Pensiero
Tucker Carlson ha ucciso Navalnij? O è stato il demone della guerra?
«Non lasciatevi ingannare: Putin è responsabile della morte di Navalnij». Il vegliardo del Delaware installato da qualcuno alla Casa Bianca ha già parlato, perfino in conferenza stampa, che è un tipo di evento dal quale cercano di tenerlo lontano onde evitare prove ancora più incontrovertibili della sua demenza senile e non solo senile.
Biden ha anche dichiarato che gli Stati Uniti non dispongono ancora di tutte le informazioni sull’accaduto, tuttavia «quello che è successo a Navalny è una prova ancora maggiore della brutalità di Putin. Nessuno dovrebbe lasciarsi ingannare».
Il vecchio col dito sul pulsante della distruzione atomica del mondo (forse: la catena di comando in quel senso potrebbe essere compromessa anche dalla prostata del suo segretario della Difesa) dice: non sappiamo niente, ma #hastatoputin.
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Eccerto. Anche Mattarella ha sentito il bisogno di rilasciare dichiarazioni: la morte del blogger antiputiniano «rappresenta la peggiore e più ingiusta conclusione di una vicenda umana e politica che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica mondiale». Baffone è venuto per davvero: ed è peggio di quello che il partito da cui il presidente della Repubblica proviene, quando si chiamava PCI, idolatrava, nel pieno senso della parola.
Il Quirinale ha sentito il bisogno di celebrare un eroe dei nostri tempi: «per le sue idee e per il suo desiderio di libertà Navalnij è stato condannato a una lunga detenzione in condizioni durissime. Un prezzo iniquo e inaccettabile, che riporta alla memoria i tempi più bui della storia. Tempi che speravamo di non dover più rivivere. Il suo coraggio resterà di richiamo per tutti».
Attenzione: nessuno dice che sia stato ucciso. Epperò, diciamo che la cosa è, come dire, fortemente suggerita.
Ci rendiamo conto che non per tutti è facile staccare la testa dal continuum della propaganda NATO, che opera martellante su ogni livello disponibile, ma qualcuno dovrà pur farlo, magari iniziando dalla solita, semplicissima domanda: cui prodest? Cui bono?
A chi giova la morte di Navalnij? Diciamo subito a chi non giova: a Putin. Se c’era qualcuno che poteva aver interesse a tener vivo Navalnij quello è l’uomo del Cremlino. Anzi, si potrebbe perfino arrivare a pensare che tutto sommato tenerlo in prigione significava, in una logica contorta ma realistica, proteggerlo da quanti per colpire lo zar sono disposti a compiere qualsiasi false flag, consumando inganni ed incantesimi che costano non una, ma centinaia di migliaia di vite umane: chiedete in Ucraina, se avete dubbi.
Navalnij che muore in carcere è un disastro incancellabile per le PR di Mosca, che lottano da anni contro le accuse riguardo dissidenti e giornalisti: il copione lo conosciamo dai tempi di Anna Politkovkaja (1958-2006), giornalista e scrittrice (stranamente pubblicata in Italia da Adelphi) russa ma americana che si occupava della guerra in Cecenia e, di conseguenza, della battaglia contro Putin in nome dei «diritti civili», «diritti umani» etc. Per il suo assassinio sono stati condannati cinque ceceni, ma nessun mandante. Anche lì: a chi giovava la morte della Politkovkaja, se non ai nemici di Putin?
Saltò fuori il nome di Berezovskij, l’oligarca ebreo che avversava l’ascesa di Putin dal dorato esilio londinese, e che si diceva essere in contatto con i gruppi islamisti-separatisti del caucaso. Berezovskij, che nel venne ritrovato morto nel bagno di una villa della capitale britannica, fu tirato in ballo da alcuni come finanziatore occulto non solo dei terroristi ceceni, ma pure di Navalnij: tuttavia, si disse che le foto che li ritraevano insieme erano fotomontaggi.
