Eutanasia
Suicidio assistito, diritto manipolato e distruzione della società
La legge sul suicidio assistito di recente approvata dalla Regione Toscana, è di certo l’approdo di fattori concomitanti e connessi.
Fattori che hanno a che fare, nella società contemporanea omogeneizzata, sia con la perdita dei principi etici fondamentali e con l’allontanamento da quelli religiosi che ne erano interpreti privilegiati, sia con le manipolazioni e le distorsioni di un’opinione pubblica sempre più in balia di suggestioni indotte mediaticamente, con le inclinazioni individualistiche e nichilistiche che hanno offuscato, fino quasi alla cancellazione, il senso e la idea stessa del bene comune ormai totalmente fagocitata da quella della priorità dei desideri e delle esigenze individuali.
Ma l’impoverimento culturale diffuso e generalizzato, ha travolto inevitabilmente, insieme alla politica, all’etica e all’estetica, in modo particolare anche il diritto, sotto ogni profilo formale e sostanziale, E bisogna subito mettere in luce come la sua crisi sia anzitutto una crisi di identità, cioè di sfaldamento delle sue basi concettuali, di ‘offuscamento delle sue finalità costitutive, della sua tecnica costitutiva, e dei confini entro i quali è chiamato ad operare.
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La crisi del diritto si dispiega inoltre, sia all’interno, nello scadimento della sua funzione regolatrice della società, sia all’esterno, nella percezione distorta che di quella funzione si fa strada nel sentire comune. Mentre la distorsione investe tanto il diritto soggettivo, cioè la pretesa individuale riconosciuta meritevole di tutela nell’interesse della collettività (ecco la creazione di «diritti» che non possono essere considerati tali proprio perché non hanno nulla a che fare con il diritto soggettivo), quanto il diritto oggettivo, cioè l’insieme delle norme che costituiscono l’ordinamento giuridico, di cui la società si dota per proteggersi, consolidarsi ed espandersi culturalmente e materialmente.
Questa crisi del diritto che investe sia la sua produzione e attuazione, sia la sua percezione generalizzata, si avvale del fenomeno dello slittamento semantico anch’ esso generalizzato, spesso forgiato ad arte, per cui sono le parole a creare la realtà e non viceversa, e sotto la loro cortina fumogena viene eliminato l’ingombro del pensiero.
Su questo sfondo va letta dunque la vicenda che qui ci interessa, del cosiddetto «suicidio assistito» nella quale tutti questi aspetti si riassumono in modo esemplare: la degenerazione normativa, la distorta percezione del fenomeno giuridico, il travisamento dei suoi contenuti e delle sue finalità nel comune sentire, ovvero in quel senso comune di manzoniana memoria, venutosi a creare sotto la pressione della rieducazione mediaticamente imposta.
Occorre perciò richiamare alcuni concetti elementari quanto fondamentali.
Il diritto, e quello penale in particolare, è lo strumento che una società organizzata si dà per potersi garantire una convivenza ordinata e pacifica.
La legge penale in primo luogo assolve questa funzione ordinatrice e pacificatrice individuando i valori fondamentali che debbono essere tutelati per consolidare i fondamenti etici irrinunciabili su cui si può reggere la società.
La tutela come è noto avviene attraverso la minaccia di una sanzione che andrà a colpire chi mette in pericolo questi valori, che chiamiamo «beni giuridici» perché appunto riconosciuti meritevoli di tutela dalla legge penale, in quanto fondativi di una convivenza pacifica e ordinata.
Fra questi va individuata altresì la rosa dei «diritti indisponibili», ovvero di quei valori, quali la vita, la integrità fisica, la libertà personale etc. che sono ritenuti tali per la loro importanza capitale, e vanno difesi ad oltranza erga omnes, anche nei confronti di chi ne sia titolare particolare, perché stanno a presidio della conservazione e persino della stessa sopravvivenza della intera comunità organizzata.
Etiamsi deus non daretur, secondo la locuzione di Grozio ricordata più volte da Benedetto XVI, a proposito dei «valori non negoziabili».
Qui bisogna sottolineare, appunto, come l’indisponibilità da parte del titolare particolare sancita dall’ordinamento, deve essere riconosciuta da ogni società che non voglia votarsi alla autodistruzione.
Inoltre la necessità di una difesa avanzata di questi beni, è bene sottolinearlo, opera non soltanto nei confronti di chi fra i consociati li possa aggredire, ma anche nei confronti dello stesso potere politico che potrebbe violarli abusando degli strumenti di coercizione di cui dispone.
In altre parole, la tutela dei valori fondamentali rappresenta anche un baluardo nei confronti della entità statuale che, attraverso un uso arbitrario del potere, operi non per il bene comune ma per la propria perpetuazione, violando proprio le norme destinate a regolare i comportamenti del cittadino comune. Il potere politico può utilizzare gli apparati di cui dispone, per fini contra legem.
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Sicché quanto più strette sono le maglie della norma penale in tema di diritti indisponibili, tanto più forte sarà la funzione difensiva della legge anche nei confronti del potere politico, in quel quadro di stato di diritto che tanto viene invocato a sproposito nei giorni nostri da chi ne ignora proprio il significato.
Alla luce di queste considerazioni dovrebbe essere letta l’esigenza di non ammettere deroghe di sorta alla punibilità delle violazioni delle norme poste a difesa della vita umana con la sola eccezione della legittima difesa, che introduce il criterio del bilanciamento degli interessi, dove il valore della vita di chi si è messo al di fuori delle regole dell’ordinamento, cede il passo al valore della vita messa in pericolo dall’aggressore.
Se passiamo a considerare la norma dell’articolo 580 C.P., che punisce con la reclusione da uno a cinque anni, «chiunque determina altri al suicidio, o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, se il suicidio avviene» vediamo come il legislatore abbia inteso difendere l’attacco al valore della vita umana anche quando esso sia portato dal soggetto che ne è titolare particolare.
