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Sport e Marzialistica

Storia e aspetti del Systema, l’arte marziale russa

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«Non ti puoi rilassare senza respirare, non puoi raggiungere una postura naturale senza rilassamento e dopo che si è riusciti a raggiungere una buona postura ci si può iniziare a muovere nello spazio correttamente»

 

«Un vero guerriero è capace di difendere se stesso e gli altri ed è in grado di cambiare l’orgoglio, l’aggressività e la paura in umiltà, coraggio e forza»

 

«Nel Systema non esiste riscaldamento, tutto è Systema»

Vladimir Vasiliev

 

Il Systema (in russo: система) è il nome moderno di un’arte marziale sviluppata in ambito sovietico, ma derivata da tecniche e culture fiorite nell’ambito della lunga storia della Russia.

 

Si dice che la disciplina del Systema abbia radici diverse, basate anche su antiche tradizioni russe, ma è stata aggiornata nel tempo fino a diventare quella che conosciamo oggi. Il Systema era utilizzato da alcune unità delle forze di sicurezza dell’Unione Sovietica, come il KGB, l’NKVD e l’Armata Rossa. L’arte marziale russa è comunemente associata a spie, polizia sotto copertura, guardie del corpo e unità speciali.

 

Lo stile di combattimento del Systema non si basa su tecniche rigide, ma su principi come la respirazione, il movimento, il rilassamento e la postura.

 

L’allenamento include vari esercizi per sviluppare abilità volte a massimizzare le possibilità di sopravvivenza in situazioni pericolose. I praticanti apprendono a pensare in modo ampio e a gestire situazioni impreviste. Si può combattere sia in piedi che a terra, utilizzando coltelli, armi da fuoco, manganelli o qualsiasi altra arma improvvisata.

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Nel Systema l’uso delle armi non si limita solo all’apprendimento del loro utilizzo, ma anche a scopi ulteriori che possono avere. Ad esempio, i coltelli aiutano a gestire il panico, i manganelli servono per il controllo della distanza, e le pistole per il controllo dello spazio, la decisione sotto pressione e la visione periferica.

 

Un elemento unico dell’addestramento è l’uso delle repliche del fucile AK-47 come arma da combattimento corpo a corpo, con o senza baionetta, per testare la capacità di adattamento. Le armi più comuni nelle lezioni di Systema sono coltelli, difese della polizia, manganelli, nagaika [una frusta corta e spessa utilizzata dai Cosacchi, ndr], bebout [un pugnale tipico russo, ndr], shaska [un tipo particolare di sciabola originaria della zona del Caucaso, ndr], fucili d’assalto e pistole.

 

 

 

 

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L’arte marziale del Systema presenta notevoli variazioni tra diversi gruppi e istruttori. Alcune accademie formano professionisti per la sicurezza pubblica e privata, altre si concentrano su approcci più tradizionali, mentre alcune si dedicano ad aspetti più «energici» dell’azione. Ogni istruttore tende a dare un approccio personale al Systema, rendendolo un concetto ampio e personalizzabile.

 

L’apprendimento avviene tramite esercizi di sviluppo delle abilità, che non sono fissi, quindi è fondamentale analizzare ogni accademia singolarmente invece di considerarlo come un sistema di combattimento centralizzato con una metodologia unificata.

 

Il Systema è il risultato di un concetto che ha subito diverse evoluzioni per diventare quello che è oggi.

 

Le fasi più significative di questo sviluppo sono:

 

  • Gli sport popolari dell’antica Russia: Qui, il Systema ha acquisito la sua metodologia basata su esercizi per lo sviluppo delle abilità, simili ai giochi di combattimento. Questi erano importanti nell’antica Russia poiché la difesa del territorio richiedeva spesso l’impiego di milizie popolari, che necessitavano di un qualche tipo di addestramento per affrontare invasioni o conflitti territoriali.

 

  • Prima metà del XX secolo: In questo periodo, il combattimento adattato al praticante venne sviluppato da Spiridonov e dal club Dinamo, con l’influenza delle arti marziali giapponesi che ampliò la conoscenza delle tecniche.

 

  • Systema Kadochnikov: sviluppo che apportato significativi avanzamenti nel combattimento adattivo, in particolare nella biomeccanica applicata.
    Fine del XX secolo e XXI secolo: Apertura dell’arte marziale all’Occidente.

 

Negli anni ’20, il regime sovietico avviò uno studio sulle arti marziali per creare un metodo concreto di combattimento corpo a corpo.

 

Ricercatori furono inviati in tutta la Russia e in altri paesi con una forte cultura marziale per produrre uno sport da combattimento ufficiale per lo Stato e un metodo di addestramento per i militari.

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Questo progetto, noto come «Dinamo», portò a due approcci molto diversi:

 

  • Il SAMBO (SAMozashchita Bez Oruzhiya): una tecnica inizialmente influenzata dal Judo, in seguito diviso in una versione sportiva per civili e una versione militare, includeva tecniche di combattimento contro avversari armati e disarmati.

 

  • SAMOZ: Principalmente influenzato da Viktor Afanasievic Spiridonov (1882-1944), era riservato alle unità delle forze speciali e al personale militare. Spiridonov, ferito in un combattimento con baionetta, ideò un metodo di autodifesa adatto anche a persone ferite o deboli, sviluppando una metodologia adattata al praticante.

 

La storia di queste arti marziali non è sempre chiara e definita, e a causa delle influenze incrociate tra SAMBO e SAMOZ, oggi alcuni gruppi SAMBO considerano Spiridonov un padre fondatore, mentre altri no.

 

Aleksej Kadochnikov, studente dello stile di Spiridonov e di altri sistemi di combattimento, è riconosciuto come il padre del Systema moderno.

 

 

Kadochnikov ha formulato un metodo di sopravvivenza coerente, applicando le leggi della fisica e dell’ingegneria ai problemi di combattimento. Il suo stile, noto come «stile KGB», includeva materiale sulla sopravvivenza in ambienti ostili, combattimento corpo a corpo, uso di armi da fuoco e altri argomenti militari, insegnando agli studenti a creare le proprie tecniche basandosi sulla biomeccanica.

Il termine «Systema» fu inizialmente usato per descrivere il metodo di Kadochnikov, ma oggi si riferisce a molti gruppi di arti marziali russe moderne. Il lavoro di Kadochnikov ha influenzato la creazione di altre arti marziali russe, come il ROSS (Rossiyskaya Otechestvennaya Samozashchity System) di Alexander Retuinskih, che ha applicato il materiale biomeccanico di Kadochnikov a vari stili marziali e militari.

