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Transessualismo a scuola, l’ascesa della carriera alias non si ferma

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Molte scuole italiane hanno approvato la carriera alias. Molte altre si apprestano a farlo, altre ancora saranno bersaglio di pressioni crescenti e di questo passo cederanno per emulazione. L’ordine è: alias per tutti, reclutamento a tappeto. Ne avevamo parlato in un nostro precedente articolo.

 

Il colpo da maestro di una propaganda ben organizzata consiste nell’enfatizzare fenomeni marginali, del tutto minoritari nel mondo reale, fino a farli diventare artificiosamente questioni di interesse pubblico. Anzi, questioni di vita o di morte in seno a una società frastornata, resa orfana degli strumenti della logica e del pensiero.

 

È così che, a dispetto del senso delle proporzioni – e, prima ancora, del senso primitivo del bene e del male – questi fenomeni prendono corpo proprio grazie alle chiacchiere che vi si sprecano attorno e che risuonano dappertutto, dalle accademie alle sagrestie. Cavalcati con sussiego dal benpensante trasversale, assumono una consistenza che non hanno, poi si propagano per contagio indotto, poi si affermano sulla pubblica piazza come esigenza impellente di un’intera collettività. Pronti al debutto con l’abito formale del «diritto», oggi acquistabile per pochi spiccioli al mercatino delle pulci.

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La transizione di genere è una moda che, a causa dei danni procurati, ha imboccato la via del tramonto nella parte del mondo in cui era stata lanciata, ma è in trionfante ascesa nell’altra parte di mondo, quella che si ostina ad alimentarsi dei rifiuti altrui nonostante la loro manifesta tossicità.

 

La cosiddetta carriera alias è un pezzo importante di quella moda: serve a reclutare adepti, a fidelizzarli all’ambiente alternativo che lavora nel settore da decenni, a incanalarli precocemente lungo la strada senza ritorno delle terapie ormonali e della chirurgia affermativa. Per questo si sta espandendo nelle scuole come una macchia d’olio. Conta sulla fragilità dei più giovani, psico-fisicamente disintegrati e lasciati a fluttuare nel nulla cosmico apparecchiato per loro; conta sulla cedevolezza degli adulti in totale disarmo cognitivo; conta sulla ignavia delle istituzioni incapaci di comprendere il senso del diritto perché, forse, ormai il diritto ha perduto il suo senso per tramutarsi definitivamente in un’arma contundente a servizio del potere di turno.

 

Gli ideatori della carriera sono i legali della Rete Lenford, impegnati nella promozione dei diritti LGBTQ+. Tra i loro obiettivi dichiarati, quello di «…provocare un cambiamento delle norme giuridiche in senso più avanzato e quindi una trasformazione sociale verso l’inclusione e la non discriminazione». Cioè, più che operare secondo diritto dentro la cornice dell’ordinamento positivo, vogliono esercitare attività di pressione per forzarne l’assetto. Ce lo dicono, non ne fanno mistero, è la missione a cui si sono votati.

 

Il modello di regolamento di carriera alias proposto dalla Rete per le scuole prevede che qualsiasi alunno sostenga, in un dato momento, di non sentirsi a proprio agio nel «sesso assegnato alla nascita» possa comunicare al dirigente di voler assumere entro il contesto scolastico una identità elettiva, ovvero pretendere di essere chiamato da tutti, e indicato nei documenti interni, con un nome diverso dal proprio. Giovanni potrà diventare Serena, Lucia potrà diventare Ernesto, e preside, docenti, compagni, bidelli, segretari, saranno tenuti ad assecondare la sua volontà sovrana.

 

Sopra i quattordici anni – sempre secondo il modello proposto dalla Rete – non sarà neppure necessario che i genitori siano messi al corrente della scelta del figlio, che indosserà a scuola una identità parallela come una volta si indossava il grembiule, e si appresterà in autonomia a inaugurare una nuova vita. Non sarà lasciato solo nel suo viaggio, ovviamente: persone premurose si prenderanno cura di lui e lo sosterranno nella carriera intrapresa, destinata a proseguire verso la modificazione dei connotati fisici in via farmacologica e chirurgica.