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Aleksej Anatol’evic Navalnij era un avvocato, ma soprattutto un blogger che su internet aveva creato una massa piuttosto vasta di opposizione fatta di risentimento totale verso l’establishment, accusato di ogni possibile corruzione: Edinaja Rossija, Russia Unita, il partito di Putin, fu definito come «il partito dei truffatori e dei ladri», espressione ripetuta infinite volte davanti a sei milioni di sottoscrittori su YouTube e ancora più utenti dei social. Se questa è una sceneggiatura che vi risuona, e perché l’avete vista in Italia, pure realizzata – ammettiamo, tuttavia, che con probabilità la qualità di Navalnij era superiore di quella dell’avvocatino che gli sfascisti internautici italioti hanno perfino piazzato al vertice del Paese, con la catastrofe che tutti ricordiamo.
A differenza di quanto è accaduto in Italia, o, con altri mezzi, nell’Ucraina dell’attore comico divenuto presidente, non era mai riuscito a creare una base elettorale solida abbastanza per entrare nei giochi politici veri. Tuttavia, gli americani lo coccolavano pubblicamente, tra messaggi da Washington e incontri diplomatici, così che sembrava a tutti che fosse davvero lui, che nemmeno era in Parlamento, l’opposizione a Putin.
Si trattava, come sempre, di un calcolo sbilenco della politica estera americana: il personaggio aveva i suoi limiti, nel 2008 aveva appoggiato il supporto russo a Abcazia e Ossezia nella guerra con la Georgia (poi si scusò), giornalisti moscoviti giurano che si trattava in realtà di un «razzista» e criptonazionalista che poco aveva a che fare con gli ideale liberali dell’Occidente che lo amava e premiava. Lui cercò di dare una mano come poteva: nel 2020 parlò in favore di Black Lives Matter, che in Russia ha molto senso.
Eppure un suo uso, per i padroni del vapore, il giovane blogger antisistema poteva ancora avercelo. Certo, forse non da vivo.
Quindi, facciamoci la seconda domanda: perché ora?
Beh, è curiosa che la tempistica della sua morte coincida incredibilmente con il successo globale della tanto attesa intervista di Tucker Carlson a Putin. Un evento che per anni il governo USA aveva cercato di impedire, arrivando a spiare elettronicamente il telefono del giornalista e poi addirittura, abbiamo appreso da poco, parlando direttamente con i russi per far sì che annullassero tutto.
L’intervista di Carlson a Putin, fatta sul canale «libero» di Twitter divenuto l’X di Musk, ha disintermediato tutti i network di informazione mondiale – cioè la narrativa del mainstream, cioè la narrativa della NATO.
Ha portato un pensiero che non si può trovare sui giornali al di qua della nuova Cortina di Ferro (cioè i nostri Paesi «liberaldemocratici») a tutto il mondo, e nel formato più moderno possibile: non un’intervista TV taglia e cuci di poche battute, ma due ore di conversazione, un formato da podcast dove il presidente russo ha avuto la possibilità di inondare il mondo con un millennio di storia russa.
Qualcuno dice che è andata, male (Putin era più nervoso di Carlson: lo pensiamo), qualcuno dice che è andata bene: anche solo il fatto di poter ascoltare l’uomo del Cremlino che ragiona e chiede negoziati di pace è qualcosa di incredibile, di proibito per l’era di censura che stiamo vivendo.
Resta il fatto che il messaggio al mondo è arrivato. Putin non è un pazzo sanguinario. Putin vuole la pace – di fatto, la cerca spasmodicamente da quasi un trentennio, al punto di offrire a Bill Clinton l’ingresso della Russia nella NATO.
È stato detto: le menzogne fanno iniziare le guerre, la verità può farle finire. La guerra, come sappiamo, per gli angloamericani deve continuare, fino all’ultima goccia di sangue ucraino.
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E quindi, che è l’intervista di Tucker che può aver spinto qualcuno a optare per la fine di Navalnij? È Carlson ad aver indirettamente causato la morte dell’oppositore?
Perché di fatto Navalnij è morto, e se non vi sono cause naturali (nessun giornale sembra pensarlo, rilanciando i commenti dei genitori che dicono che stava bene), deve essere stato ucciso. Ma se non è stato Putin, che è l’ultima persona a cui conveniva, chi può essere Stato?
Dicevamo, ad un certo punto, neutralizzato da ogni punto di vista (mediatico, politico, giudiziario), Navalnij poteva servire più per il martirio globale che per altro. Ma come si fa ad uccidere una persona in un carcere russo?
