Pensiero
Sputi e insulti alla studentessa no green pass a Bologna

Una studentessa universitaria di 20 anni è stata vittima di un grave episodio di discriminazione a Bologna.
Silvia, secondo anno di filosofia presso l’Alma Mater bolognese.
La ragazza in un video pubblicato su Instagram racconta le sue ragioni. Dice di aver deciso di non aderire «a questo strumento di controllo e discriminazione» che è la tessera verde, continuando comunque a frequentare le aule universitarie.
Le è stato detto però di uscire, dice, dalle persone addette al controllo.
«Mi è stato detto che non ho il diritto di seguire lezioni che la mia famiglia con una generosa se non esagerata dose di tasse annuali»
«Mi è stato detto che non ho il diritto di seguire lezioni che la mia famiglia con una generosa se non esagerata dose di tasse annuali».
«Mi è stato detto da professoresse informate del mio atto di disubbidienza che sarei dovuta allontanarmi dalla struttura, o in caso contrario rendermi responsabile dell’annullamento della lezione» racconta la giovane, che racconta che il corso di cui voleva seguire la lezione si intitolava «i diritti degli altri». Sui giornali progressisti compaiono ora articoli in cui la professoressa interessata «smentisce» dicendo «ho dovuto applicare il protocollo dell’Università».
Tuttavia, che lascia completamente basiti è la descrizione della reazione dei compagni di corso di Silvia.
La loro reazione, dice la studentessa, «è stata quella di riversare l’estremo emblema della divisione sociale su di me, urla di scherno, insulti, pretese da parte dei pendolari di essere rimborsati del costo del biglietto, incitazioni ad andarsene e non ripresentarsi».
«Fuori dall’università un gruppo di miei colleghi si è riunito per minacciarmi, con frasi del tipo che se fossi stato un ragazzo, le avrei già prese, mi avrebbero già menata… manifestazioni di disprezzo da parte di colleghe, di ragazze, che si scansavano comunicandomi di non voler essere contagiate, beffe, altri insulti»
«Fuori dall’università un gruppo di miei colleghi si è riunito per minacciarmi, con frasi del tipo che se fossi stato un ragazzo, le avrei già prese, mi avrebbero già menata… manifestazioni di disprezzo da parte di colleghe, di ragazze, che si scansavano comunicandomi di non voler essere contagiate, beffe, altri insulti».
Alcune ricostruzioni parlano di sputi per terra vicino ai piedi della ragazza.
La ragazza ricorda che il rettore ha inviato pochi giorni fa un’email riguardante l’Open Day dell’Ateneo come una giornata di «inclusione ed accoglienza».
«Sulla base di quello che sto vedendo, mi chiedo quanto ancora si sia disposti a rinunciare alla propria umanità, e penso che la disobbedienza civile non solo sia un diritto – perché è un diritto – ma è anche un dovere, e dopo il 15 sarà un dovere di chiunque non voglia rendersi conto dell’assassinio della libertà, della libertà reale»
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L’episodio ha raccolto l’attenzione del facitore di buffi editoriali in prima pagina sul Corriere della Sera, il conduttore televisivo Massimo Gramellini.
Dopo una vuota solidarietà alla vittima – dove preme però ricordare «i pendolari che avevano preso un treno per raggiungere l’ateneo», che utilizzano peraltro treni misteriosamente esenti da green pass – il presentatore RAI scrive:
«Sulla base di quello che sto vedendo, mi chiedo quanto ancora si sia disposti a rinunciare alla propria umanità, e penso che la disobbedienza civile non solo sia un diritto – perché è un diritto – ma è anche un dovere, e dopo il 15 sarà un dovere di chiunque non voglia rendersi conto dell’assassinio della libertà, della libertà reale»
«Voi no vax&pass sostenete di combattere una battaglia di libertà, ma, per la stragrande maggioranza della comunità di cui fate parte, la prima libertà da tutelare riguarda la riduzione dei rischi del contagio, considerati molto più reali degli ipotetici effetti collaterali del vaccino».
Davvero? Ma dove sta scritto? Questa cosa del valore assoluto della sicurezza, del dogma della «libertà da riduzione del rischio di contagio» (non il contagio: il rischio di contagio – badate alle parole)… dove sta scritta?
