Pensiero
Sulle cose che ci-non-sono
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Renovatio 21 pubblica questo scritto di Giorgio Agamben apparso sul sito dell’editore Quodlibet su gentile concessione dell’autore.
Cristina Campo ha scritto una volta: «che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?». Si tratta verisimilmente di una citazione da Giov.18, 36, dove Gesù dichiara a Pilato: «Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei inservienti avrebbero combattuto per me, affinché non fossi consegnato ai Giudei. Ora il mio regno non è qui».
Decisivo è allora interrogarsi sul significato e sul modo di esistenza di ciò che è non di questo mondo. È quello che fa Pilato, che, quasi volesse comprendere lo statuto di questa speciale regalità, subito gli chiede: «Dunque tu sei re?».
La risposta di Gesù, per chi la sa intendere, fornisce una prima indicazione sul senso di un regno che esiste, ma non è di qui: «Tu lo dici che io sono re. Io sono nato per questo e per questo sono venuto al mondo: per testimoniare della verità».
E a questo punto Pilato pronuncia la famigerata domanda, che Nietzsche ha definito «la battuta più sottile di tutti i tempi»: «che cos’è la verità?».
Il regno che non è di questo mondo esige che noi testimoniano per la sua verità e quello che Pilato non riesce a capire è che qualcosa possa essere vero senza esistere nel mondo. Che ci siano, cioè, delle cose che in qualche modo esistono, ma non possono essere oggetto di un giudizio giuridico di verità o non verità fattuale, come quello che è in questione nel processo che Pilato sta conducendo.
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Furio Jesi, interrogandosi sulla realtà del mito, ha suggerito una formula che può qui essere utile riprendere: se le cose che sono in questione in quella che chiama la macchina mitologica «ci sono, sono però in un “altro mondo”: ci-non-sono». E aggiunge subito: «non vi è fede più esatta verso un “altro mondo” che ci-non-è della dichiarazione che tale “altro mondo” non è». Si comprende, allora, che cosa Gesù intenda affermando che il suo regno non è di questo mondo. Il suo regno ci-non-è, ma non è, per questo, privo di significato. Al contrario, egli è venuto in questo mondo per testimoniare di ciò che non è di questo mondo, delle cose che ci-non-sono. E questo è precisamente quanto doveva avere in mente Cristina Campo: veramente urgenti e importanti sono per la sua vita in questo mondo soltanto le cose che in questo mondo non ci sono, o, piuttosto, ci-non-sono.
È bene riflettere con speciale cautela, proprio oggi che l’esigenza della verità sembra sia stata cancellata dal mondo, sul particolare statuto delle cose che, pur non essendo di questo mondo, ci stanno veramente a cuore e orientano il nostro pensiero e la nostra azione in questo mondo.
Come Jesi suggerisce, sarebbe infatti un imperdonabile errore confondere le cose che ci-non-sono con quelle che ci sono, fingere che esse semplicemente ci siano. La loro differenza emerge con chiarezza nella distinzione fra rivolta e rivoluzione, che Jesi cerca puntualmente di definire.
La rivoluzione è la meta che si prefiggono coloro che credono solo nelle cose di questo mondo e pertanto si occupano delle circostanze e dei tempi della loro possibile realizzazione nel tempo storico secondo i rapporti di causa ed effetto.
La rivolta implica invece una sospensione del tempo storico, l’impegno intransigente in un’azione di cui non si sanno né si possono prevedere le conseguenze, ma che, per questo, non scende a patti e compromessi col nemico. Mentre coloro che non vedono al di là di questo mondo badano soltanto ai rapporti di forza in cui si trovano e sono pronti a mettere da parte senza scrupoli le loro convinzioni, gli uomini della rivolta sono gli uomini del ci-non-è, che hanno sospeso una volta per tutte il tempo storico e possono per questo agire in esso incondizionatamente.
Proprio perché le cose che ci-non-sono non rappresentano per essi un futuro da realizzare, ma un’esigenza presente di cui sono obbligati in ogni istante a testimoniare, tanto più inesorabilmente la loro azione agirà sull’accadere storico, spezzandolo e annichilendolo.
A coloro che cercano oggi con tutti i mezzi di vincolarci a una pretesa realtà fattuale che non consente alternative, occorre opporre innanzitutto il pensiero, cioè la visione limpida e perentoria delle cose che ci-non-sono. Solo a chi senza farsi illusioni sa che il suo regno non è di questo mondo, ma nondimeno è qui e ora a suo modo irrevocabilmente presente, è data la speranza, che non è altro che la capacità di smentire ogni volta la menzogna brutale dei fatti che gli uomini costruiscono per rendere schiavi i loro simili.