Mica possiamo saperlo, tuttavia avanziamo delle ipotesi ignoranti. Per ammazzare qualcuno in prigione, bisogna usare canali della criminalità organizzata, che trova sempre il modo di mettere in contatto i mondi fuori e dentro le sbarre. E dove sta la mafia russa? Beh, certo, sta in Russia, ma non solo: tanta, come ci mostrano tre decenni di film anche belli, ha preso casa in America.
Brighton Beach, sobborgo verso l’oceano sotto Nuova York – non lontana da Coney Island, teatro dell’indimenticabile scena finale de I guerrieri della notte – è di fatto oramai un paese russo, la chiamano la «piccola Odessa», e i vareniki alla ciliegia più buoni della mia vita li ho mangiati lì. Ora, quanto ci si può mettere, in automobile, da Langley a Brigthon Beach? Forse qualche ora, ma ovviamente, parliamo per metafora, perché sono cose per cui, oggi, mica c’è bisogno di spostarsi.
Abbiamo detto Langley perché è la sede del vero protagonista dell’intervista Carlson-Putin: la CIA. Possiamo dire anzi che il vero significato dell’incontro sta tutto nelle dichiarazioni di Putin, agente KGB, sui vecchi avversari del servizio segreto USA.
È ciò che mi ha colpito subito la notte della messa in onda: Putin si era tolto i guanti bianchi, e accusava direttamente la CIA dei misfatti dell’ora presente. Ho pensato, subito, quanto fosse irrituale: insomma, c’era l’onore tra spie, una volta, e Vladimir Vladimirovich, malgrado qualche barzelletta raccontata pubblicamente, non sembrava aver mai voluto attaccare la forza occulta della controparte. È una parte del gioco, è la meccanica delle cose, la CIA in fondo fa il suo lavoro, anche in Russia, il KGB stesso lo può comprendere.
Stavolta però non è andata così: nell’intervista accusa i servizi americani, e lo aveva già detto a Oliver Stone anni fa, di essere dietro ai terroristi ceceni, poi dice che c’è proprio la CIA dietro alla distruzione del Nord Stream 2, quindi percula lo stesso Carlson, che incassa tremendamente, ricordandogli che lui stesso aveva provato ad entrarvi (vero: lo scartarono, quindi il padre gli disse «fai il giornalisti, lì prendono tutti»), ma grazie al cielo lo avevano rifiutato. «Seriosnaja organisatsija», un’organizzazione seria, dice Putin mentre canzona senza pietà il tentativo del californiano di diventare un agente segreto.
(Qui ci sarebbe da aprire un capitolo a parte: il padre di Carlson fu giornalista prima e funzionario del dipartimento di Stato poi; prima di divenire ambasciatore, diresse per Reagan Voice of America, la massima fonte di propaganda antisovietica possibile: essendo che Carlson senior ha vissuto anche a Mosca, immaginiamo il dossierone sulla famiglia che era a disposizione di Putin)
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È la CIA l’ostacolo alla pace, sembra suggerire finalmente Putin. Nelle ore di intervista concesse ad Oliver Stone, non era arrivato ad ammetterlo: al massimo, aveva detto quanto temesse che, nonostante la vittoria di Trump, nulla sarebbe cambiato, a causa del fatto che gli USA hanno una «burocrazia forte». Un’espressione che a noi era sembrata una foglia di fico per non usare le famose tre lettere russe, Tse-er-u, Tsentral’noe Rasvedybateln’noe Upravlenie, cioè CIA.
Adesso invece Putin dice: la CIA è il problema. La CIA vuole la guerra, costi quello che costi: la vita degli ucraini o l’economia dei tedeschi e degli europei. Questa è stata, davvero, l’unica novità dell’intervista, l’unica notizia.
E quindi, uno immagina, la CIA ha già reagito, a modo suo?
Ci sono altre coincidenze temporali da considerare. La morte di Navalnij avviene in concomitanza con la Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, il ritrovo internazionale dove tante cose vengono discusse e programmate – e dove, proprio riguardo alla Russia di Putin c’è un trascorso preciso.
È a Monaco che nel 2007 che Putin fece il famoso discorso che rivelò al mondo il futuro della politica estera russa, basata sul crollo inevitabile del dominio unipolare americano e della sua violenza insostenibile. L’anno successivo si ebbe la guerra antirussa della Georgia. «Putin pagherà», ha detto.