 

Gli stili Kadochnikov e il ROSS si diffusero inizialmente attraverso unità militari e club per agenti di polizia, diventando accessibili al pubblico solo dopo il crollo dell’Unione Sovietica. L’influenza di Vladimir Vasiliev ha aumentato la visibilità e popolarità del Systema, sia in Russia che nel resto del mondo.

 

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Negli anni ’90, due moderne scuole di arti marziali russe arrivarono in Nord America: ROSS, promosso da Scott Sonnon, e il Systema di Vladimir Vasiliev, emigrato in Canada. Il Vasiliev modificò i suoi metodi di allenamento per renderli meno brutali, facendo crescere la sua scuola fino a diventare il marchio di Systema più conosciuto al mondo. Anche la scuola di Mikhail Ryabko, che mantenne stretti legami con Vasiliev, è molto rinomata oggi.

 

Come le scuole Kadochnikov e ROSS, anche le scuole di Vasiliev e Ryabko hanno visto istruttori che si sono staccati per formare propri stili. Ogni unità militare russa utilizza un metodo di combattimento diverso, il che crea confusione riguardo l’arte marziale dell’esercito sovietico. La maggior parte delle unità utilizza il «Boevoe SAMBO» (cioè «SAMBO da combattimento»), mentre il Systema era insegnato principalmente alle unità d’élite.

 

 

Il Systema comprende diverse tecniche di combattimento:

 

  • Combattimento a mani nude
  • Prese
  • Combattimento con la frusta
  • Combattimento con armi da taglio
  • Combattimento con armi da fuoco
  • Esercizi e lavoro di coppia, con o senza forme predefinite.

 

Il sistema di combattimento cosacco si concentra principalmente sul combattente, portandolo a stati di maggiore consapevolezza spirituale e fisica attraverso il controllo delle principali rotazioni delle ossa e della pelle: gomiti, ginocchia, collo, anca, spalle, vita. Utilizza punti, zone di pressione, colpi e schivate.

 

L’uso delle armi accompagna il lottatore verso la sua natura umana di cacciatore, concentrandolo sui movimenti istintivi della «difesa istantanea». Scientificamente, è possibile ottenere una difesa istantanea non solo contro armi bianche o da fuoco, ma praticamente contro ogni oggetto, applicando principi meccanici conosciuti.

Anche se si suppone che l’arte marziale russa Systema risalga al X secolo e che fosse praticata dai Bogatyr, eroici combattenti russi, non possiede un background storico definito e un nome tradizionale. Questo può causare confusione, dato che il nome «Systema» è molto generico.

 

È probabile che il nome Systema derivi da arti marziali simili nate prima di essa, come il «Systema Rukopashnogo Boja», che in italiano significa «sistema di combattimento a mani nude». Ci sono molte somiglianze, ad esempio, con il metodo «Systema» seguito da Mikhail Ryabko. In questo caso, «il Sistema» si riferisce ai vari sistemi del corpo umano: muscoli, sistema nervoso, sistema respiratorio, ecc., oltre agli aspetti psicologici e spirituali.

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In tutta la Russia, diverse forze speciali (Alpha, GRU, Vympel e molte altre) praticano vari stili di combattimento, spesso confusi con il Systema. Ad esempio, molte sono addestrate nel SAMBO da combattimento, che di fatto rappresenta un’arte completamente diversa.

 

Altri stili includono il rukopashka (combattimento a mani nude), machalka e boinia, termini russi che significano combattimento e sconfitta. Il nome “SAMBO da combattimento Sambo Spetsnaz».

 

 

Un’altra teoria suggerisce che le varie forme del moderno Systema siano il risultato di un progetto di ricerca e sviluppo portato avanti da numerose generazioni di istruttori dell’esercito, che insegnavano il combattimento corpo a corpo alla Dinamo a Mosca tra il 1920 e il 1980. Se così fosse, il Systema potrebbe essere considerato in linea con il combattimento SAMBO e stili correlati come il SAMOZ sviluppato da Spiridonov.

 

Le influenze stilistiche del moderno Systema potrebbero includere numerosi stili di arti marziali nazionali, sistemi di combattimento corpo a corpo militare e stili russi di combattimento indigeni, oltre ad aspetti di scienze motorie, biomeccanica e psicologia dello sport, incorporati nella ricerca del combattimento corpo a corpo sviluppato dal progetto Dinamo durante il XX secolo.

 

Un’altra teoria suggerisce che il Systema sia un complesso moderno basato su arti marziali tradizionali cinesi come il Taijiquan, il Yi-quan e altri. I russi sono sempre stati attratti dalle arti marziali cinesi, anche prima della Seconda Guerra Mondiale, e tra gli anni Cinquanta e Sessanta intensi studi hanno portato a notevoli sviluppi peculiari per la Russia. Inoltre, molti maestri cinesi visitarono la Russia in quel periodo, partecipando a programmi di addestramento militare. Nonostante vi siano numerose similarità nei metodi di allenamento e nei principi di base, le arti marziali russe e cinesi mostrano notevoli differenze.

 

I maestri di Systema sostengono che per avere successo in questa arte marziale, è fondamentale lavorare su se stessi, poiché la conoscenza di sé è il primo passo per comprendere gli altri. Il primo nemico da affrontare sono le proprie paure, che causano tensioni psicofisiche impedendo una reazione tempestiva al pericolo.

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Essere consapevoli delle proprie capacità aumenta la fiducia in sé stessi, evitando sia la sopravvalutazione che la sottovalutazione delle situazioni di pericolo, e consentendo una corretta valutazione delle proprie capacità di affrontarle. Conoscere i propri limiti è cruciale per poter lavorare su di essi.

 

Il Systema insegna dunque riconoscere le proprie tensioni e trovare il modo di superarle attraverso il respiro. Il respiro è fondamentale per controllare e guidare le emozioni, permettendo di non esserne sopraffatti e di reagire in modo appropriato al contesto senza distorsioni, esagerazioni o blocchi, evitando di sentirsi inadeguati.

 

Il Systema si basa sul condizionamento della mente attraverso il corpo. La paura del contatto, di colpire e di essere colpiti, è considerata dai systemisti una delle più grandi paure. Nel Systema esistono esercizi specifici per eliminare questa paura. Comprendendo come il nostro corpo reagisce a colpi o pressioni, possiamo capire come il corpo degli altri risponde alle nostre azioni e gestire meglio le situazioni di contatto.