Proprio perché si tratta della difesa oggettiva di un bene al quale l’ordinamento assegna un valore superiore al valore attribuitogli dal singolo che ne è portatore. In altre parole non viene lasciato spazio alla considerazione soggettiva di questi, perché si tratta di un bene che riguarda l’intera comunità e come tale viene tutelato oggettivamente.
La punizione dell’omicidio del consenziente conferma in modo incontrovertibile questa base concettuale, infatti il consenso della vittima non esclude l’omicidio anche se ne attenua la sanzione ad un massimo di quindici anni di reclusione.
Ma ecco che l’irrompere del soggettivismo e del nichilismo adottato da forze diventate culturalmente più prepotenti che dominanti, diventa l’ariete volto a scardinare non soltanto un assetto etico, ma anche il sistema giuridico che dovrebbe concorrere a tenerlo saldo. Perché il diritto, se deve essere tenuto concettualmente distinto dalla morale, ha pur tuttavia una funzione etica fondamentale, e che dovrebbe essere salvaguardata per la tenuta stessa della società.
La locuzione, «suicidio assistito», divenuta corrente, tradisce già l’aggiramento della norma di cui all’articolo 580 che è già stata aggredita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 243 del 2019.
Da questa ha preso le mosse la recente legge regionale toscana, salutata dal governatore Giani, come «un forte messaggio di civiltà».
Non si tratta di negare che il divenire dei tempi comporti mutamenti oggettivi del comune sentire di cui si deve tenere conto. Ma questi mutamenti, che possono interessare aspetti secondari e a volte quasi folcloristici della vita comunitaria, come il sempre fluttuante e frivolo mutare dell’abbigliamento e delle abitudini quotidiane, non ha nulla a che fare con i fondamenti della vita comunitaria. Qui infatti, anche piccole incrinature sono destinate ad allargarsi fino alla distruzione totale di un edificio che è indispensabile tenere saldo per la sopravvivenza di una qualunque società umana civilizzata.
Come nella antica favola del piccolo buco nella diga olandese che il bambino tenta di chiudere col proprio ditino, conscio dell’immane pericolo che da quella falla può derivare. Ma ecco che, e qui entriamo nel vivo del nostro tema, la falla viene prodotta e poi allargata proprio dagli organi che dovrebbero mirare alla salvaguardia del sistema normativo.
E non possiamo non fare riferimento alla Corte Costituzionale, istituita per assicurare l’aderenza delle leggi dello Stato ai principi fondamentali fissati come intangibili dalla Carta Fondamentale.
La Corte ha elaborato nel tempo, in perfetta e intoccabile autonomia, l’autopotenziamento, ovvero lo allargamento dei propri poteri decisori che dal controllo sulla legittimità delle leggi esistenti ha finito per sconfinare, e continua a sconfinare sempre più vistosamente, verso l’appropriazione di poteri sostanzialmente legislativi. Non senza il farisaico e immancabile richiamo alla necessità di un intervento diretto da parte di quel Parlamento al quale risparmia la fatica di legiferare con generosità democraticamente ostentata.
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La Corte Costituzionale come è noto ha elaborato accanto alla tipologia di sentenze previste dalla legge istitutiva, anche le sentenze cosiddette non per nulla «manipolative» con le quali introduce novità normative dichiarandola incostituzionale per quello che non c’è (sentenze additive), cioè quello che ritiene un vuoto illegittimo. Ma anche aggiungendo direttamente qualcosa a quello che c’è (sentenze sostitutive).
Insomma un paradosso che, al di là delle critiche sparse, è stato accettato per quello che è, sicché una invenzione sostanzialmente arbitraria si è trasformata in prassi riconosciuta. Questo a partire dai lontani anni Sessanta del Novecento quando attraverso una sentenza di tal fatta si estesero all’istruzione sommaria del Pubblico Ministero i diritti già garantiti all’imputato nella istruzione formale tenuta dal giudice istruttore, secondo il rito di allora.
Forse la benevolenza con cui fu accolta la trovata della Corte Costituzionale, mise in ombra la finestra che si apriva su una vera e propria usurpazione di potere nei confronti del Parlamento. E oggi sappiamo berne come il principio della separazione dei poteri consacrato da Montesquieu quale antidoto all’arbitrio, sia diventato un superato pezzo di antiquariato nella contemporaneità del caos istituzionale e istituzionalizzato.
Va aggiunto che se la Corte Costituzionale si sostituisce di fatto al Parlamento, pur invocando farisaicamente un suo successivo intervento «riparatore», mostra di fare da cassa di risonanza di istanze provenienti dalla collettività e quindi rappresentative di esigenze profonde e generalizzate. Quando sappiamo che certi orientamenti, enfatizzati dai mezzi di comunicazione e dettati da poteri sovraordinati impegnati ad imporre idee fittizie spesso in conflitto col sentire comune.
Veniamo dunque alla iniziativa legislativa della Regione Toscana, che il governatore ha definito con orgogliosa sicurezza «un forte messaggio di civiltà».
La Corte Costituzionale con la sentenza 242 del 2019, ha risposto prontamente alle spinte propagandistiche di una ben orchestrata campagna mediatica. Quella che facendo leva non sulla ragione, sull’etica, e tanto meno sulla logica giuridica, punta sulle «emozioni», la nebulosa che ha sostituito il buon senso con il senso comune e che costituisce il grimaldello capace di scardinare il pensiero, le ragioni dell’etica e del diritto, qualunque spazio di trascendenza e di saggezza, anche religiosamente ispirato.
Ma a dispetto di ogni esigenza superiore, oggi le emozioni si comprano e si vendono a buon mercato nella società del consumo di massa, con la Chiesa in ritirata e la incapacità diffusa di guardare filosoficamente e soprattutto razionalmente, al di là della materialità quotidiana e della prospettiva personale.
Questo il terreno favorevole perché il nuovo zeitgeist facesse sentire i giudici della Corte obbligati a forzare il contenuto e il senso della norma penale che fissa e sancisce la indisponibilità della vita umana.