È a Monaco che nel 2022 Zelens’kyj accarezzò l’idea di far diventare l’Ucraina una potenza nucleare. Gli occidentali lo ascoltarono, e nessuno disse che si trattava di un pazzo che metteva in pericolo il mondo. Pochi giorni dopo scattò l’operazione militare speciale di Mosca in Ucraina.
Poche ore fa, proprio alla stessa conferenza di Monaco, vi sono stati gli applausi per la moglie di Navalnij, che era proprio là.
Un’altra coincidenza: a Dubai pochi giorni fa un giornalista arabo ha chiesto a Carlson, ad un evento pubblico in mondovisione, proprio di Navalnij, lamentando il fatto che non ha fatto domande in merito.
Carlson negli scorsi mesi aveva già risposto andando a trovare personalmente Julian Assange nella prigione di Belmarsh a Londra. Un progioniero politico, un giornalista, tenuto dentro a partire da accuse di stupro ritirare e nemmeno nel Paese che lo accusa, ma in un altro, simbolo massimo del feudalesimo diplomatico americano inflitto al mondo.
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Curioso: è di ieri, la notizia rimbalzata su tutti i media del mondo, della moglie di Assange che dice che, qualora venisse estradato, Julian morirà. Assange morto, vogliamo ricordarlo, era ufficialmente un piano dei servizi americani: al punto che per il complotto per assassinarlo i giudici spagnoli vorrebbero sentire Mike Pompeo, l’ex direttore della CIA.
E quindi, se ora Assange venisse estradato, e, tra secondini che ronfano o zufolano, venisse trovato morto, che direbbero? Che siamo 1-1 con Navalnij? È un pensiero malandrino che qualcuno può avere.
Tuttavia, pensiamo che di base ci sia qualcosa di ancora più spaventoso dietro a questa storia. Renovatio 21 ha ipotizzato, un anno fa, che il licenziamento di Carlson da Fox, dove era diventato il giornalista più seguito di tutto l’arco televisivo americano, fosse proprio l’inevitabilità della guerra programmata contro la Russia. Una guerra diretta, una guerra «calda», da far scoppiare prima delle elezioni: dopo qualche settimana, aveva confermato di pensarlo anche lui, sia pure tralasciando che la cosa poteva essere la vera causa del suo apparentemente insensato allontanamento dagli schermi.
Navalnij morto per velocizzare il processo verso la guerra, dopo che con Carlson, e cioè con una grossa parte dell’opinione pubblica americana, Putin aveva guadagnato spazio e tempo per la pace?
Non solo: se Biden dice che Putin è brutale, i putinisti americani sono avvertiti – la loro idea contraria alla guerra contro Mosca è antiamericana, è illegale. Saranno perseguitati come quelli del 6 gennaio, o come Trump, trascinato per tribunali che poche ore fa gli hanno ordinato di pagare 350 milioni di dollari, praticamente mettendolo sul lastrico.
Tutto pare essere messo in cammino per l’inferno della guerra, e le vite sacrificate ora sono solo l’inizio della carneficina.
Qualcuno con visioni storico-teologiche radicali, dalle quali prendiamo subito le debite distanze, ritiene che alla base di tutta la vicenda degli ultimi secoli ci sia un demone. Cioè, proprio lui, quello, una cosa così: un’entità evocata secoli fa dagli inglesi quando si staccarono dall’Europa abiurando dal cattolicesimo con Enrico VIII ed la regina Elisabetta, un processo portato avanti da negromanti come John Dee, l’uomo che con il codice 007 creò le basi per l’Impero britannico e, materialmente, per il suo sistema di spie. Dee era un mago accanito, evocatore forsennato di spiriti, «angeli» diceva, che poi anche i demoni sappiamo che sono angeli.
In seguito, dicono queste teorie irricevibili, l’alleanza con tale demone è passata da Londra agli Stati Uniti. Il demonio, del resto, in cambio del potere sul mondo agli uomini chiedeva sempre le stesse cose: oro e sangue, valanghe di danaro e ecatombi di vite umane sacrificate con guerre e stermini di vario tipo. Vedendo la storia degli ultimi secoli di potere angloamericano, possiamo dire che è stato accontentato, ma sappiamo anche che a certuni non basta mai.
