omosessualizzazione della società… sono geyser, sono lapilli di un abisso di magma che la piramide occhiuta non sa stimare, e che teme assai.

 

Ecco perché alla Le Pen non sarà mai consentito di vincere nulla.

 

Ecco perché, quindi, la situazione nel Paese potrebbe diventare pericolosa al punto da far tremare l’Europa, e il mondo.

 

Lo stop, ennesimo e repentino, del RN porterà ad un malcontento immenso presso gli autoctoni, i cittadini contribuenti orgogliosamente francesi. Assistere a cosa succederà con un governo di estrema sinistra – che adotterà provvedimenti che sono l’esatto contrario di quello per cui votano i lepenisti – radicalizzerà diverse frange di giovani e meno giovani.

 

In pratica: avranno voglia di menare le mani. L’incastro avviene immediatamente: all’estrema sinistra e nelle banlieue degli immigrati, la voglia di picchiare è permanente. Basta vedere che ci sono stati disordini pure la sera della loro vittoria elettorale. È una nuova usanza etnica: pensiamo ai danni a Milano e in altre città dopo le partite del Mondiali di Calcio in cui il Marocco vinceva. Spaccano tutto, anche quando sono felici.

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Il grande romanziere Michel Houellebecq è finito sui giornali anche in Italia dicendo che dopo queste elezioni ci sarebbe stata la guerra civile, in ispecie se avesse vinto il FN. I media hanno mancato di notare che non è una previsione nuova per lo scrittore francese: nel suo Sottomissione (2015), libro fantapolitico bello e disperato, raccontava dell’ascesa di un partito islamico e di guerriglia nel giorno delle elezioni, anche con morti: solo che i media insabbiavano tutto, e quindi sembrava che non fosse accaduto nulla.

 

Houellebecq scriveva in pratica che la guerra civile potrebbe anche esserci, ma potrebbe finire per non essere registrata. Basta che l’establishment ordini di ignorarla.

 

Abbiamo visto con quanto poco si può creare il caos in Francia: basta un petardo nelle banlieue, e ottiene città intere messe a ferro e fuoco, negozi razziati, violenza indiscriminata, urla «Allahu akbar», le forze dell’ordine, lo Stato, che recedono totalmente e lasciano il cittadino sprotetto.

 

È l’anarco-tirannia, ne abbiamo parlato tanto. La Francia rimane un esempio plastico: nonostante lo smacco subito dallo Stato francese nell’estate della rivolta etnica delle banlieue, Macron è rimasto tranquillo al suo posto. Anzi: ricordiamo pure che nella sera in cui Parigi andava a fuoco, lui era con Brigitta al concerto di Elton John (lui).

 

Ma quanto può durare una situazione di questo tipo? Quanto può la tensione covare, ed esplodere, e continuare a bruciare, prima che l’intero sistema non si rovesci?

 

Gli apprendisti stregoni con il grembiule credono di poter evocare il demone anarco-tirannico per stare in sella. Pensano di poterlo controllare: del resto, divide et impera è il trucchetto più vecchio nel manuale del vero potere. Sappiamo cosa accadrà: come sempre, il genio scapperà dalla lampada, il golem si ribellerà al padrone, Frankestein comincerà ad agire per conto suo. L’incantesimo gli si ritorcerà contro. On connait la chanson.

 

Vedere la Francia ribaltata non sarebbe solo un problema per i francesi, o per il resto degli europei, e in special modo l’Italia – un altro trucchetto del manuale: nessun Paese può tollerare il caos ai suoi confini: per far terminare la bagarre ci piazzi un tuo uomo forte, o lo invadi. La Francia consumata dalla guerra civile porrebbe una questione ancora più seria: Parigi ha le testate atomiche.

 

Tenetelo a mente: dopo la Brexit, gli unici che possono fornire l’ombrello atomico alla UE – un qualcosa che pare sempre più apprezzato anche dai socialisti tedeschi, un tempo antinuclearisti e pacifisti – sono i francesi. Gli esperimenti di Mururoa, voluti da Chirac nella tradizione della force de frappe di De Gaulle, a quello servivano. A farci capire che hanno le bombe, e ora che gli inglesi si sono tolti, ci rimangono solo le loro, e pure nella situazione di più alto pericolo di guerra termonucleare mondiale, con da una parte intellettuali russi che parlano di nuclearizzare città europee e dall’altro la valigetta nucleare USA in mano ad un uomo in demenza senile conclamata.

 

Cosa ne sarebbe delle atomiche francesi qualora a Parigi scoppiasse il finimondo, e la società, e la politica, collassassero del tutto?

 

E cosa dovrebbe fare, in quel caso, l’Italia?

 

Sono belle domande, a cui non vogliamo rispondere noi. Ci limitiamo a ricordare che forse, dietro allo strano, stranissimo atteggiamento di Macron degli ultimi mesi, potrebbe esserci un computo che nulla ha a che fare con la politica, con la geopolitica, con l’economia.

 

Del resto, è stato lui ad accendere lo scontro con la Russia, a poca distanza dallo sforzo, unico nella storia, di mettere il feticidio in Costituzione, e poi passare all’eutanasia e a breve a chissà cos’altro (non fatecelo dire).

 

Ci sono quelle storie assurde sulla moglie, ma qualche commentatore dice che la storia ufficiale, fra i due, non è in realtà meno allucinante. E quindi, chiediamoci: cosa hanno intronizzato, mettendo all’Eliseo Macron?

 

Quale parte del programma deve portare avanti la Francia in questo momento fatale?

 

Roberto Dal Bosco

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Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.   Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.   Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.   L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.   Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)   Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)   Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.   È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.   Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).   Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.   A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.   Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.   Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.   Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.   Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.   La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).   Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)   Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.   Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.   La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.   La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).

 

La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.

 

Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.

 

 

 

 

Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.

 

 

 

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

 

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

 

Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.

 

 

Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.

 

Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.

 

Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.

 

Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.

 

Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».

 

La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…

 

Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.

 

 

 

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).

 

Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.

 

L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.

 

 

Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.

 

Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.

 

Taro Negishi

Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».   Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.   «Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».   Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».   L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».   L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».   La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».   «L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.   Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».   Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.   Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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