 

Vale la pena di mettere in fila alcuni fatti e alcune osservazioni per cercare di fare luce su un fenomeno di costume che in Italia si fa strada incontrastato sulle ali della mistificazione. Le sue implicazioni sono tante, e sono enormi.

 

Come si diceva, i paesi anglosassoni che a quel costume avevano dato i natali hanno ingranato una risoluta marcia indietro.

 

Dopo la recente chiusura della clinica Tavistock di Londra, il più grande centro al mondo nel trattamento della disforia di genere sui minori attivo dal 1989, il National Health Service ha comunicato che in Gran Bretagna non potranno più essere somministrati bloccanti della pubertà (puberty blocker) ai minorenni.

 

La spallata finale al gigantesco business sanitario legato alle transizioni precoci, già scricchiolante, l’hanno data i messaggi trapelati da una chat interna del WPATH (World Professional Association for Transgender Health), considerato la principale autorità scientifica globale sulla «medicina di genere», i cui standard di cura «hanno plasmato le linee guida, le politiche e le pratiche di governi, associazioni mediche, sistemi sanitari pubblici e cliniche private in tutto il mondo, OMS compresa». OMS compresa. Ne scrive Marina Ferragni qui e qui e si invita caldamente il lettore a non trascurare la lettura di questi due articoli fondamentali e sconvolgenti: trattasi di un dovere morale.

 

Dalle conversazioni degli spregiudicati membri della chat del WPATH (chirurghi, medici, terapisti vari) risulta chiaramente come i trattamenti farmacologici e chirurgici inflitti ai minori consistessero in pratiche improvvisate, dalle conseguenze imprevedibili e di sicuro incomprese nella loro vera entità dai giovani pazienti, alcuni dei quali affetti da conclamati ritardi mentali o patologie psichiatriche.

 

Vi si trovano descrizioni raccapriccianti delle cruente tecniche di mutilazione (cosiddetta chirurgia correttiva: falloplastiche e vaginoplastiche) sperimentate per manomettere irreversibilmente i loro organi sessuali; condite con cinici commenti degli esecutori di quegli esperimenti, concordi nell’auspicare un approccio il più possibile precoce ai protocolli perché, si sa, prima si interviene meglio è.

 

Tanto orrore non poteva evidentemente perpetuarsi indisturbato, ed è venuto a galla travolgendo un apparato tentacolare che si credeva intoccabile, blindato dentro un gomitolo di interessi multimiliardari.

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Da noi però, nel frattempo, la sfolgorante carriera della carriera alias va avanti tra gli applausi automatici di spettatori inebetiti e l’ignavia di una massa irretita dalla prepotenza di una minoranza urlante, e molto ben addestrata. Si registrano qua e là sparuti sussurri di perplessità; nelle alte sedi istituzionali, sì e no un paio di gridolini di sdegno emessi ad pompam a favor di telecamera, giusto per compiacere un elettorato dolosamente cornuto e dolosamente mazziato.

 

Ora, non si dica che, investendo un profilo meramente onomastico, la carriera alias nulla ha a che fare con operazioni psicologicamente e fisicamente più invasive. Non è vero. La carriera si pone in un continuum programmatico con la transizione ormonale e chirurgica. La sua funzione è proprio quella di fare da anticamera alle tappe successive, e risolutive, del «cambio di sesso», di cui il cambio di nome costituisce tecnicamente una anticipazione, favorendo la cosiddetta transizione sociale.

