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Sintesi dell’Anarco-tirannia

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Renovatio 21 traduce e ripubblica questo testo dello scrittore americano Sam Todd Francis (1947-2005), colui che ancora negli anni Novanta aveva coniato il termine «anarco-tirannia» per descrivere la situazione di una società che è al contempo degradata dall’incuranza delle leggi e al contempo sottomessa ad un potere tirannico (poliziesco, fiscale, morale).

 

In pratica, per Francis l’anarco-tirannia è una dittatura armata senza stato di diritto, una sintesi hegeliana di quando lo Stato regola tirannicamente o opprimente la vita dei cittadini ma non è in grado o non vuole far rispettare la legge protettiva fondamentale.

 

L’articolo originale «Synthesizing Tyranny» era apparso nel numero di aprile 2005 di Chronicles, un articolo non più visibile online. L’importanza di scritti come questo, dopo i fatti delle rivolte etniche francesi ma anche di quelle italiane (Peschiera del Garda, 2 giugno 2022) è fuori di discussione.

 

 

 

Con buona pace di William Butler Yeats, la mera anarchia non si scatena nel mondo.

 

Ciò di cui godiamo in questo Paese [gli USA, ndt], e in larga misura nella maggior parte delle altre Nazioni occidentali, è un po’ più complicato della semplice anarchia. È, infatti, il risultato unico del genio politico dell’era moderna: ciò che, nel 1992, ho chiamato «anarco-tirannia», una sorta di sintesi hegeliana di due opposti: anarchia e tirannia.

 

Il concetto elementare di anarco-tirannia è abbastanza semplice. La storia conosce molte società che hanno ceduto all’anarchia quando le autorità governative si sono dimostrate incapaci di controllare criminali, signori della guerra, ribelli e predoni invasori.

 

Oggi, questo non è il problema negli Stati Uniti.

 

Il governo, come può dirvi qualsiasi contribuente (soprattutto quelli morosi), non accenna a crollare o a dimostrarsi incapace di svolgere le sue funzioni. Oggi negli Stati Uniti il ​​governo lavora in modo efficiente. Le tasse vengono riscosse (ci puoi scommettere), la popolazione viene contata (più o meno), la posta viene consegnata (a volte) e Paesi che non ci hanno mai infastidito vengono invasi e conquistati.

 

Eppure, allo stesso tempo, il Paese sguazza abitualmente in una condizione che spesso ricorda lo stato di natura di Thomas Hobbes: cattivo, brutale e basso.

 

I tassi di criminalità sono effettivamente diminuiti nell’ultimo decennio o giù di lì, ma il crimine violento rimane così comune nelle città più grandi e nelle loro periferie che sia i residenti che i visitatori vivono in un continuo stato di paura, se non di terrore.

 

Il segno più evidente di quella che normalmente si chiamerebbe anarchia è l’invasione dell’immigrazione. Secondo alcune serie stime, non meno di 11-13 milioni di stranieri clandestini ora vivono negli Stati Uniti, la maggior parte dei quali dal Messico o dall’America centrale. Il governo messicano incoraggia attivamente questa invasione e, come recentemente riportato dalla stampa, fornisce persino ai propri cittadini una guida su come realizzarla.

 

Il nostro governo non fa nulla di serio per fermare l’invasione, per arrestare gli invasori, o per scoraggiare l’aggressione che lo stato messicano sta perpetrando. Gli invasori – poiché i residenti dell’Arizona, dove circa il 40 per cento degli stranieri clandestini entrano nel paese, si lamentano costantemente – minacciano la vita, la sicurezza e la proprietà dei cittadini americani rispettosi della legge; abbassare i salari; divorare il benessere; e costituiscono una nuova sottoclasse oggetto di manipolazione politica demagogica da parte di politici sia americani che messicani.

 

(I clandestini in questo Paese non possono votare legalmente, anche se ciò non li ferma necessariamente, ma rimangono elettori in Messico, e i politici messicani ora fanno regolarmente campagne per i loro voti negli Stati Uniti.)