Anche se non si arriva ancora a introdurre norme penali incriminatrici in via di sentenza, dato che vige ancora, bontà loro. Il principio di legalità «nullum crimen sine lege», viene introdotta tuttavia una causa di non punibilità la quale, se sfugge a quel principio, si presenta comunque come una novità introdotta di fatto nel codice penale. «Non è punibile chi agevola l’altrui suicidio se la persona è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».
Poi con la sentenza n.153 del 2024 la Corte ha indicato i soggetti, all’interno delle strutture ospedaliere competenti ad accertare le condizioni capaci di legittimare la condizione di non punibilità dell’aiuto al suicidio, aggirando l’ostacolo di una inaccettabile e sconveniente invasione normativa in campo penale. Insomma, ha stabilito sempre in via surrettizia, che la decisione sull’assistenza al suicidio venga presa in ambito sanitario, affidata alla direzione e al controllo di organi interni alle strutture ospedaliere.
Questa ospedalizzazione dell’aiuto al suicidio è non solo un escamotage per aggirare gli straripamenti di potere, ma anche per aprire la strada, volontariamente o meno, questo non sappiamo, ad interventi «regionali» come quello puntualmente arrivato dalla Regione Toscana, che si sottraggono apparentemente al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.
Infatti mentre la materia penale è sottratta alle competenze legislative della Regione, la materia sanitaria rientra nelle competenze concorrenti, per cui a determinate condizioni la Regione può legiferare legittimamente e, appunto così ha preteso di fare, applicando tutte le direttive pratiche indicate dalla Corte, circa la procedura per la «assistenza al suicidio».
Ora non va dimenticato a questo proposito come la strada per legittimare questo marchingegno sia stata inaugurata già nel 2009 col caso Englaro, quando sulla scia dell’altrettanto tragica vicenda dell’americana Terri Schiavo, di qualche anno prima, abbiamo assistito impotenti alla uccisione in sede ospedaliera su autorizzazione del giudice di Cassazione.
Il fenomeno si è poi amplificato in con l’esempio inaudito offerto ripetutamente in questi anni dagli ospedali londinesi e dal sistema giudiziario britannico per cui un giudice ha potuto affidare ai «sanitari» il potere di uccidere impunemente bambini di pochi mesi, ritenuti socialmente inutili perché malati, e nella impossibilità imposta ai genitori di sottrarli a quella «condanna a morte».
Doppia inaudita mostruosità, che mentre esibisce il capovolgimento dei valori morali fondamentali, manda al macero secoli di cultura giuridica sbandierata dall’Occidente come propria conquista distintiva.
Una inedita ferocia praticata impunemente in ambiente sterile (sotto ogni punto di vista) e impunemente imposta ad una società che appare ormai lobotomizzata, perché se non lo fosse si ribellerebbe a tante mostruosità.
Perché si renderebbe conto che il trasferimento in ambito ospedaliero del potere di uccidere da parte di una autorità giurisdizionale, rappresenta in modo esemplare proprio quella micidiale confusione e commistione di poteri in cui si consuma il sopravvento di un potere politico emancipato da ogni principio regolatore e da ogni criterio di legittimazione.
Per questo occorre tenere sempre presente il problema del circolo vizioso della legge che in quanto espressione necessaria del potere politico che la pone, è esposta a divenire oggetto del suo arbitrio anche se nasce proprio per sottrarre la società al caos e all’arbitrio. Insomma il pericolo dello abuso del diritto per finalità contrarie a quelle che il diritto è chiamato a perseguire.
Basterebbe ricordare come tra Settecento e Ottocento sulla scia dell’illuminismo si sia formata quella scienza del diritto penale che, occorre ripeterlo, nell’epoca in cui è ancora in auge la tortura, mirava a proteggere il cittadino, attraverso la precisa determinazione dei delitti e delle pene, e le regole per la applicazione della legge, dallo arbitrio del giudice e dall’arbitrio del potere.
In ultima analisi va detto come si venga consolidando di nuovo uno slittamento semantico volto a creare l’ambiente psicologicamente adeguato per l’accettazione diffusa di questa nuova realtà. Infatti non si nomina più neppure il suicidio, ma genericamente il «fine vita» che oscura «la morte inflitta» a sé o ad altri, per coprirla con il mantello eterno e destinale della natura che fa il proprio corso.
L’ennesimo gioco di parole già messo a segno, perché adottato da molti inconsapevolmente, per l’ennesimo oltraggio al diritto come alla natura e alla dignità immutabile dell’uomo. Perché quest’ultima è cosa diversa dal concetto mutevole e variegato che ogni congrega di nichilisti in carriera, cerca di imporre per riempire il vuoto delle proprie idee con il vuoto delle parole senza copertura di un pensiero vitale, l’unico meritevole di essere trasmesso.
In questo quadro va collocato da ultimo per motivi di cronologia, ma di importanza capitale nel l’ambito delle considerazioni espresse sopra, anche il tema della cosiddetta intelligenza artificiale.
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La nuova sirena in breve tempo ha già acquistato il potere di abbacinare le moltitudini che incantate dai suoi prodigi, sono incapaci di guardare al di là delle luci, una enorme voragine già spalancata.
Nel campo della istruzione come del comune sentire, della guerra come della normale vita di relazione, delle capacità cognitive e del normale sviluppo delle maturazioni esistenziali, nella elaborazione del pensiero in generale.
E se torniamo all’argomento specifico di cui qui si è parlato, questo strumento a dir poco allarmante, dovrebbe presentarsi in tutta la sua inquietante forza distruttiva.
Non so se i giudici, il legislatore, i politici o i vari Cappati, si siano posti il problema di come anche la vita e la morte, oltre al tutto il resto, possano essere allegramente affidati ad un o giocattolo perverso del quale si perde il controllo e al quale vengono affidate le chiavi dell’esistenza. Perché è ad esso che domani sarà delegato il potere soprannaturale di decidere, chi, come e quando e fino a quando si può vivere, morire o sopravvivere.
Il gigante è pronto a divorare i suoi figli come negli antichi miti premonitori.