 

Che questa sia la funzione specifica della carriera lo dicono in modalità ancor più esplicita i documenti amministrativi che si sforzano di disciplinarla, supplendo al silenzio della legge. Per esempio, c’è un contratto collettivo di lavoro del comparto Istruzione e Ricerca e ci sono delle linee guida del Ministero della Difesa che ancorano la carriera alias al procedimento di transizione di genere definendola apertis verbis una «anticipazione» del provvedimento che la stabilirà in via definitiva: «l’identità alias costituisce un’anticipazione dei provvedimenti che si renderanno necessari al termine del procedimento di transizione di genere, quando il soggetto sarà in possesso di nuovi documenti di identità personale a seguito di sentenza del Tribunale, passata in giudicato, che ne rettifichi l’attribuzione di sesso e il nome attribuito alla nascita».

 

Il collegamento tra carriera e rettificazione di sesso è dunque qualcosa di espressamente riconosciuto e non solo intuitivamente ipotizzabile.

 

Ma la disciplina elaborata da parte di alcune amministrazioni non può che rendere ancora più eclatante l’azzardo che risiede nel consentire alla popolazione scolastica, e in particolare a scolari minori di età, l’accesso incondizionato alla carriera alias tramite una mera, estemporanea dichiarazione di volontà e a prescindere da ogni ulteriore presupposto di fatto e di diritto.

 

Molti istituti, infatti, hanno approvato de plano il regolamento della carriera nella sua versione più ampia, proposta dalla Rete Lenford. Ciò dà luogo a un duplice abuso: viene calpestato il primato educativo della famiglia, nel caso questa non sia coinvolta in via prioritaria; assecondando acriticamente un momentaneo desiderio in assenza di alcun appiglio oggettivo, viene omesso a priori il perseguimento del miglior interesse del minore e vengono gettate arbitrariamente le premesse di un suo radicamento identitario non armonizzato al sesso di appartenenza.

 

Vale a dire: uno si dichiara in crisi di identità prima ancora di aver completato la fase dello sviluppo, quando cioè, di fatto, non ha ancora vissuto nel corpo che si appresta a rifiutare, e la scuola, anziché fare la sua parte per favorire la rimozione delle cause della crisi e un’intima riconciliazione con se stesso, si presta a incoraggiare un soggetto sano a intraprendere un iter di medicalizzazione perenne.

 

Va però chiarito come non si debba nemmeno pensare che qualche ritocco cosmetico al regolamento standard sia capace di sanare l’illegittimità insita nella sua adozione. Inventarsi una formulazione meno spinta di quella suggerita dalla Rete – per esempio richiedendo il consenso dei genitori, o una documentazione da cui risulti il pregresso avvio di un parallelo percorso medico o psicologico – non significa muoversi nel rispetto della legge.

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La possibilità stessa di assumere un’identità alias rappresenta infatti un indebito superamento delle norme anagrafiche e, prima ancora, delle norme che disciplinano il diritto personalissimo al nome: è una deroga circoscritta entro un perimetro stabilito, ma pur sempre una deroga, che genera una sorta di bizzarro regime di extraterritorialità. Lo esprimono bene le già citate linee guida del Ministero della Difesa, laddove contemplano «la possibilità di assumere in via interinale «un’identità alias», utilizzando un prenome (articolo 6, comma 2, del codice civile) differente da quello risultante dall’anagrafica del Ministero della Difesa, per le attività interne all’Amministrazione, in attesa che il percorso della rettificazione di attribuzione anagrafica di sesso, di cui alla legge n. 164 del 1982, porti al rilascio di una documentazione definitiva».

 

Citando l’articolo 6 del codice civile, che disciplina il «diritto al nome» – e stabilisce che: 1. «ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito»; 2. «nel nome si comprendono il prenome e il cognome»; 3. «non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati», ovvero attraverso sentenza del giudice competente) – insieme alla legge 164/82 che disciplina la rettificazione di sesso, l’amministrazione ammette di derogare, in parte qua, alle stesse – oltre che all’articolo 35 dell’Ordinamento dello stato civile (dpr 396/2000), che esordisce: «il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso…».