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Nella sua intervista a Putin, Carlson ad un certo ha toccato un punto di questo tipo: gli ha chiesto se non credeva che ci fossero delle forze esterne all’umanità che nella storia intervengono per influenzare negativamente le persone e il corso degli eventi. Abbiamo visto Tucker sviluppare questa idea negli ultimi mesi, arrivando a dichiarare che l’aborto è un sacrificio umano sussurrato all’orecchio di ogni popolo della storia da queste forze esteriori, e possiamo dire che l’interesse per gli UFO dimostrato dal personaggio pare andare nella stessa direzione.
Il presidente russo ha risposto che no, non ci crede, la storia è regolata dalle solite leggi umane, insomma non c’è tanto da fare i mistici.
Per quanto sia difficile crederlo, è possibile che Putin, per una volta, si stia sbagliando?
Possibile che neanche lui veda il quadro che, via Navalnij e il milione di ragazzi ucraini e russi massacrati, ci si sta parando innanzi?
Possibile che non capisca che dietro alla sete di sangue della setta iniziatica chiamata CIA potrebbe esserci davvero qualcos’altro?
Sono cose che butto lì, in modo irresponsabile e irriverente. Ma non è che ho altri modi di pensare la cosa: vogliono la guerra totale a tutti i costi, vogliono il sacrificio planetario, vogliono l’inferno sulla terra.
E noi in qualche modo, sul piano della realtà o della metafisica, della carne o della preghiera, della volontà o dello spirito, dobbiamo impedirglielo. Costi quello che costi.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Mitya Aleshkovskiy via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic; immagine modificata
Pensiero
Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri
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Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
Il presidente americano ha ancora una volta dimostrato la sua capacità di creare scherzi che tuttavia celano significati concreti – e talvolta enormi.
L’ultima trovata è stata la cerimonia della «grazia al tacchino», un frusto rito della Casa Bianca introdotto nel 1989 ai tempi in cui vi risiedeva Bush senior. Il tacchino, come noto, è l’alimento principe del giorno del Ringraziamento, probabilmente la più sentita ricorrenza civile degli americani, che celebra il momento in cui i Padri Pellegrini, utopisti protestanti, furono salvati dai pellerossa che indicarono ai migranti luterani come a quelli latitudini fosse meglio coltivare il granturco ed allevare i tacchini. Al ringraziamento degli indiani indigeni seguì poco dopo il massacro, però questa è un’altra storia.
Fatto sta che il tacchino, creatura visivamente ripugnante per i suoi modi sgraziati e le sue incomprensibili protuberanze carnose, diventa un simbolo nazionale americano, forse persino più importante dell’aquila della testa bianca, perché il rapace non raccoglie tutte le famiglie a cena in una magica notte d’inverno, il tacchino sì. Tant’è che ai due fortunati uccelli di quest’anno, Gobble e Waddle (nomi scelti online dal popolo statunitense, è stata fatta trascorrere una notte nel lussuosissimo albergo di Washington Willard InterContinental.
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax
— The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Da più di un quarto di secolo, quindi, eccoti che qualcuno vicino alla stanza dei bottoni si inventa che il commander in chief appaia nel giardino delle rose antistante la residenza e, a favore di fotografi, impartista una grazia al tacchino, salvandolo teoricamente dal finire sulla tavola – in realtà ci finisce comunque suo fratello, o lui stesso, ma tanto basta. Non sono mancati i momenti grotteschi, come quando il bipede piumato, dinanzi a schiere di alti funzionari dello stato e giornalisti, ha scagazzato ex abrupto e ad abundantiam lasciando puteolenti strisce bianche alla Casa Bianca.
Non si capisce cosa esattamente questo rituale rappresenti, se non la ridicolizzazione del potere del presidente di comminare grazie per i reati federali, tema, come sappiamo quanto mai importante in quest’ultimo anno alla Casa Bianca, visti le inedite «grazie preventive» date al figlio corrotto di Biden Hunter, al plenipotenziario pandemico Anthony Fauci, al generale (da alcuni ritenuto golpista de facto) Mark Milley. Sull’autenticità delle firme presidenziali bideniane non solo c’è dibattito, ma l’ipostatizzazione del problema nella galleria dei ritratti dei presidenti americani, dove la foto di Biden, considerato in istato di amenza da anni, è sostituita da un’immagine dell’auto-pen, uno strumento per automatizzare le firme forse a insaputa dello stesso presidente demente.