Patrizia Fermani
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Eutanasia
I canadesi disabili ora sono sottoposti alla proposta di essere eutanatizzati come parte delle visite mediche di routine
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Bioetica
Morte cerebrale, trapianti, predazione degli organi, eutanasia: dai criteri di Harvard alla nostra carta d’identità
Renovatio 21 pubblica la relazione del nostro collaboratore Alfredo De Matteo alla Conferenza «Il Dramma dell’eutanasia» organizzata da Federvita Piemonte a Torino lo scorso 11 ottobre.
Il tema che mi è stato assegnato è molto vasto e pieno di implicazioni mediche, giuridiche, etiche e filosofiche ed è pertanto molto difficile condensarlo nel tempo previsto per un singolo intervento. Mi perdonerete se tratterò questioni complesse in maniera non esaustiva, ma spero comunque che la mia esposizione risulti chiara, soprattutto nelle sue conclusioni.
Prima di affrontare lo spinoso tema della morte cerebrale e dell’espianto di organi vitali credo sia opportuno definire il concetto di «morte». Tradizionalmente, essa viene identificata con la cessazione di tutte le funzioni vitali di un organismo, che sono essenzialmente riconducibili a tre: sistema nervoso, respiratorio e circolatorio, ossia la cosiddetta tripode vitale. Tuttavia, la morte non è un evento che può essere osservato nel momento in cui si verifica ma solamente a posteriori, ossia dopo che essa è già avvenuta.
In altre parole, per avere la certezza dell’avvenuto decesso di un essere umano è necessario che vengano riscontrati sul cadavere i segni inequivocabili della morte, ossia l’inizio del processo di decomposizione del corpo: l’algor mortis (il raffreddamento del corpo), il rigor mortis (la rigidità cadaverica) e il livor mortis (il ristagno e la coagulazione del sangue). Tali segni rappresentano il punto di non ritorno alla vita.
La morte infatti è un evento complesso poiché l’uomo, in virtù dell’unione sostanziale con un’anima spirituale, non è un semplice agglomerato di organi, tessuti e funzioni né il suo principio vitale può essere ridotto alla funzionalità dei suoi organi o di un singolo organo. È possibile ritenere certamente viva una persona cosciente e certamente morto un corpo putrefatto o allo stato iniziale della putrefazione. La morte, intesa come il distacco dell’anima dal corpo, è collocabile nello spazio temporale compreso tra questi due stati. Un terzo stato dell’essere tra la vita e la morte, semplicemente, non esiste.
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La civiltà occidentale nel corso dei secoli ha uniformato il suo diritto e la sua morale alla tradizione filosofica secondo cui l’essere umano è composto, appunto, di anima e corpo e ha nell’anima razionale il principio vitale che lo caratterizza. È bene ribadire che questo principio vitale di natura spirituale, pur essendo nel corpo, non si trova nel cuore, nel cervello né in qualsiasi altro organo, tessuto o funzione.
Ciò che sostanzia l’uomo non è dunque l’intelletto, né l’autocoscienza e neppure l’interazione sociale, come ci vogliono far credere, bensì l’anima razionale che contiene in potenza l’uso di tutte queste funzioni. La vita umana inizia con l’infusione dell’anima nel corpo e termina con la separazione da esso, nel momento in cui l’organismo si dissolve nei suoi elementi.
I casi di morte apparente, ossia di ritorno alla vita dopo diverse ore in cui sono scomparse tutte le manifestazioni vitali, stanno a dimostrare che fra il momento della morte accertata e quella reale esiste sempre e comunque un periodo più o meno esteso di vita latente.
A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’avvento delle moderne tecniche di rianimazione ha permesso di salvare la vita di un gran numero di persone destinate a morte certa. In particolare, la ventilazione artificiale ha consentito di supportare la respirazione di tutti quei pazienti che sono parzialmente o totalmente incapaci di respirare spontaneamente.
Tuttavia, la diffusione in ambito ospedaliero di queste nuove procedure rianimatorie ha sollevato la questione di cosa fare con tutte quelle persone che sopravvivono grazie ad esse ma che non mostrano, almeno apparentemente, alcun segno di attività cerebrale e la cui prognosi risulta infausta. Parallelamente, proprio in quegli anni, alcuni chirurghi cominciarono a sperimentare la tecnica dei trapianti di organi.
Figura di spicco in questo ambito fu l’ambizioso chirurgo sudafricano Christiaan Barnard, il quale nel 1959 riuscì a portare a termine il primo trapianto di rene in Sudafrica dopo che esso era già stato effettuato con successo negli Stati Uniti nel 1953. Barnard sperimentò per anni, in gran segreto, il trapianto di cuore sugli animali, cercando di affinare la tecnica.
Il primo trapianto di cuore al mondo venne effettuato il 3 dicembre 1967: il cuore di Denise Darvall, una giovane donna caduta in coma considerato irreversibile, venne impiantato nel corpo di un atleta lituano affetto da una grave patologia cardiaca e prese a funzionare regolarmente. Il ricevente l’organo morì dopo soli 18 giorni a causa di una grave polmonite, ma la notizia fece comunque il giro del mondo e Barnard divenne una stella di fama internazionale. A questo punto però, c’era da risolvere il problema legale legato ai trapianti di organi vitali. Infatti, i chirurghi e le équipe mediche che effettuavano tali interventi correvano il rischio di venire incriminati per omicidio in quanto gli organi venivano prelevati a cuore battente e dunque da soggetti ancora in vita.
A tale scopo la comunità scientifica internazionale convocò, nel 1968, una commissione ad hoc, la famosa commissione di Harvard, composta da un certo numero di professionisti di diversa estrazione (tra costoro figurava anche uno storico), che venne incaricata di redigere un nuovo criterio di morte, basato sulla cessazione di tutte le funzioni encefaliche. La commissione stabilì, nell’agosto di quell’anno, che potevano essere dichiarate decedute non solamente le persone che non presentavano più alcun segno vitale ma anche quelle le cui sole funzioni cerebrali risultavano irrimediabilmente e irreversibilmente compromesse.