 

Dal combinato disposto di queste norme discende infatti che il nome di una persona possa subire modifiche soltanto a seguito di una sentenza ad hoc. E invece con la carriera alias non si fa altro che stabilire arbitrariamente una anticipazione di quella sentenza, sostituendosi di fatto al legislatore, che nulla ha previsto al riguardo: nessuna fonte di rango legislativo ammette infatti una simile anticipazione.

 

Né vale invocare che la ratio della anticipazione insita nella carriera alias è quella, nobile e inoffensiva, «di promuovere il riconoscimento dei diritti della persona in transizione di genere…al fine di eliminare situazioni di disagio e forme di discriminazioni legate al sesso, all’orientamento sessuale e all’identità di genere».

 

Perché dalla carriera alias, a fronte dei «diritti» in capo al soggetto in transito, scaturiscono correlativi «doveri» per una serie di altri incolpevoli soggetti, ai quali è imposto di subire le ricadute di una decisione unilaterale; in altre parole, la manifestazione di volontà di un soggetto, sganciata da alcun dato oggettivo (e anzi, in contrasto con il dato biologico dei propri caratteri sessuali) genererebbe effetti vincolanti per l’intera comunità di riferimento, chiamata a subirli passivamente.

 

In ambito scolastico, ciò significa per esempio, per gli altri studenti, dover condividere una stanza in gita scolastica, o bagni, o spogliatoi, con un compagno che si afferma di sesso diverso da quello effettivo. E comunque significa, per tutti quanti, assorbire dalla stessa istituzione, che incarna l’autorità, una alterata percezione della realtà, dei suoi equilibri e dei suoi paradigmi essenziali.

 

La carriera alias costituisce quindi una conclamata violazione del principio di legalità della azione amministrativa: adottandola, la pubblica amministrazione si intesta abusivamente un potere legislativo che per definizione non le appartiene.

 

Una violazione, questa, tanto più grave in quanto investe la sfera di diritti personalissimi e, nel caso delle scuole, interferisce con la tutela potenziata che spetta a soggetti incapaci di agire in ragione della loro minore età, e coinvolge soggetti, quali preside e docenti, che nell’esercizio delle rispettive funzioni rivestono il ruolo di pubblici ufficiali.

 

Infine, vale la pena aggiungere che una condotta antigiuridica non perde la propria antigiuridicità in ragione della sua diffusione: la circostanza che tante scuole abbiano già allegramente deliberato la loro carriera senza farsi troppi problemi non elimina la responsabilità di chi si mette in coda e le copia, perché pare brutto rimanere indietro. Semmai, l’emulazione acritica aggrava l’ignominia.

 

Il fatto è che, nella giostra dei diritti di tutti e della discriminazione di nessuno, si è pericolosamente diffusa la convinzione che un qualsiasi desiderio, più o meno transitorio, sia idoneo a far sorgere situazioni giuridicamente rilevanti, attive e passive, con ricadute sulla altrui sfera di libertà. Con tanti saluti al senso del diritto, alla gerarchia delle fonti, al principio di legalità, che non abitano più in questo disgraziato Paese.

 

In attesa che, se Tonina afferma di sentirsi preparata in geografia acquisti il diritto al nove sul registro; o se Gigetto sostiene di essere un ballerino provetto, abbia il diritto di essere scritturato alla Scala.

 

Con la benedizione della scuola, del ministero dell’istruzione e del merito, della società tutta.

 

Elisabetta Frezza

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Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Egitto e Iran «rifiutano completamente» il piano «Pride Match» per la Coppa del Mondo

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Il «Pride Match» previsto per la Coppa del Mondo FIFA del prossimo anno in Nord America sta incontrando l’opposizione di Iran ed Egitto.   La federazione calcistica ha recentemente pubblicato le partite del torneo, che si terrà in Messico, Stati Uniti e Canada. Tuttavia, la partita tra Egitto e Iran si scontra con il progetto di un gruppo LGBT di celebrare l’omosessualità e il transgenderismo in concomitanza con la partita.   Il termine Pride Match non è una designazione ufficiale della FIFA, ma piuttosto del comitato ospitante locale e degli attivisti LGBT.   «Il Seattle PrideFest è organizzato in città dal 2007 da un’organizzazione no-profit che ha designato la partita del 26 giugno come evento celebrativo, prima che la FIFA effettuasse il sorteggio per la Coppa del Mondo venerdì», scrive l’Associated Press (AP). La partita di calcio coincide con il Seattle PrideFest.