 

Si sostiene che il Systema sia adatto a persone di qualsiasi corporatura e età, grazie al principio di rilassamento su cui si basa. Il rilassamento consente di percepire e sfruttare le tensioni dell’avversario, aumentando le possibilità di sopravvivere a uno scontro. Contrapporsi alla forza con la forza può essere pericoloso e controproducente; spesso è più sicuro non opporsi direttamente a un attacco, lasciando che si esaurisca da solo.

 

La pratica del Systema non prevede l’insegnamento di tecniche pure, ma si focalizza sulla ricerca della tecnica adatta a ogni individuo in una specifica situazione, basandosi sui principi di movimento dell’arte marziale.

 

Nella difesa personale, ambito in cui il Systema si è diffuso a livello mondiale grazie a Ryabko e Vasiliev, memorizzare migliaia di tecniche è poco funzionale in situazioni di pericolo. Il panico impedisce di gestire razionalmente un vasto numero di conoscenze, portando alla paralisi. Al contrario, conoscere come il proprio corpo risponde a diverse esperienze, provate in allenamento, infonde sicurezza e permette risposte immediate, poiché si è consapevoli delle proprie capacità e delle reazioni altrui.

 

Il Systema è stato sviluppato per creare rapidamente grandi capacità in ambito bellico, abbreviando il più possibile il processo di adattamento al combattimento. Ciò permette all’individuo di sviluppare la coordinazione e la sensibilità necessarie per gestire diverse situazioni, senza dover cercare tra una vasta serie di tecniche quella più efficace.

 

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Nel combattimento, la velocità di risposta a uno stimolo, attacco o minaccia è fondamentale. Questa velocità dipende da vari fattori, inclusa la prontezza dell’azione.

 

Diverse discipline di combattimento sviluppano strategie per ottenere un vantaggio temporale rispetto all’avversario. Molti corpi speciali limitano l’addestramento a poche tecniche generiche basate su abilità motorie specifiche. L’idea è di ridurre il tempo di decisione mentale, diminuendo così il tempo di reazione a un attacco. Inoltre, si sviluppano abilità motorie, mobilità articolare e flessibilità per consentire movimenti anche in spazi ristretti.

 

Il Systema studia la risposta del cervello a un attacco fisico è complessa per comprendere il tempo di reazione nell’approccio «inconscio» del Systema, rispetto alla scelta consapevole. Quando il cervello prepara un movimento in risposta a un attacco, lo fa immediatamente, senza attivare i muscoli e senza consapevolezza.

 

Il cervello ha qualcosa di simile a un «emulatore». Prima di diventare consapevoli di un movimento istintivo, il cervello lo incorpora nelle sue mappe, attivando ormoni, modificando la pressione sanguigna e adattandosi psicofisiologicamente, ma senza attivare i muscoli o la consapevolezza. Così, il movimento appare sempre originale, anche se è già memorizzato negli schemi cerebrali.

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Se il movimento è diretto dall’inconscio, la risposta cosciente sarà «secondaria» e guidata dal cervello. Nei corpi speciali, è necessaria una selezione tecnica prima di attivare i muscoli, che rappresenta una terza risposta. Un numero limitato di tecniche riduce il tempo di selezione, ma è comunque necessario il terzo percorso cerebrale nell’approccio consapevole. Il Systema, invece, si basa sulla risposta inconscia o automatica, permettendo di reagire con la risposta secondaria, senza selezionare tecniche specifiche, basandosi sull’esperienza diretta dell’allievo.

 

I neurologi chiamano queste reazioni automatiche «modelli ad azione fissa»: il corpo impara a reagire in determinati modi grazie alle esperienze passate, riducendo il tempo di reazione. Tali modelli possono variare da semplici schivate a schemi di movimento complessi, che però non sono sempre la scelta migliore. Ad esempio, toccare un oggetto caldo fa ritrarre la mano, ma se il dito è bloccato in una serratura, ritirarlo peggiora la situazione. Per cambiare o ignorare un modello ad azione fissa, è necessario l’allenamento.

 

L’allenamento può sostituire un modello di reazione corrente con un altro. Il cervello ha mappe del corpo, incluse le mappe motorie principali dei neuroni sensoriali, chiamate «homunculi». Queste mappe interagiscono gerarchicamente. Le informazioni corporee entrano nelle mappe sensoriali primarie e salgono attraverso complesse procedure di elaborazione e rivalutazione fino ai livelli superiori, dove vengono trasformate in emozioni, ricordi, immagini corporee, credenze, modelli di dolore, ecc. Alla fine, viene decisa la reazione appropriata, emulata e trasmessa alle mappe motorie primarie, attivando i muscoli per un movimento consapevole.

 

Il Systema ritiene che si possa apprendere modelli specifici (tecniche) o insegnare al corpo a muoversi rilassato seguendo schemi di movimento generali (principi del Systema). Ciò consente al corpo di trovare soluzioni individuali per ogni problema, basate su principi come rilassamento, efficienza e movimenti naturali.

 

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Il sistema nervoso funziona attraverso la «facilitazione», ovvero più usiamo un’azione, più è probabile che venga scelta di nuovo. Variando continuamente i movimenti ma mantenendo lo stesso modus operandi, l’abitudine si instaura come risposta a modello fisso, permettendo al cervello di scegliere il movimento più appropriato. Questo approccio differisce dall’insegnamento di tecniche specifiche per situazioni specifiche.

 

Un vantaggio di tale «approccio di principio» rispetto all’«approccio tecnico» è che il cervello non si annoia con la ripetizione infinita degli stessi movimenti.

 

Una volta acquisiti i principi, si ottiene una serie illimitata di «risposte principio» invece di una serie limitata di tecniche. Il corpo trova soluzioni creative per ogni situazione, sviluppando percorsi di risposta preferenziali basati sulle abilità individuali.

 

Il rilassamento è fondamentale per lavorare inconsciamente, poiché tensioni, paure e rabbia riducono la creatività e la capacità di multitasking del cervello, compromettendo la risposta alle minacce.

 

In Italia esistono palestre di Systema a Milano, Padova, Firenze, Treviso, Roma.

