Scuola
Scuola 4.0, contraddizione e catastrofe. Nuovo intervento di Elisabetta Frezza

Renovatio 21 pubblica l’intervento di Elisabetta Frezza al Convegno di Parma «L’assetto dei ruoli e delle responsabilità dopo l’emergenza» di venerdì 5 maggio. Non si tratta del primo scritto dell’autrice – che può essere considerata come una delle pochissime persone impegnata nell’analisi del tema della Scuola 4.0 – dedicato a questo specifico argomento. Renovatio 21 aveva pubblicato mesi fa l’articolo «Scuola 4.0, il programma di smantellamento dell’istruzione continua» e l’articolo «L’abisso della Scuola 4.0», che potrebbe aver avuto una certa eco in vari ambienti.
Credo possiamo dirci tutti d’accordo nel ritenere la scuola un ganglio fondamentale della cosa pubblica, della res publica, non fosse che per il fatto di essere quello che, più di ogni altro, ci parla di futuro.
È tanto fondamentale quanto (da alcuni decenni a questa parte) politicamente e socialmente negletto: tant’è che è stato lasciato in gestione, di fatto, da un lato a decisori extraistituzionali dai molti e stravaganti nomi (TreeLLLe, Invalsi, Indire, ecc.), collocati al di fuori dei luoghi della dialettica politica e legati a doppio filo a organismi sovranazionali anch’essi non rappresentativi; dall’altro al braccio operativo di apparati pedagogico-burocratici che, innervando – loro sì! – le istituzioni centrali e periferiche, hanno garantito il perpetuarsi di un moto lineare e costante pur nell’avvicendarsi di governi di diversi colori.
La scuola è insomma un ircocervo tecno-burocratico, che ha raggiunto la sua espressione compiuta con l’epifania della buona scuola renziana – «buona» per autocertificazione: un marchingegno che è stato assemblato al di fuori delle stanze parlamentari, ma poi in queste stanze è stato ratificato e confezionato sottoforma di legge dello stato.
Il suo testo è scritto in quella lingua parallela, si può dire esoterica, le cui formule di ordinanza e i cui stilemi permeano tutto il pianeta scuola, a partire dai suoi vivai, e vi hanno attecchito al punto da diventare idioma comune, e far entrare tutti in risonanza.
Il risultato di questo riformismo compulsivo, nutrito dal mito dell’innovazione – dell’innovare per innovare, sul presupposto che il nuovo è buono per definizione –, è tale che qualunque persona raziocinante suggerirebbe di correggere il tiro, se non di invertire la rotta.
Perché oggi ci troviamo a fare i conti con una vera catastrofe educativa: scolari sempre più ignoranti (anche se inconsapevoli di esserlo, perché abbacinati da diplomi sfolgoranti); docenti sempre più depressi; famiglie sempre più rassegnate (o semplicemente accontentate con gli effetti speciali esposti in vetrina – la vetrina si chiama PTOF –, oppure tacitate con voti gonfiati: troppi genitori, purtroppo, si fanno disinnescare così).
Fatto sta che siamo tutti abitatori in pectore di una incombente società analfabeta, cieca verso le proprie ricchezze artistiche, dimentica della propria straordinaria cultura, ineducata – e perciò insensibile – alla bellezza.
In questo pluridecennale processo di demolizione controllata della scuola a mezzo riforme, lo choc pandemico ha segnato una tappa decisiva, anche perché ha occupato un tempo proporzionalmente assai lungo nella economia di ancor brevi esistenze come quelle dei bambini e dei ragazzi.
Nel biennio 2020/2022 sulla scuola si è abbattuta, non a caso, una alluvionale normativa d’emergenza a carattere speciale, che si è contraddistinta per un grado di inflessibilità rimasto ineguagliato nel panorama europeo e internazionale. Ma che, sempre non a caso, ha consentito di raggiungere in tempi compressi traguardi insperati.
Ha sortito infatti un effetto catapulta, in duplice direzione: ha permesso di espandere a dismisura lo spazio occupato, in orario curricolare, da contenuti ideologici, tanto effimeri quanto scadenti, correlativamente erodendo lo spazio necessario all’apprendimento delle materie fondamentali (peraltro l’indottrinamento scolastico è ora sistematizzato dentro la nuova materia pigliatutto che va sotto l’etichetta, bella e inattaccabile, di «nuova educazione civica», introdotta dalla l.92/2019 entrata in vigore con l’a.s. 2020 e che comprende, come piatto forte, la catechesi sull’Agenda 2030); ma l’emergenza ha anche consentito di fare un improvviso balzo in avanti nella cosiddetta transizione digitale, un balzo che, dopo le prove generali celebrate appunto grazie al pretesto sanitario (con l’allenamento intensivo a vivere, studiare e lavorare nella c.d. contactless society), si è cristallizzato, rendendo stabile se non irreversibile il punto di caduta.