È scritto nella Costituzione? È scritto nella Bibbia? È scritto nella legge naturale? È scritto nelle stelle?
No. Sta scritta nelle disposizioni dello Stato pandemico, che sono tipiche dello diritto positivo (quello, per esempio, di una certa vecchia Germania). Cioè, il pensiero fondante la convivenza civile sotto COVID di cui parla il Gramellino – l’imperativo del non-rischio. a scapito di qualisiasi altra libertà – è una regola totalmente arbitraria, una convenzione calata dall’alto che nulla ha a che fare né con il diritto naturale né con il diritto tout court.
Il problema è che poi – sempre in prima sul principale quotidiano nazionale – va ancora peggio.
«Se fossimo davvero in una dittatura, gli altri oppressi vi capirebbero. Magari tacerebbero per viltà, ma vi capirebbero». Si tratta di una osservazione di profondità disarmante, un colpo di genio che può capitare solo ai grandi scrittori che sono al contempo lavoratori dei varietà RAI. Gramellini non deve aver mai sentito che i totalitarismi, quelli che ci fanno studiare a scuola, si basano spesse volte su un’immane consenso della popolazione, specie quando viene loro proposta una soluzione totalista all’emergenza che la nazione sta vivendo. Hitler fu eletto a suon di voti, Mussolini diciamo era piuttosto popolare, per Stalin morirono forse venti milioni di russi nella «Guerra Patriottica», i cinesi si sono rivoltati contro il Partito Comunista solo decenni dopo i disastri di Mao (per poi essere schiacciati dalla violenza sanguinaria di quelli che adesso sono partner di politici e industriali nostrani che i grandi giornali leccano a dovere).
Gramellini non lo sa – lui della dittatura ha questa idea da fumetto (del resto, se ha letto gli ultimi trenta anni di pagine culturali del Corriere non può essere altrimenti): la dittatura è quella cosa dove tutto il popolo odia il dittatore ma non può farci niente perché tristemente oppressa dal potere. Diciamo pure che neanche Di Battista, neanche Di Maio, neanche un grillino qualsiasi possono avere una visione così infantile del concetto di dittatura. Che volete farci, l’editorialista TV è giovane, ha appena 61 anni, ma è diventato padre da poco (ci tiene a farlo sapere) – quindi forse possiamo dire che è un ragazzo-padre. Su certe cose non ha ancora avuto il tempo di metterci la testa. Forse più avanti.
Infine, il colpo finale.
Forza Silvia. Hai venti anni, ma quante cose hai capito più dei soloni di università e giornali? Quanta più vita, quanta più saggezza, c’è in te rispetto a chi si permette di offendere te e la libertà che difendi
«Le minoranze vanno tutelate, Silvia. Però anche le maggioranze. E quando una minoranza pretende di imporre la propria visione del mondo alla maggioranza, non pensa anche lei che stia esercitando un sopruso in nome della libertà?». Il discorso non fa una grinza, e vorremmo utilizzarlo magari prossimamente quando si ridiscuterà la legge Zan.
Tuttavia, il personaggio TV del Corriere non capisce che non stanno imponendo alla nostra minoranza una astratta «visione», ma un siero genico sperimentale, con un’operazione che va contro i principi morali e costituzionali fino a ieri condivisi dalla maggioranza stessa – al punto che la Carta su cui si basa la Repubblica, fino a qualche ora fa, ci risulta fosse ancora lì…
Ma forse il Gramellini non sa neppure questo.
Forza Silvia. Hai venti anni, ma quante cose hai capito più dei soloni di università e giornali? Quanta più vita, quanta più saggezza, c’è in te rispetto a chi si permette di offendere te e la libertà che difendi?
Immagine di sailko via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)
Pensiero
Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.
Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.
Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…
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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.
L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.
Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)
Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)
Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.
È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.
Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).
Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.
A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.
Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.
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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.
Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.
Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.
Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.
La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).
Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)
Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.
Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).
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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.
La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.
La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese


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Geopolitica
«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».
Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.
«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».
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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».
Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».
L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».
L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».
La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».
«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».
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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.
Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».
Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.
Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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