Ecco che Donaldo approffitta della cerimonia del pardon al tacchino per lanciare un messaggio preciso: appartentemente per ischerzo, ma con drammatico valore neanche tanto recondito.
Trump si mette a parlare di un’indagine approfondita condotta da Bondi e da una serie di dipartimenti su di « una situazione terribile causata da un uomo di nome Sleepy Joe Biden. L’anno scorso ha usato un’autopsia per concedere la grazia al tacchino».
«Ho il dovere ufficiale di stabilire, e ho stabilito, che le grazie ai tacchini dell’anno scorso sono totalmente invalide» ha proclamato il presidente. «I tacchini conosciuti come Peach and Blossom l’anno scorso sono stati localizzati e stavano per essere macellati, in altre parole, macellati. Ma ho interrotto quel viaggio e li ho ufficialmente graziati, e non saranno serviti per la cena del Ringraziamento. Li abbiamo salvati al momento giusto».
La gente ha iniziato a ridere. Testato il meccanismo, Trump ha continuato quindi ad usare i tacchini come veicoli di attacco politico.
«Quando ho visto le loro foto per la prima volta, ho pensato che avremmo dovuto mandargliele – beh, non dovrei dirlo – volevo chiamarli Chuck e Nancy», ha detto il presidente riguardo ai tacchini, facendo riferimento ai politici democratici Chuck Schumer e Nancy Pelosi. «Ma poi ho capito che non li avrei perdonati, non avrei mai perdonato quelle due persone. Non li avrei perdonati. Non mi importerebbe cosa mi dicesse Melania: ‘Tesoro, penso che sarebbe una cosa carina da fare’. Non lo farò, tesoro».
Dopo che il presidente ha annunciato che si tratta del primo tacchino MAHA (con tanto di certificazione del segretario alla Salute Robert Kennedy jr.), l’uso politico del pennuto è andato molto oltre, nell’ambito dell’immigrazione e del terrorismo: «invece di dar loro la grazia, alcuni dei miei collaboratori più entusiasti stavano già preparando le carte per spedire Gobble e Waddle direttamente al centro di detenzione per terroristi in El Salvador. E persino quegli uccelli non vogliono stare lì. Sapete cosa intendo».
Tutto bellissimo, come sempre con Trump. Il quale certamente non sa che l’uso del tacchino espiatorio non solo non è nuovo, ma ha persino una sua festa, in Alta Italia.
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Parliamo dell’antica Giostra del Pitu (vocabolo piementose per il pennuto) presso Tonco, in provincia di Asti. La ricorrenza deriverebbe da usanze apotropaiche contadine, dove, per assicurarsi il favore celeste al raccolto, il popolo scaricava tutte le colpe dei mali che affligevano la società su un tacchino, che rappresentava tacitamente il feudatario locale. Secondo la leggenda, questi era perfettamente a conoscenza della neanche tanto segreta identificazione del tacchino con il potere, e lasciava fare, consapevole dello strumento catartico che andava caricandosi.
Tale mirabile festa piemontese va vanti ancora oggi, anticipata da un corteo storico che riproduce la visita dei nobili a Gerardo da Tonco, figura reale del luogo e fondatore dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni in Gerusalemme, poi divenuto Sovrano Militare Ordine di Malta.
Subito dopo il gruppo che accompagna Gerardo avanza il carro su cui troneggia il tacchino vivo, autentico protagonista della celebrazione. Seguono quindi i giudici e i carri delle varie contrade del paese, che mettono in scena, con grande realismo, momenti di vita contadina tradizionale. Il passaggio del tacchino è tra ali di folla che non esitano ad insultare duramente il pennuto sacrificale.
Il clou dell’evento è il cosiddetto processo al Pitu, arricchito da un vivace botta-e-risposta in dialetto piemontese tra l’accusa pubblica e lo stesso Pitu, il quale tenta inutilmente di difendersi. Dopo la inevitabile condanna, il Pitu chiede come ultima volontà di fare testamento in pubblico, dando vita a un nuovo momento di ilarità.