 

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Immagine di DanFernbanck via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution – Partage dans les Mêmes Conditions 4.0 International; immagine modificata

 

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Sport e Marzialistica

A Milano i campionati mondiali di Kendo

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Milano sta ospitando la principale competizione di Kendo del pianeta, con sessantuno nazioni e oltre mille partecipanti tra atleti e delegati ufficiali per un pubblico previsto di oltre 10.000 persone.   Dal 4 al 7 luglio, si svolgono i Campionati Mondiali 2024 di questa antica arte marziale giapponese. Lo riporta MilanoToday. Per quattro giorni, la comunità internazionale del Kendo si riunirà all’Unipol Forum di Assago per assistere e prendere parte a intense competizioni che vedranno protagonisti i migliori atleti a livello mondiale.   La diciannovesima edizione dei Campionati del Mondo di Kendo Milano 2024 segna il ritorno in Italia di questo prestigioso evento mondiale, dopo l’edizione del 2012 a Novara.   L’evento è iniziato il 4 luglio alle 10 con la cerimonia di apertura all’Unipol Forum, seguita dalle gare individuali femminili. Il 5 luglio è dedicato alle qualifiche delle competizioni a squadre, sia maschili che femminili, a partire dalle 9.30. Il 6 luglio, dalle 10, si terranno le competizioni individuali maschili. Infine, il 7 luglio, ultimo giorno di gare, vedrà le squadre maschili e femminili qualificate sfidarsi nelle fasi eliminatorie.

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Questa edizione si presenta come un evento straordinario sotto molti aspetti. Saranno rappresentate 61 nazioni ai Campionati Mondiali di Kendo, dimostrando la diffusione e la popolarità globale di questa antica arte marziale giapponese.   Circa 1000 persone, tra atleti e delegati ufficiali, saranno coinvolte nelle competizioni e nelle attività connesse all’evento, offrendo un’opportunità unica per vedere i migliori praticanti di kendo del mondo in azione.   Saranno 18 i competitori italiani (10 uomini e 8 donne) che gareggeranno nelle competizioni individuali e a squadre. 6.000 biglietti sono già stati venduti, mentre il totale di pubblico è atteso essere attorno alla decina di migliaia di spettatori. Il Kendo si pratica indossando un tradizionale stile di abbigliamento giapponese, un’armatura protettiva (bōgu) e utilizzando uno o, meno comunemente, due shinai shinai, che sono spade di legno pensate per rappresentare le spade giapponesi (katana) composte da quattro stecche di bambù tenute insieme da guarnizioni in pelle. Viene anche utilizzata una variante moderna dello shinai con stecche in resina rinforzata con fibra di carbonio.   I kendoka usano anche spade di legno duro (bokutō) per praticare i kata («forme). Nel Kendo si utilizzano colpi che coinvolgono sia un taglio che la punta dello shinai o del bokutō.   Un’armatura protettiva viene indossata per proteggere aree specifiche della testa, delle braccia e del corpo. La testa è protetta da un elmo stilizzato, chiamato men, con una griglia metallica (men-gane) per proteggere il viso, una serie di lembi di cuoio e tessuto rigidi (tsuki-dare) per proteggere la gola e lembi di tessuto imbottiti (men-dare) per proteggere il lato del collo e le spalle.   Gli avambracci, i polsi e le mani sono protetti da lunghi guanti di tessuto spesso imbottiti chiamati kote. Il busto è protetto da una corazza (), mentre la vita e l’area inguinale sono protette dal tare, costituito da tre spessi lembi di tessuto verticali.   L’abbigliamento indossato sotto il bōgu è composto da una giacca (kendogi o keikogi) e da un hakama, un indumento separato nel mezzo per formare due ampie gambe dei pantaloni. Un asciugamano di cotone (tenugui) viene avvolto attorno alla testa, sotto il men, per assorbire il sudore e fornire una base su cui l’uomo può indossare il costume in modo confortevole.     La filosofia del kikentai ichi insegna che per realizzare un colpo valido, non basta colpire una delle parti consentite dell’armatura dell’avversario, ma bisogna raggiungere la simultaneità di volontà, colpo di spada e movimento del corpo, dove spirito, spada e corpo si fondono in un’unica armonia.   Secondo la All Japan Kendo Federation, «l’obiettivo primario dell’istruzione del Kendo è quello di favorire l’unificazione di mente, corpo e shinai attraverso l’allenamento, e di incoraggiare i praticanti a scoprire e definire la propria Via nella vita attraverso le tecniche del kendo».   Storicamente, il Kendo (剣道, letteralmente «via della spada») discende dal kenjutsu (una delle antiche arti marziali giapponesi, assimilabile alla scherma), che utilizza spade di bambù (shinai) e armature protettive (bōgu). Le origini del Kendo possono essere rintracciate negli esercizi di scherma consuetudinari dei guerrieri samurai. Le varie scuole di kenjutsu fondate dagli spadaccini nipponici continuarono per secoli e costituiscono la base della pratica del kendo odierna.   Gli esercizi formali di Kendo noti come kata (le «forme») furono sviluppati diversi secoli fa come pratica del kenjutsu per i guerrieri. Gli stessi sono ancora studiati oggi, sia pur in una forma modificata.   L’introduzione delle spade e delle armature di bambù nell’allenamento con la spada è attribuita a Naganuma Shirōzaemon Kunisato (1688–1767) durante l’era Shotoku (1711–1715). Il Naganuma sviluppò l’uso di questa armatura e stabilì un metodo di allenamento utilizzando spade di bambù.