 

Il governo federale ha invaso l’Iraq, sebbene l’Iraq non ci abbia mai danneggiato o minacciato, non fa praticamente nulla per resistere alla massiccia invasione (e alla fine alla conquista) del proprio Paese e alla deliberata violazione delle proprie leggi da parte del Messico.

 

Ciò che abbiamo oggi in questo Paese, quindi, è sia l’anarchia (l’incapacità dello stato di far rispettare le leggi) sia, allo stesso tempo, la tirannia: l’applicazione delle leggi da parte dello Stato per scopi oppressivi; la criminalizzazione degli onesti e degli innocenti attraverso tasse esorbitanti, regolamentazione burocratica, invasione della privacy e ingegneria delle istituzioni sociali, come la famiglia e le scuole locali; l’imposizione del controllo del pensiero attraverso programmi di «formazione alla sensibilità» e multiculturalisti, leggi sui «crimini d’odio», leggi sul controllo delle armi che puniscono o disarmano cittadini altrimenti rispettosi della legge ma non hanno alcun impatto sui criminali violenti che si procurano armi illegalmente e un vasto labirinto di altre misure. In una parola, anarco-tirannia.

 

Un esempio della coesistenza di anarchia e tirannia deve bastare. Il 9 gennaio di quest’anno, un uomo di nome Mustafa Mohammed, un immigrato somalo, è stato arrestato nella casa di riposo di Alexandria, in Virginia, dove lavorava, per aver ripetutamente sfregiato i volti dei residenti. Circa sei residenti anziani sono rimasti feriti, uno con il collo rotto e un altro che ha richiesto 200 punti di sutura. Il signor Mohammed, il presunto colpevole, è già stato nei guai per un violento alterco commesso mentre lavorava in una farmacia locale. Quando alcuni altri lavoratori lo hanno preso in giro, ha iniziato a colpire uno di loro, un compagno immigrato somalo, in faccia. Le accuse contro il signor Mohammed sono state ritirate dopo che la sua vittima ha rifiutato di testimoniare («perché altri membri della comunità somala lo hanno pregato di non andare avanti», come riportato dal Washington Post).

 

Nello stesso momento in cui la polizia, i tribunali e la comunità somala avevano a che fare con il signor Mohammed, la polizia di Washington era impegnata in affari più seri. Stavano schierando altre quattro telecamere nascoste nel Distretto di Columbia per catturare gli automobilisti che superano i limiti di velocità

 

Nonostante le precedenti assicurazioni del governo distrettuale secondo cui lo scopo delle telecamere era la sicurezza pubblica, il sindaco di Washington Anthony Williams ha riconosciuto nell’autorizzare i quattro nuovi dispositivi che «la continua elaborazione dei biglietti del distretto e la riscossione delle entrate del distretto» ne erano le ragioni. Dall’agosto 2001, simili telecamere nascoste hanno incassato la bella somma di 63 milioni di dollari per il Distretto.

 

Sotto l’anarco-tirannia, il controllo di elementi veramente pericolosi come Mustafa Mohammed è messo in secondo piano. Il vero problema è come spremere denaro dai comuni cittadini che non si lamenteranno, non reagiranno e non inizieranno a colpire le persone in faccia.

 

L’anarco-tirannia, ovviamente, non è limitata agli Stati Uniti. Nell’Europa occidentale, secondo alcune stime, ci sono circa 800 persone ora incarcerate per quelli che possono essere chiamati solo «reati di pensiero» – per violazioni delle leggi di vari Paesi contro la «diffamazione» razziale (di solito, usando epiteti e insulti razziali o etnici), negazione dell’olocausto, lamentele riguardo all’immigrazione, discorsi di differenze razziali e persino per critiche alle religioni non occidentali.

 

Lo scorso dicembre, la polizia britannica ha arrestato due leader del British National Party anti-immigrazione, Nick Griffin e il fondatore del BNP, John Tyndall, perché telecamere nascoste (non per eccesso di velocità o multe ma per spionaggio) li avevano registrati mentre dicevano cose poco gentili sull’Islam. Secondo quanto riferito, il signor Griffin l’ha definita «una religione malvagia». La polizia del West Yorkshire si vantava di aver dispiegato una squadra di agenti per il caso Griffin «cinque giorni alla settimana, dieci ore al giorno».