In pratica, l’escamotage utilizzato della comunità scientifica internazionale fu quello di dichiarare morte le persone ancora vive.
La commissione non presentò, di fatto, alcun argomento decisivo a supporto della nuova definizione di morte (del resto come avrebbe potuto?). Furono gli stessi membri del comitato di Harvard ad ammetterlo attraverso le seguenti dichiarazioni: «il peso è più grande per i pazienti che soffrono della perdita permanente dell’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali, e per quanti hanno bisogno di posti letto già occupati da altri pazienti comatosi (…) Criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto».
Dunque, l’introduzione del criterio della morte cerebrale o encefalica non fu il risultato di una riflessione teorica e filosofica sulla morte, ma piuttosto della volontà di risolvere due esigenze di natura pratica: contenere il numero dei pazienti bisognosi di cure adeguate a lungo termine e legittimare l’espianto degli organi vitali.
Passiamo ora ad analizzare le principali criticità di un costrutto artificiale che, è bene ricordare, non è mai stato validato da un punto di vista scientifico ma che anzi si pone sfacciatamente contro l’evidenza dei fatti.
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Innanzitutto, esso si basa sulla tesi secondo cui il principio vitale dell’uomo risiede nel cervello. Sulla base di tale assunto, questo meraviglioso e complesso organo rappresenterebbe, per così dire, la centralina che regola il funzionamento dell’organismo umano. Un cervello le cui funzioni sono totalmente e irrimediabilmente compromesse decreterebbe la fine dell’essere umano come un insieme integrato. In quest’ottica, i segni vitali ancora presenti nell’individuo dichiarato cerebralmente morto costituirebbero dei meri riflessi e/o funzioni mantenute in maniera artificiale mediante il supporto farmacologico o l’ausilio di macchinari.
Tuttavia, non si capisce come possa un organismo completamente disgregato, un ammasso di organi senza più alcun coordinamento centrale, mantenere inalterate praticamente tutte le funzioni di base. Ad esempio, sia il sistema metabolico che quello immunitario dei pazienti dichiarati cerebralmente morti risultano perfettamente funzionanti. Il presunto cadavere conserva responsività agli stimoli e può anche mostrare dei movimenti spontanei come il cosiddetto fenomeno di Lazzaro, durante il quale egli compie dei movimenti anche ben coordinati che lasciano supporre il coinvolgimento del cervelletto e delle aree superiori dell’encefalo. Inoltre, vengono spesso rilevate nel soggetto in morte cerebrale delle risposte che di norma sono mediate dal tronco encefalico, come l’aumento della frequenza del battito cardiaco e della pressione sanguigna sia all’inizio che nel corso dell’intervento per la rimozione degli organi.
La presenza di movimenti spontanei nella persona che viene sottoposta all’espianto è tale che durante l’operazione è sempre necessario paralizzarla e in alcuni casi si provvede a sedarla. A ben vedere, il soggetto è anche in grado di respirare visto che ciò che ha smesso di funzionare, almeno temporaneamente, sono solamente i centri respiratori ma non la sua capacità di metabolizzare l’ossigeno.
Addirittura, le donne incinte possono portare a termine la gravidanza. Recentemente, si è verificato il caso di una donna di Atlanta incinta di due mesi, dichiarata cerebralmente morta a seguito di un malore, e «costretta» a vivere (può continuare a vivere una persona dichiarata morta?) per quattro mesi perché la legge vigente in Georgia vieta l’aborto in presenza di battito cardiaco del feto. La gravidanza non è uno stato che richiede necessariamente un alto livello di integrazione corporea? E ancora: è logico anche solo ipotizzare che un morto sia in grado di custodire e generare la vita?
Ma c’è un’ulteriore difficoltà nel considerare il cervello come sede dell’essere: visto che esso è l’organo che nello sviluppo fetale si forma più tardi (intorno al terzo mese della gravidanza), come è possibile ritenere imprescindibile alla vita il funzionamento dell’encefalo? In sostanza, nella nuova definizione di morte commissionata agli «esperti» di Harvard, al cervello viene arbitrariamente attribuito il ruolo che compete invece all’anima razionale, ossia dirigere e governare tutti gli organi e le funzioni che compongono l’organismo umano.
Con l’introduzione del rivoluzionario criterio della morte cerebrale, il cogito ergo sum di cartesiana memoria entra prepotentemente nel diritto e nella prassi medica, finendo per relegare l’essere umano nell’angusto ambito dell’autocoscienza. Di conseguenza, a prescindere dalla condizione clinica e dallo stato di coscienza in cui si viene a trovare un determinato soggetto, il suo diritto alla vita è subordinato alla «qualità» della sua esistenza, che si fonda essenzialmente sulle sue capacità intellettive. I casi relativamente recenti di Vincent Lambert in Francia, di Charlie Gard e Alfie Evans in Inghilterra, di Eluana Englaro in Italia, stanno a dimostrare che una volta ridefinito il criterio di accertamento della morte si è passati consequenzialmente a ridefinire il significato stesso di essere umano, attraverso l’arbitraria distinzione tra vite degne e indegne di essere vissute.
Ma c’è un secondo grosso nodo da sciogliere nella nuova definizione di morte. Come si fa a stabilire con assoluta certezza che il cervello ha definitivamente smesso di funzionare? Allo stato attuale delle conoscenze, siamo in grado di accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tutte le funzioni cerebrali di un paziente clinicamente morto siano irreversibilmente compromesse?
Nel 2017 la rivista Current Biology ha reso noto un esperimento scientifico condotto dalla neuroscienziata Angela Sirigu, la quale è riuscita a recuperare la coscienza di un paziente in stato vegetativo attraverso una serie protratta nel tempo di elettrostimolazioni del nervo vago. La particolarità dell’esperimento effettuato dalla ricercatrice italiana è dovuta al fatto che il paziente non aveva più alcun contatto con il mondo esterno da ben 15 anni e la sua condizione era considerata irreversibile.