Giorgio Agamben
3 giugno 2024
Immagine di Antonio Ciseri, Ecce Homo (circa 1860-1880), Galleria d’Arte Moderna, Firenze.
Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
Bioetica
La destra italiana vuole davvero punire l’utero in affitto?
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Gender
L’Italia è ora una grande discoteca gay. Ma quanto durerà ancora la musica?
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È finalmente finito il mese arcobaleno. Lo sapete, agli omotransessualisti alfabetici non bastava prendersi un dì l’anno per celebrarsi: no, dovevano prendersi trenta giorni, e quindi tutto giugno diventa il mese arcobalenato. Ed ogni istituzione lo pretende.
Eppure, una canzone ancora mi turbina per la testa. È eccezionale, dire orecchiabile è sbagliato, è proprio irresistibile.
Una travolgente musichetta gay militante, dove a parlare però è uno che conosco – probabilmente il maggior intellettuale cattolico vivente.
Ascoltate voi stessi. Si chiama «One Big Gay Disco». Cioè: «una grande discoteca gay».
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Sentite che roba, che tiro. Ascoltate il testo:
«America is now one big gay disco». «L’America è ora una grande discoteca gay».
«One-Big-Gay-Disco».
L’autore è un DJ di cui ignoravamo l’esistenza, e più o meno ci sa che continueremo così così. In pratica, ha preso un pezzo disco-funk anni Settanta – basso ritmato e gai urletti «uh-aahh» inclusi – e ci ha aggiunto delle parole campionate da un discorso.
Nella didascalia di YouTube, il musicista scrive che il pezzo è «un perfetto omaggio alla scena dei club dalla mentalità aperta degli anni Settanta, con un video scintillante e nostalgico». Il video in realtà fa abbastanza schifo, è la classica robetta fatta senza soldi e con ancora meno idee: la bella ragazza in tuta non c’entra nulla, con il resto, ma va bene. La prosa di autopromozione, che sembra davvero, quella sì, vecchia di cinquanta anni, del DJ continua: la traccia «avrebbe potuto facilmente illuminare le iconiche piste da ballo di Studio 54, The Loft e Paradise Garage. Completo di archi vorticosi e ritmi ipnotici che richiamano i classici della discoteca del benessere».
Soprattutto l’autore si dichiara in grado di «riposizionare il discorso d’odio e trasformarlo in una celebrazione edificante della musica house e disco e in un inno per la comunità LGBTQ+».
Discorso d’odio? Ma quale discorso d’odio?
Dimenticavo: il discorso d’odio è qualunque discorso l’establishment e i suoi servi odino. È un genitivo oggettivo: l’odio è di chi ascolta più che di chi emette il discorso.
Le parole sono tratte da un video di E. Michael Jones, studioso e scrittore cattolico americano noto non a moltissimi, ma la cui portata intellettuale è senza pari, ovunque. Professore di letteratura inglese in un College cattolico dell’Indiana (zona Università cattolica di Notre Dame), fu licenziato a fine anni Settanta per la sua posizione sull’aborto: lui era contrario, tutti i «cattolici» dell’università «cattolica» erano invece a favore. Il mondo si era rovesciato già allora…
Ho incontrato Jones a Nuova York una decina di anni fa: io cercavo di far pubblicare i miei libri negli USA, lui voleva che i suoi fossero tradotti in Italiano. Non ricavammo molto, ma non è detto che in futuro con Renovatio 21, e l’aiuto dei lettori, non riesca a fare qualcosa.
Negli anni Jones ha animato una rivista, Fidelity, poi divenuta Culture Wars, e una casa editrice che ha pubblicato i suoi enormi tomi: si è occupato della degenerazione dell’arte, dell’ingegneria sociale dietro ai piani urbanistici, del significato dell’horror, della dottrina economica della chiesa, del ruolo sociale della musica da Wagner a Mick Jagger e, tema importante, della cosiddetta «liberazione sessuale», che lui ritiene essere uno strumento di controllo politico. Ad un certo punto, Jones ha cominciato ad occuparsi di un tema particolare e di lì sono stati dolori e problemi: l’influenza degli ebrei nella vita sociale. Potete capire a cosa è stato sottoposto da allora: depiattaformato già da tantissimo, tutti i suoi libri spariti da un giorno all’altro da Amazon. Tuttavia qui il discorso è un altro.
Jones è stato preso di sorpresa da questo remix funky della sua invettiva, tuttavia adesso ogni suo show – che è trasmesso su Rumble, perché, figurarsi – si apre proprio col pezzo. One-Big-Gay-Disco. Oh-ahhhh.