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Yamada Heizaemon Mitsunori (1638–1718), terzogenito di Naganuma e ottavo preside del Kashima Shinden Jikishinkage-ryū Kenjutsu, è accreditato per aver migliorato l’arte con spade giapponesi di legno e bambù, secondo l’iscrizione sulla sua lapide. Gli è anche accreditato per aver perfezionato l’armatura aggiungendo una griglia di metallo al copricapo (il men) e spesse coperture protettive in cotone ai guanti (kote).   Naganuma Sirozaemon Kunisato (1688–1767) ereditò la tradizione da suo padre Heizaemon nel 1708, e i due collaborarono per migliorare quella che sarebbe diventata la moderna armatura da allenamento per il kendo.   Shūsaku Narimasa Chiba (1792–1855), fondatore dell’Hokushin Ittō-ryū Hyōhō, introdusse il gekiken – letteralmente «spada che colpisce», cioè duelli full contact con spade di bambù e armature da allenamento – nel curriculum delle arti tradizionali negli anni ’20 dell’Ottocento. A causa del gran numero di studenti dell’Hokushin Ittō-ryū Hyōhō alla fine del periodo Edo, l’uso di spade di bambù e armature come forma di pratica divenne popolare.   Le tecniche moderne di Kendo, come Suriage-Men e Oikomi-Men, erano originariamente tecniche dell’Hokushin Ittō-ryū, e furono chiamate così da Chiba Shūsaku. Dopo la Restaurazione Meiji alla fine del 1800, Sakakibara Kenkichi rese popolare il gekiken pubblico per guadagno commerciale, con conseguente aumento dell’interesse per il Kendo e il kenjutsu.   Nel 1876, cinque anni dopo una resa volontaria delle spade, il governo ne proibì l’uso ai samurai sopravvissuti e diede inizio alla katanagari, la caccia delle spade, con gli eserciti a perlustrare l’intero Paese, confiscando le armi di tutti i potenziali nemici del nuovo regime. In questo modo, il nuovo sovrano cercò di assicurarsi che nessuno potesse conquistare il paese con la forza come aveva appena fatto Nel frattempo, nel tentativo di standardizzare gli stili di spada kenjutsu usati dai poliziotti, Kawaji Toshiyoshi reclutò spadaccini da varie scuole per elaborare uno stile di scherma unificato. Ciò portò all’ascesa del Battotai («Corpo della spada sguainata»), composto principalmente da poliziotti armati di spada. Tuttavia, si rivelò difficile integrare tutte le arti della spada, portando a un compromesso di dieci mosse di pratica (kata) per l’addestramento della polizia.   Questo sforzo di integrazione portò allo sviluppo del kendo moderno.   Nel 1878, Kawaji scrisse un libro sulla scherma, Gekiken Saikō-ron («La rinascita della tecnica di spada»), sottolineando che gli stili di spada non dovevano scomparire con la modernizzazione, ma dovevano essere integrati come abilità necessarie per la polizia.   Trae un esempio particolare dalla sua esperienza con la ribellione di Satsuma. Il Junsa Kyōshūjo (Istituto di addestramento degli agenti di polizia), fondato nel 1879, forniva un curriculum che consentiva ai poliziotti di studiare il gekiken durante le loro ore libere. Nello stesso anno, Kawaji scrisse un altro libro sulla scherma, Kendo Saikō-ron («La rinascita del Kendo»), difendendo l’importanza di tale addestramento all’arte della spada per la polizia. Mentre il Junsa Kyōshūjo rimase attivo solo fino al 1881, la polizia continuò a sostenere tale pratica.   Il Dai Nippon Butoku Kai (DNBK) fu fondato nel 1895 per promuovere le arti marziali in Giappone. Cambiò il nome della forma sportiva di scherma, gekiken, in kendō nel 1920.   Il Kendo (insieme ad altre arti marziali) fu bandito in Giappone nel 1946 dalle potenze occupanti. Ciò faceva parte della «rimozione ed esclusione dalla vita pubblica di persone militariste e ultra-nazionaliste» in risposta alla militarizzazione dell’insegnamento delle arti marziali in Giappone in tempo di guerra. Anche la DNBK fu sciolta.   Al Kendo fu permesso di tornare nel curriculum nel 1950, prima come shinai kyōgi («competizione con shinai») e poi come Kendo nel 1952.

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La All Japan Kendo Federation (AJKF o ZNKR) fu fondata nel 1952, subito dopo il ripristino dell’indipendenza del Giappone e la revoca del divieto sulle arti marziali in Giappone. Fu fondata sul principio del kendo non come arte marziale, ma come sport educativo e ha continuato ad essere praticato come tale fino ad oggi.   La Federazione Internazionale Kendo (FIK) è stata fondata nell’aprile 1970. È una federazione internazionale di federazioni nazionali e regionali di Kendo e l’organismo di governo mondiale per il kendo. La FIK è un’organizzazione non governativa e mira a promuovere e rendere popolare il kendo, lo iaido (l’arte dell’estrazione della spada) e il jodo (che utilizza il jo, cioè il bastone corto).   Il Kendo è oggi incluso tra le discipline promosse dalla Federazione Internazionale di Arti Marziali (IMAF), fondata a Kyoto nel 1952 come prima organizzazione internazionale fondata dopo la seconda guerra mondiale per promuovere lo sviluppo delle arti marziali in tutto il mondo.   I praticanti del kendo sono chiamati kendoka («colui che pratica il kendo»), o occasionalmente kenshi («spadaccino»). Nelle lingue indoeuropee è talvolta usato il termine «kendoista».   Il Kodansha Meibo, un registro dei membri con grado dan dell’AJKF, elenca (a settembre 2007) 1,48 milioni di kendoka che detengono un dan (termine giapponese che significa «livello», «grado» e viene utilizzato nelle arti marziali per evidenziare i diversi livelli di abilità o di esperienza) registrati in Giappone. Vi sarebbero oltre 6 milioni di praticanti in tutto il mondo, tra detentori di dan registrati e praticanti di kendo attivi senza grado dan.   Nel 1975, la All Japan Kendo Federation sviluppò e pubblicò «Il concetto e lo scopo del Kendo».   Il concetto del Kendo per l’AJKF: «Il Kendo è un modo per disciplinare il carattere umano attraverso l’applicazione dei principi della katana» (cioè della spada).   Lo scopo del Kendo è indicato dai seguenti punti: Per plasmare la mente e il corpo. Per coltivare uno spirito vigoroso E attraverso una formazione corretta e strutturata, Impegnarsi per migliorare l’arte del Kendo. Tenere in grande considerazione la cortesia e l’onore. Associarsi agli altri con sincerità. E perseguire per sempre la coltivazione di se stessi. Così si potrà: Amare il proprio Paese e la società; Contribuire allo sviluppo della cultura; E promuovere la pace e la prosperità tra tutti i popoli.   L’allenamento di kendo è piuttosto rumoroso rispetto ad altre arti marziali o sport: i kendoka usano un grido, o kiai, per esprimere il loro spirito combattivo quando colpiscono. Inoltre, i kendoka eseguono fumikomi-ashi, un’azione simile a un colpo del piede anteriore, durante un colpo.   Come altre arti marziali, i kendoka si allenano e combattono a piedi nudi. Il kendo è idealmente praticato in un dōjō costruito appositamente, anche se spesso vengono utilizzate palestre sportive standard e altri luoghi. Un luogo appropriato ha un pavimento pulito e in legno molleggiato, adatto per il fumikomi-ashi.     Le tecniche di Kendo comprendono sia colpi che stoccate. I colpi vengono effettuati solo verso aree bersaglio specifiche (datotsu-bui) sui polsi, sulla testa o sul corpo, tutti protetti da un’armatura.   I bersagli sono men, sayu-men o yoko-men (lato superiore, sinistro o destro del men), il kote destro in qualsiasi momento, il kote sinistro quando è in posizione sollevata e il lato sinistro o destro del dō . Le stoccate (tsuki) sono consentite solo alla gola. Tuttavia, poiché una stoccata eseguita in modo errato potrebbe causare gravi lesioni al collo dell’avversario, le tecniche di stoccata nella pratica libera e nelle competizioni sono spesso riservate ai kendoka di grado dan maggiore.   Il sistema di classificazione kyū e dan, creato nel 1883, è utilizzato per indicare la propria competenza nel Kendo. I livelli dan vanno dal primo dan (sho-dan) al decimo dan (jū-dan). Di solito ci sono sei gradi sotto il primo dan, conosciuti come kyu. La numerazione kyu è in ordine inverso, con il primo kyu (ikkyū) che è il grado immediatamente inferiore al primo dan, e il sesto kyu (rokkyū) che è il grado più basso.   Non ci sono differenze visibili nell’abbigliamento tra i gradi di kendo; quelli al di sotto del livello dan possono vestirsi come quelli al di sopra del livello dan.   In Giappone, i gradi kyu sono generalmente detenuti dai bambini. L’esame per il 1° kyu (ikkyū) è spesso il loro primo esame e grado. Gli adulti generalmente sostengono il loro 1° dan (shodan) come primo esame. Nella maggior parte degli altri paesi al di fuori del Giappone, i kendoka superano tutti i gradi kyu prima di essere idonei per i gradi dan.   L’ottavo dan (hachi-dan) è il grado dan più alto ottenibile attraverso una prova di abilità fisica nel Kendo. Nell’AJKF, i gradi di nono dan (kyū-dan) e decimo dan (jū-dan) non vengono più assegnati, ma i kendoka del nono dan sono ancora attivi nel kendo giapponese. Le regole di classificazione della Federazione Internazionale di Kendo (FIK) consentono alle organizzazioni nazionali di kendo di istituire un comitato speciale per considerare l’assegnazione di questi voti.   Solo cinque kendōka ormai deceduti furono ammessi al grado di 10° dan in seguito alla fondazione nel 1952 della AJKF.