Anche secondo la neurologa Silvia Marino, la quale è riuscita attraverso la somministrazione di stimoli di vario genere a far passare un certo numero di pazienti dallo stato cosiddetto vegetativo a quello di minima coscienza, il termine irreversibile applicato ai disturbi della coscienza non è più utilizzabile. Dunque?
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In ogni caso, anche qualora si riuscisse a provare l’assenza di qualsiasi funzione cerebrale, è comunque privo di fondamento, come abbiamo visto, ritenere che la morte dell’encefalo sia un indicatore della morte di tutto l’organismo. Pensate, che anni fa si verificò il caso di un bambino entrato in stato di morte cerebrale all’età di quattro anni e morto, senza aver mai ripreso a respirare autonomamente, quando ne aveva ventitré!
Sulla base di questo e di altri casi simili è veramente difficile continuare a sostenere la tesi che un cervello funzionante sia la condizione necessaria per la vita di un essere umano. Tra l’altro, la stessa comunità scientifica è divisa su quali aree del cervello è necessario prendere in considerazione per decretare la morte cerebrale di un individuo.
Nel celebre documento di Harvard, la morte viene definita come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (morte cerebrale totale), ma dato che i criteri clinico-strumentali adoperati per accertarla non sono in grado di rilevare effettivamente la cessazione irreversibile di tutte le funzioni encefaliche, un neurologo inglese arrivò alla conclusione che fosse sufficiente accertare la distruzione del solo tronco encefalico (tesi anch’essa priva di fondamento scientifico).
Il risultato è che in alcuni paesi, tra cui l’Italia, è obbligatorio effettuare l’EEG, un esame diagnostico che misura e registra l’attività elettrica cerebrale, mentre in altri, come l’Inghilterra, esso non è ritenuto necessario. In effetti, oltre al fatto che un tracciato elettroencefalografico può essere normale anche se piatto (ad esempio, adulti ansiosi o neonati possono presentare un tracciato piatto non patologico), le modalità di registrazione elettroencefalografica non garantiscono risultati certi, dal momento che essi possono essere influenzati da diversi fattori, tra cui l’effetto tampone provocato da importanti addensamenti di sangue all’interno del cranio.
Non solo, il limite dei 2 microvolts di attività elettrica cerebrale sotto cui non ci sarebbe la vita costituisce una soglia convenzionale valida solo ai fini legali, visto che essa non corrisponde ad un ipotetico zero strumentale e visto che i risultati dell’esame elettroencefalografico dipendono anche dalle cangianti tarature degli apparecchi e dall’impossibilità tecnica di amplificare segnali elettrici più bassi.
Un capitolo a parte è rappresentato dalle procedure atte a stabilire la morte cerebrale. Innanzitutto, è possibile constatare come la morte da evento naturale, oggettivo ed osservabile sia stata di fatto trasformata in un evento artificiale, niente affatto oggettivo né tantomeno osservabile, ma riscontrabile unicamente attraverso la tecnica medica.
In altri termini, la morte viene tolta allo sguardo dell’uomo e confinata nei reparti di rianimazione degli ospedali. Ciascuno di noi, in un modo o nell’altro, ha fatto l’esperienza della morte e ciascuno di noi è capace di riconoscerla, indipendentemente dal livello di istruzione o dalle conoscenze nel campo della medicina.
Un corpo freddo, bianco e rigido è certamente quello di un cadavere, mentre un corpo caldo, colorito e con un cuore che pulsa è certamente quello di una persona viva. Ebbene, con l’introduzione del nuovo criterio l’accertamento della morte diventa una questione riservata esclusivamente agli addetti ai lavori.
Anzi, a ben vedere nemmeno i medici sono in grado di stabilire se un uomo è deceduto oppure no (ai sanitari spetta solo il compito di applicare pedissequamente i protocolli); a certificarlo sono unicamente dei test clinici effettuati con specifici macchinari.
Ma quali sono questi test? In cosa consistono?
Innanzitutto, la prima cosa da rilevare è che essi non sono gli stessi in tutti i paesi del mondo oppure vengono applicati in maniera differente. Ad esempio, il tempo di osservazione della morte, il cosiddetto silenzio cerebrale, varia da paese a paese e va da un minimo di due ore di osservazione ad un massimo di sei ore.
Abbiamo già visto come in alcuni paesi l’elettroencefalogramma è obbligatorio ai fini della dichiarazione di morte mentre in altri non lo è. Per quanto riguarda la cosiddetta morte cardiaca (di cui parleremo meglio più avanti) il tempo di arresto necessario affinché si possa decretare la morte del cervello per mancanza di ossigeno è di 20 minuti in Italia, mentre è di soli 5 minuti in Spagna e in altri paesi.
È dunque possibile affermare senza timore di smentita che, in linea teorica, lo stesso paziente può essere dichiarato morto in Inghilterra o in Spagna e vivo in Italia (alla faccia dell’oggettività della morte cerebrale).
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Vale la pena soffermarsi su una procedura in particolare: il famigerato test di apnea, l’ultimo esame diagnostico che viene effettuato al termine dell’esplorazione dei riflessi del tronco encefalico, quando questi risultano assenti.
L’obiettivo del test è dimostrare la perdita della funzione del centro del respiro situato a livello bulbare attraverso l’accumulo di CO₂. In pratica, il paziente viene disconnesso dal respiratore e, una volta raggiunto un certo valore soglia di CO₂ nel sangue, se non si attiva la respirazione spontanea viene dichiarata la morte encefalica.
Per la legge italiana questo «esame» deve essere effettuato per ben due volte, all’inizio e al termine del periodo di osservazione.
Le linee guida per l’esecuzione del test di apnea raccomandano di sostituirlo con il test di flusso cerebrale qualora, nonostante le opportune precauzioni, la procedura causi la comparsa di gravi complicanze tali da compromettere seriamente le funzioni biologiche del paziente (quindi il fatto che sia potenzialmente letale è scritto nero su bianco)
Pertanto, l’attivazione di una simile procedura in un paziente con estremo bisogno di cure non è esattamente un toccasana per la sua salute. Spesso, infatti, il test di apnea non fa che peggiorare il quadro clinico del paziente, riducendo se non addirittura azzerando le sue possibilità di recupero.