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Lui racconta da quale suo discorso sono state estrapolate quelle parole. Era un video in cui descriveva un suo recente viaggio in Germania – Paese di cui conosce lingua e cultura, e lo ricorda spesso. Si trovava vicino alla porta di Brandeburgo a Berlino. Lì c’è l’ambasciata USA, e quindi lui, da buon americano, ha buttato l’occhio dentro.
Dice di aver visto che dentro, nell’atrio, c’era una grande statua dell’orso, il simbolo di Berlino (sapete: l’etimo germanico della città, come quello di Berna, è baer, appunto l’orso). Il marmoreo plantigrado diplomatico, tuttavia, recava una caratteristica che saltava all’occhio: era ricoperto da una bandiera arcobaleno.
«Non sapevo che l’orso di Berlino fosse omosessuale» si disse il Jones. Poi gli spiegarono che il monumento era così agghindato in occasione di un triste evento: in quei giorni di fine primavera 2016 un nightclub gay ad Orlando, era stato oggetto di un brutale attacco «terrorista»: un uomo entrò e sparò uccidendo 49 avventatori e ferendone 53. Il perpetratore era un ragazzo afghano americano, Omar Mateen, che si disse subito aveva fatto bay’ah (cioè, giurato lealtà) al califfo ISIS Al Baghdadi. Alcuni dissero che in realtà l’assassino era un gay che frequentava i locali gay e le app di incontro uraniste. Storia passata.
Jones quindi arrivò a pensare che se persino l’ambasciata americana a Berlino è investita del lutto arcobaleno per qualcosa avvenuto in un locale gay in Florida, significa che allora tutta l’America è ora una grande discoteca gay. Non vi sono altri valori: a pochi passi da lì, ricordiamo Kennedy pronunciò lo storico discorso dell’Ich bin ein berliner. Il potere americano tuttavia ora ha più necessità di ricordare i «martiri» omosex-discotecari.
Lo ha detto il segretario di Stato Blinken in settimana: i «diritti» gay sono per la superpotenza un tema di sicurezza. L’ammiraglio Kirby, portavoce militare della Casa Bianca, aveva detto più o meno lo stesso l’anno scorso: i diritti LGBT sono il cuore della politica estera americana, aveva detto l’alto militare coi capelli tinti. Si trattava di una risposta a chi gli chiedeva dell’Uganda, tagliata fuori da aiuti e commerci con gli USA (e dai fondi della Banca Mondiale) a causa della sua legge anti-sodomia. En passant, ricordiamo cosa successe subito dopo: strane, improvvise stragi nel Paese ad opera di sigle terroriste che sembravano sparite da decenni… e poi gli islamisti che in Somalia trucidano una quarantina di soldati della forza di pace ugandese…
Ma torniamo alla One-Big-Gay-Disco.
Guardando le immagini del pride di Milano, con politici, cantanti e migliaia di tizi a caso ricoprono le strade della città, non si può non vedere che anche l’Italia ora è una grande discoteca gay.
Ma quanta gente c’era, tanta, tantissima. Ma da dove vengono tutti quelli? Sono tutti omo? Forse sì. Loro dicono di essere l’8% della popolazione, cifra molto esagerata, quando un libro di psicologia generale di quando ero all’università parlava invece di 2% – altra cifra contestata come gonfiata. Tuttavia, è innegabile: il divorzio ha prodotto ondate di omosessuali, il femminismo – che autorizza la primazia della madre sul padre, e immaginiamo la combinazione con l’inclinazione matriarcale di certe regioni del Sud – ha proseguito l’opera di creare bambini, uomini, a cui è stata fatta mancare, più o meno programmaticamente, la figura paterna – e da lì la questione dell’omosessualità, secondo la famosa teoria freudiana, ora mostruosamente proibita, dell’origine per padre assente o padre debole.
Maree di uomini gay, certo. Ma anche tante ragazze: perché? Sono tutte lesbiche? Ma no, è che in una società dove la maschilità è definita «tossica», la femmina sincero-democratica vede nell’omosessuale l’unico umano dotato di pene rimasto frequentabile.
È, a suo modo, una forma di desessualizzazione della donna: invece che stare con gli uomini, vuole stare con gli uomini gay, dove non rischia nulla (non è osservata, desiderata, o ancora peggio, non desiderata) e dove trova magari una claque adorante (…«adoro!») con cui esibire magari una versione forsennata della propria femminilità, o forse il contrario – l’importante è che in giro non ci sia la sfida del maschio, perché costa tensione, incertezza, dolore, fatica. Ecco spiegato anche il fenomeno delle cicci (in gergo, i gay chiamavano così le donne che frequentano omoessessuali) o fag-hug («abbracciafroci»): e non siamo nemmeno sicuri del fatto che non sappiano che, quando non ci sono, i loro amici gay magari si lasciano andare a crudeli battute di scherno e disprezzo nei loro confronti.