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Immagine di Vincent Diamante via Flickr pubblicata su licenza CC BY-SA 2.0  
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Sport e Marzialistica

La palestra del campione MMA Khabib Nurmagomedov perquisita dalla polizia russa

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Le forze di sicurezza nella repubblica russa meridionale del Daghestan hanno fatto irruzione in una struttura di allenamento di proprietà della stella dell’UFC Khabib Nurmagomedov, ha riferito venerdì l’agenzia di stampa TASS, citando la polizia locale.

 

Sui social media sono state condivise riprese video che mostrano le forze di sicurezza che circondano la palestra nella capitale del Daghestan, Makhachkala.

 

La ricerca farebbe parte di un’indagine su una serie di attacchi terroristici in Daghestan all’inizio di questo mese. Secondo i media locali, durante i raid non sono stati effettuati arresti.

 

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I media russi hanno precedentemente affermato che l’ex combattente di arti marziali miste (MMA) Gadzhimurad Kagirov, cugino del pugile russo dei pesi supermassimi Magomed Omarov, ex capo del distretto Sergokalinsky del Daghestan, era tra un gruppo di uomini armati che hanno attaccato siti nella città di Derbent, ed è stato ucciso durante la successiva operazione antiterrorismo.

 

Il Kagirov si sarebbe allenato nella palestra perquisita. Anche il figlio e un nipote di Omarov erano tra gli aggressori.

 

Nurmagomedov ha negato che Kagirov fosse un membro del suo team, ma ha osservato che l’ex lottatore potrebbe essersi allenato in precedenza nella sua palestra per un paio di mesi. Il club oggetto del raid è stato chiamato così in onore del padre dell’ex campione dei pesi leggeri UFC Abdulmanap Nurmagomedov, in seguito alla sua morte per complicazioni da coronavirus nel 2020.

 

Il campione MMA, considerato come uno dei più grandi lottatori di tutti i tempi, è daghestano e musulmano, ed ha talvolta invocato Allah al termine dei suoi incontri.

 

Come riportato da Renovatio 21, durante un recente evento UFC – la principale lega MMA il candidato alla presidenza del 2024 Donald J. Trump aveva promesso a Nurmagomedov che fermerà la devastante guerra di Israele a Gaza.

 

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Nurmagomedov stato il campione dei pesi leggeri UFC più longevo di sempre, avendo detenuto il titolo da aprile 2018 a marzo 2021. Con 29 vittorie e nessuna sconfitta, si ritirò con un record imbattuto.

 

Due volte campione del mondo di Sambo da combattimento, Nurmagomedov ha esperienza nella lotta greco-romana, nel Judo e nel Sambo, che è una derivazione russa full contact del Judo.

 

Nel 2019, Forbes ha classificato Nurmagomedov come l’atleta russo di maggior successo. Nurmagomedov è anche in cima alla lista delle 40 personalità dello spettacolo e dello sport russo di maggior successo sotto i 40 anni.

 

Le sue vittorie, come quella contro il campione irlandese Conor MacGregor, sono state salutate anche dal presidente Putin che si congratulava di persona con Khabin e suo padre, il veterano dell’Armata Rossa Abdulamap Nurmagomedov, un judoka che lo ha cresciuto dentro il mondo delle arti marziali.

 

È circolato a lungo il video in cui un Khabib bambino combatte contro un orso.

 

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Atleta decorato e veterano dell’esercito sovietico, Abdulmanap aveva praticato la lotta fin dalla tenera età, prima di allenarsi nel judo e nel Sambo nell’esercito. Il Nurmagomedov senior aveva dedicato la sua vita ad allenare i giovani del Daghestan, nella speranza di offrire un’alternativa all’estremismo islamico comune alla regione

 

Nel 2001, la famiglia Nurmagomedov si è trasferita a Makhachkala, la capitale del Daghestan, dove il Khabib si è allenato nel wrestling dall’età di 12 anni e nel judo da 15. Ha ripreso ad allenarsi nel combattimento di Sambo, sotto suo padre, all’età di 17 anni.

 

Nel corso della sua carriera, Nurmagomedov è diventato oggetto di numerose controversie per la stampa occidentale, tra cui un’affiliazione di lunga data con il leader ceceno, Ramzan Kadyrov.