È un po’ come se una persona caduta in una piscina venisse salvata dalla morte per annegamento attraverso le tecniche di rianimazione cardiopolmonare, per poi essere gettata di nuovo nella piscina al fine di verificare la sua capacità di riemergere dall’acqua per riuscire a respirare…
Non rappresenta, domandiamo, una chiara violazione dei diritti del malato sottoporre il comatoso a dei test potenzialmente letali quando egli, fino a prova contraria, è ancora in vita?
Non solo: quando il paziente viene sottoposto ai test di accertamento deve essere libero dai farmaci che possono influenzare lo stato di coscienza o deprimere la respirazione. In altri termini, al paziente vengono sospese le cure.
C’è da sottolineare poi un fatto: di norma, le procedure di accertamento della morte encefalica vengono attivate molto in fretta, ossia poco tempo dopo il ricovero in ospedale; parliamo di pochi giorni o addirittura poche ore.
Allora ci si domanda: perché tutta questa fretta nell’avviare i protocolli e attivare una serie di procedure che non sono a rischio zero per i pazienti, ma che possono causare loro ulteriori danni?
C’è il fondato sospetto che questa immotivata celerità nel dichiarare la morte cerebrale risponda all’esigenza di evitare che la vittima possa dare segni di ripresa – ovvero che esca dal coma – rendendo vani gli sforzi delle strutture sanitarie nel reperire organi freschi da trapianto.
È noto come i centri autorizzati ad effettuare i trapianti sparsi nel territorio abbiano dei budget di produzione da rispettare e come il raggiungimento di questi obiettivi sia necessario all’acquisizione di rilevanti finanziamenti pubblici e privati. Del resto, i direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere sono dei veri e propri manager d’azienda.
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A questo punto è quanto mai opportuno porsi la seguente domanda: per la legge, siamo tutti potenziali donatori di organi?
Dunque, la normativa italiana ha stabilito il principio del consenso o dissenso esplicito, sulla base di cui ad ogni persona maggiorenne viene data la possibilità di dichiarare validamente la propria volontà in merito alla cosiddetta donazione degli organi.
Nello specifico, la legge 91/99 agli articoli 4 e 5 ha istituito il principio del silenzio-assenso, in base a cui la mancata dichiarazione di volontà viene considerata come consenso alla donazione. Tuttavia, tale enunciato non può essere applicato, in quanto – come previsto dalla legge stessa – non è stata ancora costituita un’anagrafe informatizzata che consenta la notifica ad ogni cittadino, da parte di un Pubblico Ufficiale, di un modulo per la dichiarazione di volontà.
Per cui, allo stato attuale, le principali modalità con cui è possibile esprimersi in un senso o nell’altro sono le seguenti:
- presso gli uffici comunali, firmando un apposito modulo predisposto al momento del rilascio o del rinnovo della carta d’identità;
- presso gli sportelli delle Aziende sanitarie locali;
- attraverso una dichiarazione in carta libera completa di tutti i dati personali, datata e firmata.
Le dichiarazioni di volontà sono considerate valide ai sensi di legge e sono registrate all’interno del Sistema Informativo Trapianti.
Nel caso in cui si scelga di non esprimersi secondo le modalità previste, il consenso viene chiesto ai parenti più stretti o agli aventi diritto. Pertanto, l’espianto può essere effettuato solo in presenza di un esplicito consenso.
È dunque sufficiente opporsi al trapianto per sfuggire alla trappola della morte cerebrale? Purtroppo no. Anche in caso di mancato assenso alla donazione, la legge impone il distacco dai supporti vitali del soggetto dichiarato cerebralmente morto, il quale viene così lasciato morire per mancanza di cure (del resto se il paziente è dichiarato deceduto deve essere necessariamente trattato alla stregua di un cadavere, quantomeno per coerenza).
Comunque, malgrado la massiccia propaganda massmediatica messa in atto dalle istituzioni – che tende a far leva sui sentimenti e sull’emotività per tentare di convincere più cittadini possibili a diventare donatori di organi (la cosiddetta «cultura del dono») – la percentuale di opposizioni ai trapianti si attesta, almeno nel nostro paese, intorno al 40% (una percentuale decisamente alta).
È anche per tale motivo che la macchina delle predazioni è sempre alla ricerca di nuove tecniche per reperire organi. Una di queste è la cosiddetta donazione a cuore fermo (donation after cardiac death o DCD), che mette in evidenza lo stretto legame tra la predazione degli organi e l’eutanasia.
Schematicamente, esistono due tipi di donatori a cuore fermo: controllati e non controllati.
La DCD non controllata concerne tutti i pazienti nei quali la morte per arresto cardiaco avviene in modo improvviso, solitamente fuori dall’ospedale o in pronto soccorso. In tali situazioni non è possibile controllare l’evento acuto che determina la morte e non è possibile studiare clinicamente il paziente come potenziale donatore, per cui a differenza degli altri organi il cuore non può essere prelevato.
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Diverso è il caso della DCD controllata, in cui l’arresto cardiaco è atteso, ossia previsto. Essa fa seguito alla sospensione dei trattamenti intensivi a motivo della loro supposta mancanza di proporzionalità. In altre parole, il malato viene staccato dai supporti vitali, in particolare dal supporto ventilatorio, in una circostanza prevista e medicalmente controllata.
In questo caso il cuore è sano e può essere prelevato dopo i venti minuti di assenza di battito e di circolo, come prescritto dalla legge italiana. Il muscolo cardiaco, già prima del prelievo e del trapianto, viene accuratamente valutato e spesso collegato ad un sistema di circolazione artificiale che permette di verificarne la funzionalità in vista del trapianto.