Tuttavia, la musica pompa alla grande al gay pride meneghino, e sul carro c’è Elly Schlein. Massì, proprio lei, il segretario PD, che ballonzola con a fianco l’onorevole Zan, intonso dopo le inchieste di Report sulle colossali manifestazioni LGBT da lui organizzate. Eccola che tira l’urletto: «uuh-oooh», poi mette in fila due parole aggressive sull’«orgoglio», mentre intorno ha una quantità di persone travestite come nemmeno a carnevale.
Elly Schlein, sì. La guardiamo e continuiamo a non capire: gli eredi del PCI davvero hanno preferito lei a Bonaccini? Lei che in Svizzera guardava la sigla di Occhi di gatto mentre il Bonaccia martellava il consiglio comunale di Modena e la Festa dell’Unità di qualsiasi microcomune emiliano? Lei che non sembra nemmeno toccata dalla responsabilità – nonostante l’armocromista, non pare grande lo sforzo estetico, diciamo così – mentre quell’altro per le elezioni 2020 (perse di un soffio contro la Lega…) aveva accettato un restyling metrosessualizzante fatto di barbetta e occhiali a goccia, finiti in un logo dove dietro ad essi non vi era nulla, un po’ come il ras democristiano Giovanni Goria (il maestro di Crosetto) disegnato da Forattini negli anni Ottanta.
Elly – Nully, la chiamano i cattivi – non è che sembra tremare al pensiero che siede nel trono che fu di Togliatti (sì): maddeché, le sta facendo, appunto, un giro sul carro. Finché dura. Musica appalla.
Uuh-oooh.
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E poi, una domanda, che sorge a visionare un po’ di immagini del festone omotransessualoide: ma perché non ci sono, da nessuna parte, persone avvenenti? Perché sono tutti o sovrappeso, o vecchi, o con qualche elemento (taglio o colore di capelli, piercing) che sembra negare ogni possibilità di beltà personale?
È un rifiuto programmatico? Forse: rigettando la legge naturale ci si deve allontanare, giocoforza, anche dalla bellezza.
E poi: tutte queste persone che hanno occupato, oltre che un intero mese e le città e le scuole e i palinsesti TV, anche un aggettivo che indica la felicità – gay, «gaio» – sono felici?
In realtà, ci si chiede dove siano finiti anche tutti quei gay, palestrati e magari un po’ pompatelli di steroidi, che si vedevano sfilare in gruppi pettonudisti o nudisti tout court (o con la mise sadomaso, o da puppy: quelli che fingono di essere dei cani dobermanni, e si fanno portare a spasso con guinzagli borchiati, e abbaiano) alle grandi marce arcobaleniste. Perché al loro posto ci sono occhialute lesbiche diabetiche? Perché ci sono ometti in gonna, che mai sono passati per una sala pesi? La risposta drammatica potrebbe essere che oggi essere frocio è divenuto troppo facile. Nessun sacrificio, perché tutto quello che vuoi, incluso il sesso, lo ottieni subito, per «diritto». Quindi perché sbattersi in palestra?
Abbiamo ascoltato qualche discorso dal palco, dove tizi vari, in alcuni casi dal sesso davvero indefinibile, sparano truismi e nullismi, di vario tipo, educandoci sul fatto che adesso si dice LGBTQI+, con il più letto «plus», cioè «plas», all’anglofona: tanto per capire dove tira il vento geopolitico della «frociaggine» (copyright Staff Bergoglio) .
Ma non tutto è privo di succo: ecco sul palco un tizio con evidente paura dei capelli bianchi che, dopo aver detto che «siamo tutti uguali perché diversi» (esiste per i luoghi comuni più estremi un premio internazionale chiamato Bulwer-Lytton, autore di un romanzo il cui incipit suonava: «era una notte buia e tempestosa») si lascia scappare qualcosa di interessante.
Dice: non lo Stato, né Dio, può ordinare loro come devono vivere. Interessante: quindi, Dio esiste? E se esiste, posso fare il contrario di quello che mi comanda? Un attimo: come è che si chiama quello che iniziò facendo il contrario di quello che chiedeva Dio? Sul tema: ricordo uno striscione, ad una manifestazione dinanzi la Casa Bianca: «I bet hell is faboulous», «scommetto che l’inferno è favoloso».