 

Come ha commentato Rod Liddle, giornalista del London Spectator, in un articolo sul caso:

 

«Ora, a questo punto dell’articolo, un bravo giornalista ti direbbe quanto fosse grande quella squadra di poliziotti. E quanto era costata al contribuente l’inchiesta. E lo ha anche incrociato con quanti furti con scasso, rapine, etc., Erano stati effettuati nell’area del West Yorkshire da luglio al 12 dicembre. Soprattutto quelli irrisolti. Ma non sono riuscito a trovare quella roba: la polizia non vuole dirmelo. Ma ricordiamoci: una squadra di poliziotti, cinque giorni alla settimana, dieci ore al giorno».

 

Proprio come gli interessi finanziari nascosti sono stati i motivi immediati per l’installazione delle telecamere per il traffico a Washington, c’erano motivi politici nascosti per il rastrellamento di Mr. Griffin, un avvocato istruito a Cambridge che stava progettando di candidarsi al Parlamento nel collegio elettorale di David Blunkett, allora ministro degli Interni nel regime di Blair.

 

Il Ministero dell’Interno, come ha chiarito abbastanza chiaramente l’articolo di Spectator, sembra aver avuto più che poco a che fare con il blitz di Griffin.

 

Il signor Blunkett, suggerisce il Liddle, «desiderava placare l’enorme elettorato musulmano del New Labour che negli ultimi tempi è stato lamentoso, in parte per la guerra contro l’Iraq, in parte per gli arresti di sospetti terroristi musulmani qui nel Regno Unito. Quale modo migliore per placare un po’ che radunare gli orribili razzisti del BNP?»

 

Ma motivi pragmatici come volere più soldi per il governo o imbavagliare i rivali politici non sono i veri motori dell’anarco-tirannia. Né è il semplice calcolo di molte forze dell’ordine che velocisti e corridori a luci rosse di solito non rispondono al fuoco. Solo i veri criminali lo fanno, quindi è molto più sicuro fare i duri con gli pseudocriminali che con quelli veri. Ma questi e altri casi simili sono semplicemente esempi di come politici e amministratori essenzialmente corrotti sfruttino il sistema anarco-tirannico per il proprio guadagno immediato o lo usino per evitare di svolgere i lavori spesso pericolosi e difficili che dovrebbero svolgere.

 

Ciò che guida veramente il sistema è la rivoluzione del nostro tempo, l’assalto interno contro le identità e i valori tradizionali che viene solitamente definito la «”guerra culturale*.

 

Le leggi che vengono applicate sono quelle che estendono o rafforzano il potere dello stato e dei suoi alleati e delle élite interne (la polizia, i militari, le burocrazie, la classe dell’insegnamento e del lavaggio del cervello, gli esattori delle tasse, gli ingegneri sociali professionisti i cui affari sono è progettare e attuare la rivoluzione, etc.) oppure sono le leggi che puniscono direttamente quegli elementi recalcitranti e «patologici» della società che si ostinano a comportarsi secondo le norme tradizionali – persone che non amano pagare le tasse, indossare le cinture di sicurezza, o consegnare i propri figli ai terapisti stravaganti che gestiscono le scuole pubbliche; o le persone che possiedono e custodiscono armi da fuoco, espongono o addirittura indossano la bandiera confederata, montano alberi di Natale, sculacciano i propri figli, e citano la Costituzione o la Bibbia, per non parlare delle figure politiche dissidenti che effettivamente si candidano e cercano di fare qualcosa contro l’immigrazione di massa delle popolazioni del Terzo Mondo. Tali elementi pericolosi sono i principali bersagli della parte tirannica dell’anarco-tirannia.

 

Del resto, sono anche gli obiettivi principali della parte sull’anarchia. Le leggi che non vengono applicate sono quelle che proteggono tali elementi e le loro famiglie e comunità: leggi contro l’immigrazione stessa così come leggi che dovrebbero proteggere i comuni cittadini dai comuni criminali.