Il recente esperimento sociale di cui la scuola è stata laboratorio privilegiato ha tuttavia prodotto anche un effetto collaterale: ha fatto risuonare un allarme così forte da non poter più essere soffocato. Perché il riavvio delle lezioni dopo il loro trasloco nella bolla telematica (con la fallimentare “didattica a distanza”), oltre a far emergere il diffuso danno psicofisico arrecato ai più giovani da misure securitarie sproporzionate, ha messo impietosamente a nudo le paurose voragini cognitive accumulate nel tempo dagli scolari, da ben prima della emergenza.
Essi sono rientrati in aula più arrugginiti e inselvaggiti che mai, regrediti e profondamente provati dalla esperienza nefasta dell’isolamento domestico; dalla deformazione protratta dei ritmi della loro quotidianità; dalla immersione telematica in apnea, dalla prolungata desuetudine allo studio, dalla espropriazione fraudolenta di quel contesto vitale, fisico e partecipato, che la classe costituisce, in modo infungibile.
La cattività, insomma, ha fatto da detonatore a problemi preesistenti e in parte già cronicizzati.
E qui apro e chiudo una breve parentesi. Non dobbiamo dimenticarci di cosa hanno subìto gli scolari, impunemente. Ricordiamo il rituale del controllo della temperatura e delle abluzioni; l’occultamento dei volti e l’impedimento a respirare; i sensi unici alternati nei corridoi; la quarantena dei fogli; il divieto di uscire dal recinto segnato con il nastro adesivo o delimitato con il plexiglas; il divieto di passarsi una matita; la disinfestazione del materiale scolastico; le misurazioni col metro tra le rime buccali; ricordiamo anche le stanze di isolamento.
Ricordiamo il ricatto: solo se ti sottoponi a un trattamento sanitario in fase di sperimentazione puoi salire sull’autobus che ti porta a scuola, puoi fare sport, entrare in un museo, in un teatro, in un cinema, frequentare l’università.
Ricordiamo gli episodi di incuria verso bambini che stavano male e venivano abbandonati a se stessi, di brutale discriminazione, di vera e propria vessazione gratuita.
Ne ricordiamo troppi, di questi episodi, figli della sospensione del diritto e di un incredibile scollamento dalla logica e dalla ragione, che ha scatenato in molti sedicenti educatori una morbosa eccitazione per l’esercizio di un potere indebito quanto inebriante, monco di una minima riserva aurea di umanità.
Ecco, non possiamo pensare che tanta dissennatezza non abbia lasciato cicatrici profonde, anche indelebili, in chi ci è rimasto immerso per anni decisivi della propria esistenza. Eppure, di questo massacro, molti hanno gioito, perché ne hanno tratto vantaggio. Chiusa parentesi.
Ma all’allarme giovani che oggi risuona un po’ dappertutto, l’istituzione come risponde? Risponde incrementando le dosi del veleno che lo ha provocato: e cioè da una parte svuotando sempre più la scuola dei suoi contenuti essenziali (delle conoscenze oggettive e durevoli, quelle che producono frutto nel tempo e aiutano a strutturare una personalità) per sostituirli con paccottiglia usa e getta e con attività ricreative assortite; dall’altra parte sterilizzandola e smaterializzandola, ovvero alienandola nella dimensione asettica del virtuale.
In concreto, da una parte il curricolo viene saturato con i dogmi dell’Agenda 2030 (oltre che con PCTO e soft skills, orientamenti e trovate varie); dall’altra parte viene imposta a ciascuna scuola, di ogni ordine e grado, una radicale metamorfosi digitale in ossequio al Piano scuola 4.0.
Queste due voci, questi due filoni, peraltro si intersecano, sempre sotto il segno invincibile della innovazione. Del resto, hanno la stessa matrice, lo stesso marchio di fabbrica. La nuova educazione civica, materia trasversale che intacca e colora tutte le altre discipline, e i loro libri di testo, si pone infatti come obiettivo principe quello di plasmare “cittadini globali e digitali” (formuletta ossimorica e beota che significa il contrario di ciò che evoca: significa infatti non-cittadino, apolide devoto all’Agenda ONU 2030 la quale, con i suoi 17 “goal”, che sono i 17 comandamenti della nuova religione universale, è il contenitore capiente di tutti i macromotivi ideologici in voga e in continuo aggiornamento; per esempio, ha recepito in corsa tutto il pacchetto di precetti sanitari).