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Immagine screenshot da YouTube
 

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Sport e Marzialistica

Il Ju-jitsu in Italia negli ultimi 35 anni: intervista ad un testimone dell’evoluzione della scena delle arti marziali

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Matteo Biscottini ha quarantanove anni, due figlie, ed un lavoro presso una multinazionale americana. Soprattutto, Matteo è un lottatore che ha seguito l’evolversi del Ju-jitsu e delle arti marziali quasi 35 anni. La sua conoscenza della storia del Ju-jitsu in Italia – una storia che al momento non ha ancora scritto nessuno – è quindi piuttosto approfondita, soprattutto per quanto riguarda le sensazioni, il clima del mondo della lotta che si viveva negli Novanta e Duemila. Un mondo che è cresciuto e cambiato. Renovatio 21 lo ha intervistato per avere uno scorcio della scena di questi ultimi decenni.   Hai fatto Ju-jitsu tradizionale o Brazilian Ju-Jitsu? Ho iniziato a 15 anni con il Ju-Jitsu tradizionale che ho praticato a lungo. Dopo una pausa di un anno – una delusione amorosa – sono tornato alla disciplina scoprendo però che c’era dell’altro, così da avvicinarmi al Brazilian Ju-jitsu. Erano gli anni Novanta, il tempo dei primi UFC… Ecco che quindi mi sono avvicinato a quella che io chiamo semplicemente «lotta». La differenza tra un’arte e l’altra è fondamentalmente il regolamento a cui ti sottoponi per combattere a livello sportivo. Il corpo umano è uno: il braccio, se porti la mano al viso, si piega, al contrario va contro l’articolazione. Una leva è una leva: indipendentemente dal nome con cui la chiami. Può dire arm-bar, oppure ude-ishigi-jugi-gatame, sempre quello è.   Che cintura hai conseguito? Non do molto valore alle cinture, sono pezzi di stoffa lunghi. Quello che è davvero conta è la persona che avvolgono. Ho un secondo Dan di Ju-jitsu tradizionale e sono una delle prime cinture nere di Brazilian Ju-jitsu in Italia. Nel 1999 ho preso il primo diploma dato in Italia per il corso istruttori tenuto dai fratelli Vacirca, una famiglia di brasiliani di stanza a Zurigo. Ho ricevuto il titolo di «Basic Instructor», all’epoca era per noi una cosa da non credere. 

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Che altri maestri hai avuto? Il maestro Fabio Tumazzo, ad oggi ancora una leggenda, uno dei maestri più preparati in Italia. Ai tempi non c’era nemmeno una vera specialità: andavamo e lottavamo, potevi chiamarlo grappling, o quello che ora si chiama «Ju-jitsu no gi». Tumazzo è maestro di Judo e di Sambo, un personaggio che ha una conoscenza talmente profonda che travalica quella che è un’arte marziale presa singolarmente. Frequentavo almeno tre volte alla settimana le sue lezioni alla vecchia Polisportiva Affori, a Milano.   E tu hai fatto il maestro? Sì, ho insegnato per una decina di anni, assieme ad altre due persone. Abbiamo portato avanti un dojo al CUS [Centro Universitario Sportivo, ndr] di Como assieme a Luca Foggetta e a Roberto Sanavio, due amici fraterni colleghi insegnanti di arti marziali. Poi la palestra è chiusa per vicissitudini personali: io ad esempio mi sono trasferito per lavoro nel Regno Unito. Una cosa va detta: non abbiamo mai chiesto un soldo per insegnare. Le persone pagavano l’assicurazione e l’iscrizione alla palestra del CUS, ma il nostro corso era gratuito.    Che soddisfazioni ti ha dato gestire il dojo? L’esperienza al CUS ci ha permesso di trasmettere la conoscenza, che è una delle cose più importanti nelle arti marziali: senza tradizione, non avremmo nessuna eredità, non avremmo Ju-jitsu, non avremmo Karate, Judo, Aikido… Non avremo niente. Abbiamo avuto il privilegio di poter decidere a chi insegnare e a chi non insegnare – le teste di c… le tenevamo lontane dalla palestra.   Racconta. Ad esempio c’era un ragazzo che chiedeva di finire prima l’allenamento. Quando gli abbiamo chiesto perché ci ha risposto che aveva l’obbligo di firma: tornava in carcere. Con lui nessuna questione. Non abbiamo nessun problema di razza, religione, dimensioni, gusti sessuali: sul tatami si è tutti uguali… Non ci importava nulla. Bastava che si allenassero e si comportassero bene e come gli altri in allenamento. Non tutti però sono sempre stati così, Quelli che non si allineavano o che si comportavano in maniera inappropriata, sono stati messi alla porta. È capitato di avere allievi palesemente interessati alla violenza extra palestra, è in questi frangenti che preferisci non insegnare ed allontanare la persona

Matteo Biscottini in allenamento no gi

Avete avuto qualche risultato agonistico? Sì, c’è stata qualche vittoria a livello italiano ed Europeo, ma il nostro non è mai stato un corso finalizzato solo all’agonismo… Negli ultimi anni, il proliferare di numerose federazioni minori ha portato alla divisione degli atleti in molte sotto-categorie, regalando medaglie anche a chi non le avrebbe meritate. È un po’ come mia figlia, che al termine di un incontro di Judo a 7 anni, prendeva la medaglia come quelli che non avevano vinto.   Quando ha iniziato a praticare Ju-jitsu? Come ho detto, ho iniziato a 15 anni. Facevo sia Ju-jitsu, ma parallelamente mi sono allenato nel Judo. Ho fatto anche lotta greco-romana, pugilato, Thai Boxe, Kick Boxing… ne ho fatte tante e ne ho prese tante! Il Ju-jitsu mi aveva attirato perché mi ero documentato, avevo studiato – avendo sempre avuto passione per il Giappone – e avevo saputo che si trattava dell’arte di combattimento praticata dal Samurai quando non ha la spada a disposizione.   Che tipo di Ju-jitsu c’era all’epoca in Italia? A quei tempi c’era il Ju-jitsu che chiamo «reale». Fino agli anni Novanta il Ju-jitsu le arti marziali erano irreali. Tori praticava l’attacco, Uke glielo lasciava fare. Erano d’accordo. Questo era irreale: ha reso persone sicure di sé quando non possono esserlo, mettendo a rischio la loro incolumità facendo loro credere di poter rispondere ad un’aggressione.   E poi? Poi si è cominciato a rispondere alla domanda delle domande: qual è l’arte marziale più forte? La risposta cominciava ad arrivare dalle gabbie dell’UFC: un’arte marziale contro l’altra. Lì si è vista nascere l’evoluzione del Judo e del Ju-jitsu fatta dalla famiglia Gracie.