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«Sia l’Egitto che noi abbiamo sollevato obiezioni, perché si tratta di una mossa irragionevole e illogica che sostanzialmente segnala il sostegno a un gruppo specifico, e dobbiamo assolutamente affrontare questo punto», ha dichiarato ai media statali Medhi Taj, della Federazione calcistica iraniana, secondo quanto riportato dall’AP.   Ado Rida, omologo di Taj in Egitto, ha osservato che il Paese a maggioranza islamica «rifiuta completamente tali attività, che contraddicono direttamente i valori culturali, religiosi e sociali della regione, in particolare nelle società arabe e islamiche».   Il comitato organizzatore locale della Coppa del Mondo FIFA 2026 di Seattle non ha intenzione di intervenire contro la celebrazione, che probabilmente offenderà i musulmani praticanti che si oppongono all’omosessualità, considerandola un peccato. Sia l’Egitto che l’Iran puniscono l’omosessualità.   «Il Pacifico nord-occidentale ospita una delle più grandi comunità iraniano-americane del Paese, una fiorente diaspora egiziana e ricche comunità che rappresentano tutte le nazioni che ospitiamo a Seattle», ha dichiarato Hana Tadesse all’Associated Press. «Ci impegniamo a garantire che tutti i residenti e i visitatori possano sperimentare il calore, il rispetto e la dignità che caratterizzano la nostra regione».   Nel frattempo, il New York Times ipotizza che potrebbe esserci un conflitto con le regole della FIFA che vietano che le partite vengano utilizzate per promuovere un’agenda politica.   «I codici etici dell’organismo calcistico, in particolare l’articolo 4, richiedono neutralità in merito a questioni politiche e sociali, e i giocatori che violano il codice potrebbero incorrere in sanzioni che includono il divieto di giocare a calcio fino a due anni», ha riportato l’agenzia di stampa. Questo potrebbe anche, in teoria, essere utilizzato per punire i giocatori che protestano contro l’agenda LGBT.   «Durante la Coppa del Mondo 2022, la FIFA ha messo in guardia i giocatori dall’indossare le fasce arcobaleno LGBTQ OneLove, che avrebbero dovuto richiamare l’attenzione sui diritti degli omosessuali in Qatar, e ha affermato che se le avessero indossate avrebbero ricevuto cartellini gialli di avvertimento in campo», ha riportato il giornale neoeboraceno.   L’intersezione di calcio e diktat LGBT ha creato diversi episodi degni di nota negli ultimi anni. La polizia tedesca ha avviato un’indagine su una stella del calcio della Premier League, il portiere della nazionale germanica Bernd Leno, accusato di aver apprezzato un video di un’Intelligenza Artificiale che mostrava violenza durante una parata del Gay Pride.   Come riportato da Renovatio 21, la stella del calcio serbo Nemanja Matic è stato sospeso per quattro partite per aver coperto uno stemma arcobaleno pro-LGBT sulla sua maglia.

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Come riportato da Renovatio 21, due anni fa il ministero dello Sport francese annunziò punizioni per i calciatori che rifiutavano di indossare le magliette omotransessualiste.   Non c’è solo il calcio sotto il tallone arcobalenato.   Come riportato da Renovatio 21, un caso non dissimile avvenne anche nell’hockey su ghiaccio nordamericano, quando a inizio 202 il 26enne Ivan Provorov, difensore russo dei Philadelphia Flyers della lega hockeistica NHL, ha suscitato polemiche dopo aver rinunciato a un riscaldamento pre-partita in cui gli sarebbe stato richiesto di indossare una maglia da riscaldamento color arcobaleno a sostegno di il movimento dell’orgoglio.