I contenuti ideologici, quindi, in misura sempre maggiore prendono il posto, a scuola, di quelli propriamente culturali e delle conoscenze fondamentali (in pratica, si integra un aliud pro alio). Ma – attenzione – perché sta bollendo in pentola una sostituzione ancor più radicale: una vera e propria palingenesi tecnologica, che significa lo smantellamento, anche fisico, della scuola come l’abbiamo sempre conosciuta e come ancora resiste nel nostro immaginario: nel senso di mura, di persone in carne e ossa, di strumenti didattici come penne, libri, quaderni.
Ed è su questo che vorrei soffermarmi oggi, nei limiti del tempo a disposizione, per cercare di far comprendere di quale magnitudine sia la manovra in cantiere; una manovra che, foriera di ricadute inimmaginabili sulla formazione dei nostri giovani e sulla vita di tutti noi, si sta realizzando con una fretta sconsiderata, sfuggendo qualsiasi discussione politica nel merito, col favore del buio e del silenzio.
Mi riferisco al Piano scuola 4.0, che è un documento non firmato, lungo 39 pagine, di delirio futuristico, scritto in modo che non saprei come altro definire se non degradante. Lo scempio linguistico rientra nel fenomeno di imbarbarimento culturale e colonizzazione cerebrale di cui molti vanno fieri come fosse una medaglia al valore.
Questo giudizio non è un’iperbole; sfido chiunque – testo alla mano – a smentirlo.
Il Piano contiene la tabella di marcia che segna le progressive tappe da spuntare, da qui al 2025, nel processo di digitalizzazione della didattica e della organizzazione scolastica italiana secondo le linee di investimento previste dal PNRR.
L’estate scorsa, a ciascuna singola scuola italiana – dagli asili fino alle università – è stata gettata un’esca appetitosa: ogni scuola si è vista recapitare a bilancio decine, spesso centinaia di migliaia di euro (a seconda del tipo di istituto e della sua grandezza), «per accelerare il processo di transizione digitale della scuola italiana in tutte le diverse dimensioni e allinearlo alle priorità dell’Unione Europea». Si tratta di soldi che la UE piglia dalle nostre tasche e ci restituisce ordinandoci come dobbiamo spenderli.
Gli istituti che volessero vedere confermati questi finanziamenti dovevano presentare, entro il 28 febbraio, il proprio progetto, e caricarlo in una piattaforma che si chiama FUTURA.
In pratica, la burocrazia nostrana, al guinzaglio di quella europea, dice (o meglio, sussurra) a ciascun dirigente: io ti do tanti soldi, non perché tu me li chiedi per fare qualcosa che ti serve, ma perché devi spenderli per acquistare articoli dal mio catalogo, anche se non ti servono; e, in funzione di questo mucchio di roba che ti si rovescerà addosso, devi ristrutturare la didattica e la formazione del personale, l’offerta formativa e il sistema di valutazione.
Si crea così una immensa mangiatoia per il mercato delle tecnologie dell’educazione, che alimenta lo strapotere delle lobby del digitale. E d’altra parte secondo l’EFF, una fondazione americana di legali specializzati nella tutela dei «diritti digitali», la tecnologia digitale educativa è «la più importante industria al mondo di estrazione di dati». E, come dice Peter Greene: «Se i dati sono il nuovo petrolio, allora le scuole pubbliche sono il nuovo Texas». Si promuove questo immenso «supermercato» in cui le scuole non «possono», ma «debbono», precipitarsi a fare acquisti. Se poi i muri cadono a pezzi e i docenti sono sottopagati, questo al PNRR non interessa, arrangiatevi.
Si tratta del più imponente finanziamento mai ricevuto dalle scuole italiane (per un totale di 2,1 miliardi di euro) e destinato esclusivamente – per vincolo tassativo – alla creazione 1) di «ambienti d’apprendimento innovativi» per scuole sia di primo sia di secondo grado («Next generation Classroom») e 2) di «laboratori per le professioni digitali del futuro» per le sole scuole di secondo grado («Next Generation Lab»).
L’ex ministro del governo Draghi Patrizio Bianchi (direttore scientifico della Fondazione Internazionale Big Data e Intelligenza Artificiale IFAIB) lo ha definito «il più grande intervento trasformativo mai realizzato, con risorse e tempi certi». Qui sta il punto.