In pratica, si tratta di pazienti terminali che non soddisfano i criteri della morte encefalica e che hanno in qualche modo manifestato la loro volontà di sospendere i sostegni vitali, oppure che siano stati i familiari (si discute tanto in Italia di questi tempi di rischio eutanasico ma come possiamo constatare l’eliminazione programmata del malato terminale già viene fatta e sotto l’egida della legge).
In un articolo pubblicato sul New York Times il 20 luglio scorso sono stati riportati diversi casi di pazienti la cui morte è stata programmata in anticipo affinché potessero diventare donatori di organi.
C’è da considerare che il periodo di mancanza di battito cardiaco considerato necessario affinché l’ipossia danneggi irreversibilmente il tessuto cerebrale varia, in America, dai due ai cinque minuti, quando l’esperienza clinica dimostra che il cuore può riprendere a battere anche diverso tempo dopo.
In un caso descritto dal New York Times, una donna sottoposta alla DCD controllata ha cominciato ad ansimare in cerca d’aria mentre i chirurghi le segavano lo sterno e il suo cuore ha ripreso a battere. A quel punto l’operazione è stata annullata e dodici minuti dopo la sfortunata signora è stata dichiarata morta per la seconda volta.
Ora, è necessario comprendere che il problema non è solamente legato alla rigorosità delle procedure di accertamento o al fatto che ci sono casi come quelli descritti negli USA in cui le diagnosi di morte risultano, per così dire, «affrettate».
Il problema vero è la definizione stessa di morte cerebrale e la concezione filosofica dell’essere umano che c’è dietro.
E visto che non c’è, né ci potrà mai essere, un protocollo universalmente valido con cui si possa accertare ciò che semplicemente non esiste in natura, le scorciatoie procedurali per rendere più facile l’approvvigionamento degli organi sono inevitabili e tenderanno sempre più ad essere utilizzate in ambito ospedaliero.
A dimostrazione di quanto sia presente tale deriva, sempre il New York Times ha pubblicato un editoriale dal titolo: «Donor Organs Are Too Rare. We Need a New Definition of Death» («Gli organi donati sono troppo rari. Abbiamo bisogno di una nuova definizione di morte»), in cui alcuni cardiologi di fama mondiale sembrano lanciare un appello affinché la comunità scientifica elabori una nuova definizione di morte. Di seguito un breve estratto:
«Una persona può diventare donatrice di organi solo dopo essere stata dichiarata morta (…) La morte cerebrale è tuttavia rara (…) La soluzione, a nostro avviso, è ampliare la definizione di morte cerebrale per includere i pazienti in coma irreversibile sottoposti a supporto vitale».
«Le funzioni cerebrali più importanti per la vita sono la coscienza, la memoria, l’intenzione e il desiderio» – continuano i cardiologi intervistati – «Una volta che queste funzioni cerebrali superiori sono irreversibilmente perdute, non è forse corretto affermare che una persona (in contrapposizione a un corpo) ha cessato di esistere?»
È dunque evidente come la nuova definizione di morte sdoganata dai cosiddetti esperti di Harvard contenga al suo interno tutte le premesse per un suo superamento.
Infatti, privata del fine soprannaturale, l’esistenza umana perde il suo valore intrinseco e finisce per acquisire significato solamente in relazione a quanto essa può essere utile a qualcun altro.
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Non è dunque così improbabile che si arrivi a rendere obbligatoria la donazione degli organi. La cardiologa Maria Frigerio, ex direttrice del reparto di cardiologia dell’ospedale Niguarda di Milano, in un’intervista pubblicata lo scorso febbraio dal Corriere della Sera preconizza l’obbligatorietà dei trapianti.
Secondo la Frigerio, l’elevata percentuale di opposizioni ai trapianti limita pesantemente la possibilità di salvare delle vite ed è «per questo che la donazione potrebbe diventare un obbligo».
Per concludere, vorrei accennare ad un aspetto poco conosciuto che riguarda l’aspettativa e la qualità di vita dei trapiantati.
L’uso continuo e a vita dei farmaci immunosoppressori, necessari a sopprimere la risposta del sistema immunitario verso l’organo trapiantato, riduce la capacità del sistema immunitario stesso di combattere le infezioni e di distruggere le cellule tumorali.
Sussiste dunque un rischio molto elevato di contrarre alcuni tipi di cancro, in particolare i tumori della pelle, alcuni dei quali potenzialmente letali.
Attraverso una ricerca scientifica è stato scoperto inoltre che i trapiantati hanno un rischio particolarmente elevato di sviluppare melanomi che hanno già raggiunto uno stadio avanzato al momento della diagnosi.
Sempre a causa dei farmaci immunosoppressori, le persone che hanno ricevuto un trapianto di fegato, cuore o polmone hanno il 64% in più di probabilità, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare patologie cardiovascolari.
Un altro aspetto che rende più probabile l’incidenza di tali malattie è l’obesità: ben il 50% dei trapiantati subisce un aumento di peso che oscilla tra il 10% e il 35% del loro peso corporeo.
Questo breve e niente affatto esaustivo elenco di problemi a cui vanno incontro i trapiantati ci fa comprendere meglio come la «medicina» dei trapianti, pur presentandosi come una vittoria della scienza, in realtà trasformi il malato in un paziente cronicizzato, dipendente a vita dai farmaci e costretto a sottoporsi a frequenti screening clinici, quindi inserito in una filiera che alimenta enormi interessi economici.
Questo non significa negare la sofferenza di chi è malato e ripone le sue speranze nel ricevere un organo, ma ci invita a guardare più in profondità: quando la vita viene piegata alle logiche di mercato e ridotta a un mezzo, essa perde il suo valore autentico. Ed è proprio qui che si gioca la posta più alta: riconoscere e difendere la dignità dell’uomo, che non è mai un insieme di funzioni biologiche, ma una persona unica, creata a immagine e somiglianza di Dio.
Ho concluso, grazie a tutti voi per l’attenzione.
Alfredo De Matteo
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Eutanasia
L’Uruguay sulla strada dell’eutanasia express
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