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Dove hai praticato? A Milano, innanzitutto. Mi sono allenato tantissimo negli USA, dove per sette otto anni sono andato a praticare grappling e Brazilian Ju-jitsu per l’estate. Andavo in vacanza con la fidanzata dell’epoca, divenuta poi mia moglie, prendendo l’albergo di fianco alle palestre che mi interessavano. Sono stato alla Legends MMA di Los Angeles, dove ai tempi allenava Eddie Bravo, che è un personaggione. Mi porto ancora a spasso una tecnica che mi ha insegnato. Sono stato alla palestra Gracie di Miami. A New York sono stato ad allenarmi di recente alla Renzo Gracie Ju-jitsu a Wall Street.    Cosa ricordi dell’ambiente agli inizi? Il primo Ju-jitsu era l’«UFC di casa nostra». Alla Polisportiva Affori arrivavano combattenti di tutte le discipline. C’era confronto, c’era curiosità, c’era apertura mentale nei confronti di tutte le tecniche che si potevano assimilare. Chiunque arrivasse ed avesse voglia di confrontarsi, era benvenuto. Dal ragazzo americano che faceva lotta libera, al ragazzo senegalese esperto di Laamb, ho combattuto contro chiunque. Era un ambiente pulito, dove ci si gonfiava di mazzate, ma si andava via sorridendo. Purtroppo questa situazione si è persa. Adesso ci sono palestre attrezzate ed insegnare è diventato un lavoro, la professionalità ha un po’ fatto perdere il romanticismo dei film di Van Damme che da ragazzini guardavamo con occhi sognanti.   Hai mai utilizzato le tecniche di Ju-jitsu fuori dal dojo? Mi sono mantenuto l’università facendo il buttafuori e la guardia del corpo. È bene non usare le tecniche che si apprendono in palestra fuori dalla palestra. Tuttavia, se apprese in maniera corretta, possono tornare utili.   E recentemente? Per soccorrere una donna e tre bambini che gridava aiuto sono stato aggredito da un signore nordafricano apparentemente ebbro che per fortuna ad un certo punto ha preferito me come obiettivo invece che la signora. Ho proiettato e controllato, immobilizzato: mai percosso. Poi sono arrivati i carabinieri, che avevo chiamato in precedenza. È importante che ognuno di noi intervenga in aiuto dei più deboli, quando necessario, e che non chiuda gli occhi davanti ad un sopruso.   Che consigli dai a chi può trovarsi in una situazione simile? Ti rispondo in latino: «Aequam memento rebus in arduis servare mentem». Significa: mantenere sempre la mente lucida anche nelle situazioni più difficili. E poi consiglio una lettura: Onset Mindset: mentalità aggressiva in una società difensiva, di Alberto Gallazzi, probabilmente il più grande esperto italiano in sicurezza e close protection. È un bel libro che potrebbe essere utile a tante persone.   Sei stato ad allenarti in Giappone? Sì, mi sono allenato al Takada Dojo, a Tokyo.   E quindi hai incontrato Kazushi Sakuraba, il cosiddetto «Gracie Killer»? No, lui in quel periodo non c’era. Però ho lottato con Gengo Tanaka, uno dei suoi sparring partner. Una bella lotta interessante. Abbiamo finito 1-1. A quei tempi ero forte. No gi. [significa combattimento senza l’abito tradizionale giapponese, ndr]

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Sei tra quelli che ritengono il Judo una disciplina da seguire, e da temere, anche per chi fa Ju-jitsu? Il Judo va sempre bene. Se hai un giorno libero dagli allenamenti in settimana, vai a fare Judo. Se hai un bambino, mandalo a fare Judo. Puoi essere un fighter di MMA, di Ju-jitsu, ma se ti fai un po’ di Judo va sempre bene.   In Giappone hai visto cosa succede anche al Kodokan, il quartier generale mondiale del Judo dove insegnava il fondatore Jigoro Kano… Il Kodokan è un altro mondo. Si respira tradizione. Sinceramente, per il mio livello di Judo, non ho avuto il coraggio di allenarmi: ero in Giappone per lavoro e non potevo rischiare. Avevo trovato un signore fuori che mi ha invitato a vedere una gara. È stato impressionante. Erano tutti ragazzi giovani che combattevano puliti, avevano un Judo bello, non quello agonistico fatto soprattutto di grande forza.    Chi ammiri nel panorama del Ju-jitsu oggi? Nel panorama di Ju-jitsu in realtà nessuno. Nel panorama della lotta ho due riferimenti: il primo è sempre Kazushi Sakuraba, che con la sua fantasia rende ogni incontro divertente, oltre che marzialisticamente efficace. Il secondo è Josh Barnett, detto «Warmaster», grande atleta di catch wrestling, discendente della scuola del «catch as catch can» (prendi come riesci a prendere») di Karl Gotch. Il 22 di giugno a Tokyo ci sarà un meraviglioso evento chiamato Bloodsport Bushido dove combatteranno sia Barnett che Sakuraba.   Dove ti alleni ora? Adesso mi alleno alla Grappling Varese dai fratelli Fabrizio e Tommaso Foresio, due fortissimi agonisti del team Stance di Milano. Qui un gruppo agonistico di giovani permette ad un vecchietto come me di sorridere ancora facendolo lottare e facendolo gioire nel vedere l’evoluzione dell’arte marziale.   Come sono i giovani che oggi trovi nei dojo di Ju-jitsu? Ce ne sono di due tipi: quelli che sanno soffrire e quelli che non sanno soffrire. I primi faranno strada, i secondi devono imparare a soffrire per fare strada e migliorarsi. Trovo comunque che sia una generazione più preparata fisicamente. Si tratta di un Ju-jitsu che si è evoluto e richiede una fisicità maggiore di quello di una volta.   Che consiglio daresti loro dopo 35 anni di pratica? Se dovessi dare un consiglio direi: restate sempre cinture bianche, non abbiate paura di imparare anche dall’ultimo arrivato in palestra!   Quanto è cambiata la scena da vent’anni a questa parte? La scena è varia. Il Ju-jitsu permette a tutti di praticare, perché può essere praticato anche in maniera non esageratamente violenta. Anche chi è un po’ più timoroso riesce ad affacciarsi in palestra. Questo lo ho visto negli ultimi anni. È comunque lo sport con maggiore crescita negli ultimi due decenni.   Quali sono i motivi dell’esplosione di interesse nei confronti del Ju-jitsu? Sicuramente la moda fa la sua parte. Tuttavia credo che la base di questo successo sia la possibilità di confrontarsi in un mondo dove il confronto è messo al bando.    Parliamo di cosa ti ha spinto verso le arti marziali. Sulla custodia del tuo telefono è stampata l’immagine de L’Uomo Tigre Non c’è solo lui. Sono stato spinto a fare arti marziali da Naoto Date, certo, ma c’era anche Kenshiro, di cui sto ancora studiando la tecnica degli tsubo, ma non sono ancora riuscito a far esplodere nessuno… 

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Immagine di Earl Walker via Flickr pubblicata su licenza CC BY-ND 2.0.
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