È ravvisabile infatti un indubbio salto di qualità rispetto a provvedimenti del passato anche recente, dei quali pure l’innovazione tecnologica, con tutta l’enfasi che la sorregge da anni, rappresentava il motore: per esempio i due Piani Nazionali Scuola digitale che si sono succeduti dal 2017, e anche i progetti europei del Programma Operativo Nazionale (PON istruzione), i quali però prevedevano risorse e aree di intervento decisamente più limitati e, soprattutto, conservavano il profilo della volontarietà.
Invece la pioggia di denaro del PNRR, coi suoi tempi e i suoi modi, è legata ai precisi vincoli e condizionalità, e incorpora processi serrati di gestione e di monitoraggio, con tanto di interventi amministrativi specifici in caso di inadempimento.
Non è facile prefigurarsi plasticamente lo stravolgimento prossimo venturo. Proviamo a farcene un’idea.
Abbiamo detto che il primo ambito di intervento (Next Generation Classroom) riguarda l’ambiente dell’apprendimento, definito “ecosistema di apprendimento” in omaggio alla concorrente retorica ambientalista in agenda.
Dicono: lo spazio tradizionale, configurato come «un’aula di forma quadrata o rettangolare, con le file di banchi disposti di fronte alla cattedra del docente», va urgentemente smantellato perché obsoleto. «La ricerca nazionale e internazionale ha mostrato come il modello tradizionale di spazio di apprendimento non sia oggi più in linea con le esigenze didattiche e formative delle studentesse e degli studenti rispetto alle sfide poste dai cambiamenti culturali, sociali, economici, scientifici e tecnologici del mondo contemporaneo».
Da notare subito il vizio ricorrente di spacciare per acquisizioni scientifiche scelte del tutto discrezionali e anzi arbitrarie, semplicemente funzionali alla vis innovatrice dell’agenda. Si parla infatti di «ricerche nazionali e internazionali» senza alcun riferimento bibliografico (che probabilmente non esiste). Come fanno notare su Roars Giovanni Carosotti e Rossella Latempa, le presunte fonti scientifiche non sono citate, ma solo millantate; in compenso vengono citate le raccomandazioni del World Economic Forum, Report 2020, The Future of Jobs. Il che la dice lunga.
Ma torniamo al nostro documento.
«Gli ambienti fisici di apprendimento non possono essere oggi progettati senza tener conto anche degli ambienti digitali (ambienti on line tramite piattaforme cloud di e-learning e ambienti immersivi in realtà virtuale) per configurare nuove dimensioni di apprendimento ibrido. L’utilizzo del metaverso in ambito educativo costituisce un recente campo di esplorazione, l’eduverso, che offre la possibilità di ottenere nuovi “spazi” di comunicazione sociale, maggiore libertà di creare e condividere, offerta di nuove esperienze didattiche immersive attraverso la virtualizzazione, creando un continuum educativo e scolastico fra lo spazio fisico e lo spazio virtuale per l’apprendimento, ovvero un ambiente di apprendimento onlife». Dove va sottolineata, tra gli altri obbrobri, l’orwelliana novità del lemma onlife, evidente calco di online, assurto quest’ultimo a entità primaria da cui deriverebbe il resto della esperienza umana. Tutto ribaltato.
La scuola deve diventare una sorta di squallida sala giochi in cui le tempeste di immagini soppiantano lo studio delle leggi della realtà. All’orizzonte, il suo trasloco, armi e bagagli, nel metaverso. Che non è altro che un casco che impedisce di vedere la realtà e immerge in una consolatoria fiction permanente, regno incontrastato delle lobby del digitale smaniose di impossessarsi dei luoghi, delle menti, delle intimità.
Quanto ai Next Generation Labs, essi mirano «allo svolgimento di attività autentiche e di effettiva simulazione dei contesti, degli strumenti e dei processi legati alle professioni digitali, di esperienze di job shadowing, […] di azioni secondo l’approccio work based learning,[…]. Si caratterizzano per essere coperti da una connettività diffusa in banda ultra larga, e sono aperti alla sperimentazione della tecnologia 5G».
«Tali spazi devono essere disegnati come un continuum fra la scuola e il mondo del lavoro, coinvolgendo, già nella fase di progettazione, studenti, famiglie, docenti, aziende, professionisti, e integrandosi con i Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO). I Next Generation Labs possono rappresentare una grande opportunità per ampliare l’offerta formativa della scuola, adeguando e innovando i profili di uscita alle nuove professioni ad alto uso di tecnologia digitale». «Le competenze digitali avanzate dovrebbero sostenere la forza lavoro, consentendo alle persone di acquisire competenze digitali specifiche con l’obiettivo di ottenere posti di lavoro di qualità e intraprendere percorsi professionali gratificanti».