 

Nella rivoluzione, vedete, il criminale ordinario, così come l’immigrato clandestino, è almeno un membro onorario, se non un ufficiale a tutti gli effetti, della classe rivoluzionaria, come il proletariato di Karl Marx o gli studenti universitari e gli hippy controculturali di Herbert Marcuse.

 

Al contrario, i teppisti comuni che commettono stupri, rapine e omicidi fungono de facto da truppe sul campo della guerra culturale, e non è certo un caso che ora ci sia un crescente movimento per estendere il voto a quei criminali abbastanza sfortunati da essere sbarcati in prigione.

 

L’anarco-tirannia, quindi, non è solo una deformazione del sistema di governo tradizionale né un sintomo di «decadenza».

 

Lo Stato oggi è perfettamente in grado di far rispettare le leggi contro l’immigrazione clandestina e di catturare e deportare i clandestini che sono già qui. È anche perfettamente in grado di catturare e imprigionare o giustiziare assassini, stupratori e rapinatori che continuano a infestare le nostre strade e i nostri quartieri, così come è perfettamente in grado di catturare automobilisti che superano i limiti di velocità e che passano con il rosso.

 

La spiegazione conservatrice convenzionale di tali «fallimenti» da parte dello stato, come risultato di «debolezza di volontà» o qualcosa del genere, non fila. Lo Stato e coloro che lo controllano hanno chiaramente la volontà di far rispettare le leggi che desiderano far rispettare. Lo stato non «fallisce» nel far rispettare il resto; non ha alcuna intenzione di farle rispettare né alcun desiderio di farlo.

 

L’anarco-tirannia è del tutto deliberata, una trasformazione calcolata della funzione dello Stato da quella impegnata a proteggere la cittadinanza rispettosa della legge a uno stato che tratta il cittadino rispettoso della legge come, nel migliore dei casi, una patologia sociale e, nel peggiore, un nemico.

 

Dopo aver conquistato l’apparato statale, gli anarco-tiranni sono la vera classe egemonica nella società contemporanea, e la loro funzione è quella di formulare e costruire la nuova «cultura» del nuovo ordine che immaginano, una cultura che rifiuta come repressiva e patologica la cultura tradizionale e civiltà.

 

L’equivoco conservatore e l’errata caratterizzazione dell’anarco-tirannia come «decadente» o frutto di «debolezza di volontà» (o, in alternativa, di «relativismo» o «nichilismo»), infatti, non fa che mascherare e consolidare le reali finalità del sistema e funzioni.

 

Finché coloro che riconoscono che c’è qualcosa che non va nel sistema penseranno che si tratti solo di una sorta di problema tecnico – il risultato della corruzione, della tipica inefficienza burocratica, o della decadenza, etc. – allora penseranno che può essere «riparato» attraverso mezzi politici convenzionali. Basta cacciare i barboni ed eleggere un nuovo gruppo di buoni repubblicani onesti e conservatori del movimento che leggono la National Review, e tutto andrà bene. Faranno rispettare la legge e l’ordine e rafforzeranno la pattuglia di frontiera. Va tutto bene.

 

Certo, non va tutto bene, perché l’anarco-tirannia è il sistema stesso, non solo un problema nel sistema, e un motivo importante per cui è riuscita a trionfare e a chiudersi al potere è che dipende proprio dalla passività e dal conservatorismo instilla nella popolazione che governa.

 

La popolazione che sta schiavizzando non ha bisogno di resistere come i criminali violenti che gli anarco-tiranni si rifiutano di controllare, ma deve essere disposta ad agire come i cittadini della vera repubblica che l’anarco-tirannia ha sovvertito e spostato.

 

Solo se i servi della gleba sono disposti e in grado di assumersi i compiti e i doveri di governare se stessi piuttosto che semplicemente sopportare ciò che i loro padroni trasmettono loro, il gemellaggio tra anarchia e tirannia che l’attuale sistema impone comincerà a sgretolarsi.

 

«Chi vorrebbe essere libero», ha scritto Lord Byron, «lui stesso deve sferrare il colpo».

 

 

Sam Francis

Aprile 2005

 

 

 

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Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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