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Religioso canadese arrestato per essersi rifiutato di scrivere delle scuse al bibliotecario della «Drag Queen Story Hour»

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Un pastore protestante canadese è stato arrestato per essersi rifiutato di scusarsi con una bibliotecaria che aveva organizzato un’ora di racconti drag queen per bambini. Lo riporta LifeSite.

 

Nel pomeriggio del 3 dicembre, la polizia di Calgary ha arrestato il pastore cristiano Derek Reimer per essersi rifiutato di ottemperare a un’ordinanza del tribunale che gli imponeva di scrivere delle scuse formali al direttore della biblioteca pubblica di Calgary, da lui criticato per aver promosso un’ora di racconti drag queen per bambini nel 2023.

 

«Sapete perché lo state arrestando? Non si pentirà delle sue convinzioni», ha chiesto alla polizia un giornalista canadese indipendente con lo pseudonimo di Dacey Media durante l’arresto.

 

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All’arresto erano presenti il ​​pastore Artur Pawlowski – già noto per le sue azioni di disobbedienza in pandemia – e il figlio di Reimer. I video dell’arresto sono rapidamente circolati sui social media, con molti attivisti canadesi che lo hanno condannato, in quanto considerato un attacco ai valori cristiani e pro-famiglia.

 

Al momento dell’arresto, Reimer stava scontando un anno di arresti domiciliari, contro i quali aveva già presentato ricorso e si è presentato in tribunale per discutere le condizioni della sua condanna. Nel 2023, l’avvocato di Reimer, Andrew MacKenzie, della Mission 7 Ministries, ha presentato ricorso contro la condanna a un anno di arresti domiciliari e due anni di libertà vigilata inflitta al pastore prima di Natale per aver protestato contro un evento «drag queen story hour» rivolto ai bambini presso la Saddletown Library di Calgary nella primavera del 2023. Gli avvocati del governo avevano cercato di condannare Reimer al carcere per la sua protesta contro il piano di indottrinamento omotransessualista.

 

Reimer aveva chiesto a Shannon Slater, la direttrice della biblioteca, perché la biblioteca stesse organizzando un evento del genere. Non avendo ricevuto risposta, Slater disse a Reimer di andarsene.

 

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Tuttavia, Reimer aveva pubblicato la sua interazione con Slater sui social media. Gli era stato ordinato di scrivere una lettera di scuse a Slater, che doveva essere consegnata entro la fine della settimana scorsa. Reimer ha dichiarato ai media locali che non avrebbe consegnato la lettera, poiché per «dispiacere» bisogna «ammettere la colpa», ovvero «aver sbagliato», sottolineando come questo equivalga ad ammettere di aver commesso un «errore» e che questo è ciò che significa «chiedere scusa».

 

Reimer ha anche sottolineato di aver detto alla corte di aver «fatto leva sulla mia libertà di coscienza, su uno studio approfondito e sulla mia comprensione di essa, unita alla libertà di espressione e di religione», e che «ciò ha spiegato e stabilito che devi esprimere alla corte le tue profonde opinioni religiose sul perché questa è una violazione della tua coscienza e perché non puoi farlo».

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Immagine screenshot da Twitter

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Le femministe britanniche espungono i membri transgender (nel senso, agli affiliati transessuali)

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Due tra le più importanti organizzazioni britanniche riservate a donne e ragazze, il Girlguiding (l’equivalente delle Girl Scout) e il Women’s Institute, hanno deciso di chiudere le porte ai membri transgender, nel senso degli affiliati transessuali.   Martedì il Girlguiding ha reso noto che «le ragazze e le giovani donne trans non potranno più iscriversi» come nuove socie. Il giorno successivo, mercoledì, il Women’s Institute, fondato oltre 110 anni fa, ha annunciato che «l’iscrizione sarà riservata esclusivamente alle persone di sesso femminile alla nascita».   Entrambe le associazioni hanno sottolineato che la scelta non era quella auspicata, ma è diventata inevitabile per evitare possibili contenziosi legali dopo la sentenza emessa ad aprile dalla Corte Suprema del Regno Unito. I giudici hanno stabilito che, ai sensi dell’Equality Act 2010, i termini «donna» e «sesso» si riferiscono esclusivamente al sesso biologico e non all’identità di genere.