Durante la lettura del testamento, infatti, egli si vendica della sentenza rivelando, sempre in stretto dialetto, vizi grandi e piccoli dei notabili e dei personaggi più in vista della comunità. Fino al 2009, al termine del testamento, un secondo tacchino (già macellato e acquistato regolarmente in macelleria, quindi comunque destinato alla tavola) veniva appeso a testa in giù al centro della piazza. Dal 2015, purtroppo, il tacchino è stato sostituito da un pupazzo di stoffa, così gli animalisti sono felici, ma il tacchino in zona probabilmente lo si mangia lo stesso.
Ci sarebbe qui da lanciarsi in riflessioni abissali sulla meccanica del capro espiatorio di Réné Girard, ma con evidenza siamo già oltre, siamo appunto al tacchino espiatorio.
Il tacchino espiatorio diviene il dispositivo con cui è possibile, se non purificare, esorcizzare, quantomeno dire dei mali del mondo.
Ci risulta a questo punto impossibile resistere. Renovatio 21, sperando in una qualche abreazione collettiva, procede ad accusare l’infame, idegno, malefico tacchino, che gravemente nuoce a noi, al nostro corpo, alla nostra anima, al futuro dei nostri figli.
Noi accusiamo il tacchino di rapire, o lasciare che si rapiscano, i bambini che stanno felici nelle loro famiglie.
Noi accusiamo il tacchino di aver messo il popolo a rischio di una guerra termonucleare globale.
Noi accusiamo il tacchino di praticare una fiscalità che pura rapina, che costituisce uno sfruttamento, dicevano una volta i papi, grida vendetta al cielo.
Noi accusiamo il tacchino di essere incompetente e corrotto, di favorire i potenti e schiacciare i deboli. Noi accusiamo il tacchino di essere mediocre, e per questo di non meritare alcun potere.
Noi accusiamo il tacchino di aver accettato, se non programmato, l’invasione sistematica della Nazione da parte di masse barbare e criminali, fatte entrare con il chiaro risultato della dissoluzione del tessuto sociale.
Noi accusiamo il tacchino di favorire gli invasori e perseguitare gli onesti cittadini contribuenti.
Noi accusiamo il tacchino di aver degradato la religione divina, di aver permesso la bestemmia, la dissoluzione della fede. Noi accusiamo il tacchino di essere, che esso lo sappia o meno, alleato di Satana.
Noi accusiamo il tacchino di operare per la rovina dei costumi.
Noi accusiamo il tacchino per la distruzione dell’arte e della bellezza, e la sua sostituzione con bruttezza e degrado, con la disperazione estetica come via per la disperazione interiore.
Noi accusiamo il tacchino di essere un effetto superficiale, ed inevitabilmente tossico, di un plurisecolare progetto massonico di dominio dell’umanità.
Noi accusiamo per la strage dei bambini nel grembo materno, la strage dei vecchi da eutanatizzare, la strage di chi ha avuto un incidente e si ritrova squartato vivo dal sistema dei predatori di organi.
Noi accusiamo il tacchino del programa di produzione di umanoidi in provetta, con l’eugenetica neohitlerista annessa.
Noi accusiamo il tacchino di voler alterare la biologia umana per via della siringa obbligatoria.
Noi accusiamo il tacchino di spacciare psicodroghe nelle farmacie, che non solo non colmano il vuoto creato dallo stesso tacchino nelle persone, ma pure le rendono violente e financo assassine.
Noi accusiamo il tacchino per l’introduzione della pornografia nelle scuole dei nostri bambini piccoli. Noi accusiamo il tacchino per la diffusione della pornografia tout court.
Noi accusiamo il tacchino per l’omotransessualizzazione, culto gnostico oramai annegato nello Stato, con i suoi riti mostruosi di mutilazione, castrazione, con le sue droghe steroidee sintetiche, con le sue follie onomastiche e istituzionali.
Noi accusiamo il tacchino di voler istituire un regime di biosorveglianza assoluta, rafforzato dalla follia totalitaria dell’euro digitale.
Noi accusiamo il tacchino, agente inarrestabile della Necrocultura, della devastazione inflitta al mondo che stiamo consegnando ai nostri figli.
Tacchino maledetto, i tuoi giorni sono contati. Sappi che ogni giorno della nostra vita è passato a costruire il momento in cui, tu, tacchino immondo, verrai punito.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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