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La bandiera arcobaleno, che in verità ora è diversa da quella di pochi anni fa perché dispone di un inserto incistatovi dentro, il triangolone rosa-bianco-marron-nero dei trans, garrisce possente ovunque. Su Twitter si vedono immagini di Londra, dove le bandierine omotransessualiste hanno totalmente sostituito l’Union Jack, e in Gran Bretagna ti arrestano se in rete fai ironia con un meme sull’argomento. Australia, stessa cosa: difficile pensare, vista l’assenza di simboli nazionali e l’abbondanza di bandiere aliene, che non sia il segno del fatto che si sia finiti sotto un potere occupante.
Rammentate la Casa Bianca l’anno passato? Il drappo omotrans splendeva al centro del colonnato palladiano, le bandiere degli USA ai lati – il posto d’onore è per il vessillo di Sodoma… E solo la settimana scorsa Biden stava sul prato, sempre in evidente stato di amenza, mentre a due metri da lui ballava un nero barbuto vestito da donna.
Joe Biden appears to freeze during White House Juneteenth celebration 🤦♂️
— Clown World ™ 🤡 (@ClownWorld_) June 11, 2024
La faccenda è che, parrebbe, la faccenda potrebbe non durare. Un signore, padre di famiglia ed investitore famigliare, ha vergato pochi giorni fa un lungo post su Twitter, raccontando di aver notato come Greenport, un ricco paesino turistico della costa di Long Island, si è svuotato dal flusso di famiglie allegre ed altri visitatori.
Come mai? Lui fa capire che è perché una serie di negozi hanno esposto la bandiera omotransessuale, e le famiglie in USA cominciano a non sentirsi più sicure davanti a questo segno.
To whom it may concern,
There is a small town on the North Fork of Long Island in New York called Greenport.
It’s wine country and has been booming for the last couple of decades and really exploded during Covid.
Always used to be filled with bachelorette parties, families and… pic.twitter.com/doicpcusvC
— Petey B (@realpeteyb123) June 30, 2024
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Un commentatore scrive del pendio scivoloso per cui «sono passati dal “non ti deve interessare quello che faccio in camera da letto” al “devi assolutamente sapere cosa faccio in camera da letto”».
È un’osservazione bonaria: la realtà è che siamo passati – in pochi anni! – dal «diritto di visitare il compagno in ospedale» al diritto alla mutilazione sessuale dei bambini. Siamo lontani da una presa di coscienza della massa rispetto alla questione: tuttavia le immagini provenienti dalle drag queen story hour – dove, si raccontano, abbondano i bambini portati dalle loro mamme single – stanno svegliando qualche genitore.
C’è poi lo specioso caso dei murales stradali: bandiere arcobaleno al posto delle strisce pedonali, così da essere simbolicamente obbligati a passare per i colori dell’iride sodomista. Non ogni americano, tuttavia, sembra starci: ecco che si è innescata questa nuova tradizione di fare sgommate (con il SUV, con il motorino, con qualsiasi veicolo su ruota) sopra le strisce del gender stradale obbligatorio. Arresti e processi per i perpetratori: ma pensano sul serio che la repressione farà cambiare idea di chi non ne può più? Davvero non si rendono conto che la repressione non farà che radicalizzare ancora di più la crescente massa dei dissidenti?
West Virginia State Police are actively investigating a driver who, while driving a red van, left burn marks and tire marks on LGBT graffiti painted on the road with taxpayer money a few days ago. pic.twitter.com/ONcqAyAl8S
— S p r i n t e r F a m i l y (@SprinterFamily) June 15, 2024
I gay lo hanno capito? Gli oligarchi, loro creatori, pure? Probabilmente no, non ancora. È l’atteggiamento classico di chi sa che qualcosa di fondamentale esiste – tipo: Dio, la natura, la morale, la coscienza, etc. – ma preferisce far finta di niente e ignorare tutto. Fino al «ritorno del rimosso», un altro concetto del Freud ora in via di divieto totale. Cioè, fino a che la realtà, la verità, non torna in superficie, e ti esplode in faccia.
Ma, con questo ritmo che pompa, qualcuno si preoccupa?
Per il momento, tutti in strada a ballare. Perché l’Italia, l’Europa, il mondo, è una grande discoteca gay. One-Big-Gay-Disco.
Il problema è che la musica potrebbe finire prima di quello che pensano.
Roberto Dal Bosco
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Civiltà
L’anarco-tirannia uccide: ieri ad Udine, domani sotto casa vostra
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