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La pronuncia era arrivata al termine di un ricorso presentato da For Women Scotland contro una norma del governo scozzese che includeva i transgenderri (munite di certificato di riconoscimento del genere) nel calcolo delle quote femminili nei consigli di amministrazione pubblici.   Un sondaggio realizzato subito dopo la sentenza ha mostrato che il 59% dei britannici concorda sul fatto che una persona transgender non sia legalmente una donna (dati Electoral Calculus). Tra chi ha accolto favorevolmente la decisione c’è anche J.K. Rowling, da tempo sostenitrice di For Women Scotland.   Sempre quest’anno, la Federazione calcistica inglese (FA) e British Rowing (l’ente per il canottaggio) hanno adottato politiche analoghe: dal 1º giugno 2025 i transgender non potranno più competere nelle categorie femminili del calcio in Inghilterra, mentre nel canottaggio britannico l’accesso alla gara femminile è limitato a chi è «assegnato di sesso femminile alla nascita»; per tutti gli altri resta aperta la categoria Open.   Secondo le ultime indiscrezioni, anche il Comitato Olimpico Internazionale starebbe valutando di escludere i transessuali dalle competizioni femminili olimpiche.

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La battaglia tra femministe e transessuali va avanti oramai da un pezzo, al punto che il mondo transessualista ha trovato un acronimo per definire le femministe che non accettano il dogma transgenderro imposto ora all’intera società occidentale: le chiamano TERF, trans-exclusionary radical feminists ossia femministe radicalo trans-escludenti.   Il caso più celebre di persona definita TERF per aver espresso dubbi sul fatto che maschi biologici possano essere definiti «donne» è stata la scrittrice di Harry Potter JK Rowling, che è peraltro la donna più ricca del Regno Unito.   In Europa si era avuto il caso della norvegese Christina Ellingsen, dell’organizzazione femminista globale Women’s Declaration International (WDI), è sotto indagine della polizia per aver fatto la denuncia in un tweet in cui ha criticato il gruppo di attivismo trans FRI. «Perché insegna ai giovani che i maschi possono essere lesbiche? Non è una terapia di conversione?» avrebbe twittato la Ellingsen.   Il caso si replicò in Norvegia con l’attrice e cineasta Tonje Gjevjon, una lesbica nota nella cultura popolare del Paese, che osò scrivere su Facebook che «è semplicemente impossibile per gli uomini diventare lesbiche quanto lo è per gli uomini rimanere incinti. Gli uomini sono uomini indipendentemente dai loro feticci sessuali». L’attrice fu quindi informata di essere sotto indagine e di rischiare tre anni di carcere per l’espressione delle sue opinioni.   Come riportato da Renovatio 21, a fine 2020 la Norvegia ha adottato una nuova legge penale che punisce le persone per aver detto qualcosa di considerabile come incitamento all’odio nei confronti di persone transgender anche nel contesto della propria casa o conversazioni private.   Più recente il caso dell’attivista brasiliana per i diritti delle donne Isabella Cepa, la quale ha ottenuto lo status di rifugiata in un Paese europeo non specificato, dopo essere stata accusata di reati penali in Brasile per aver definito un politico transgender da uomo a donna come un uomo.  

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Immagine: The Girl Guides Association in Britain 1914-1918; un gruppo di Guide posa per una fotografia nel Regno Unito durante la Prima Guerra Mondiale. Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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