I novatori hanno deciso (loro) che acquisire competenze digitali specialistiche è prerequisito irrinunciabile per «ottenere posti di lavoro di qualità e intraprendere percorsi professionali gratificanti». Ne consegue che studiosi, contemplativi, poeti, artisti, contadini, artigiani, filosofi, sono per definizione una manica di falliti.
Praticamente, occorre allestire delle basi spaziali, e chiamarle scuole.
E nessuno pensi di svicolare, perché «la Roadmap del Piano Scuola 4.0 prevede […] un sistema informativo di monitoraggio e di rendicontazione online. Le scuole gestiranno le azioni di progettazione, allestimento e utilizzo dei nuovi ambienti e dei laboratori secondo un cronoprogramma nazionale».
E ancora: il Piano è «un programma di performance, con traguardi qualitativi e quantitativi (milestone e target) prefissati a scadenze precise, che tutti i soggetti attuatori dovranno rispettare». «La rendicontazione sul raggiungimento del target è soggetta a monitoraggio continuo e deve essere costantemente aggiornata dall’istituzione scolastica».
Siamo di fronte a un rigido schema impositivo: a un sopruso impacchettato in carta regalo.
Da lustri ci martellano in testa il mantra della autonomia scolastica – strumento in effetti servito per polverizzare il sistema italiano di istruzione – ma, quando si tratta di applicare l’agenda, l’autonomia si dissolve come per incanto.
Abbiamo detto sopra della strumentalità della «emergenza» ai fini di un cambio epocale di paradigma. Non è una illazione: di ciò il sistema non ha mai fatto mistero.
Anzitutto, una curiosità: già nel 2019, la CEO e cofondatrice di Holon IQ, azienda leader che si occupa di analisi di mercato nel settore EdTech, raccontava come la transizione dovesse avvenire «a poco a poco, poi all’improvviso».
Ed era il 2019: profetica. La stessa Holon IQ qualche mese più tardi riferiva: «È stato un periodo straordinario per tutti noi: non importa dove vivi nel mondo, COVID-19 ha portato un’interruzione improvvisa e senza precedenti dell’umanità. L’UNESCO stima che più di 1,5 miliardi di studenti, più del 90% della popolazione studentesca mondiale, siano confinati nelle loro case».
Ne erano strafelici, loro. L’UNESCO dal canto suo, già nella primavera del 2020, agli albori dell’evo pandemico, preannunciava in gran pompa l’«esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione». E due esponenti del Forum di Davos, in aprile, pubblicavano un articolo intitolato «La pandemia da COVID-19 ha cambiato per sempre l’istruzione. Ecco come». Il settore EDTech, che lavora per trasformare il modo in cui il mondo impara, ha guadagnato solo nel primo trimestre 2020 il 10% di quanto aveva guadagnato in dieci anni.
In ogni caso, è il Piano stesso a sottolineare in più parti l’assist fornito dalla pandemia. Per esempio dice che la pandemia «ha avuto un rilevante impatto nell’accelerazione dell’utilizzo di tecnologie basate sulla intelligenza artificiale, la robotica, l’automazione, e-commerce e blockchain, la realtà virtuale e aumentata, la stampa 3D/4D, cloud computing, internet delle cose, etc.».
Dice pure che il Piano, «affrontando le sfide e le opportunità messe in luce dalla pandemia di COVID 19…sottolinea l’esigenza di una migliore qualità e una maggiore quantità dell’insegnamento relativo alle tecnologie digitali, il sostegno alla digitalizzazione dei metodi di insegnamento e la messa a disposizione delle infrastrutture necessarie per un apprendimento a distanza inclusivo e resiliente».
Grazie alla spinta dell’emergenza pandemica, siamo dunque planati in un altro pianeta, 4.0. La Scuola 4.0 è la metascuola. Il 4 non si sa bene da dove venga, ma evoca la cifra ricorrente della rivoluzione progettata da noti consessi filantropici. L’edizione italiana del manuale di istruzioni scritto da Schwab e intitolato alla Quarta Rivoluzione Industriale è prefatto, guardacaso, da John Elkann.
E la Fondazione Agnelli, con tutti i suoi satelliti e in particolare l’osservatorio Eduscopio (che dà periodicamente le pagelle a tutte le scuole d’Italia, così orientando flussi di iscrizioni e finanziamenti), da decenni ospita la cabina di regia del sistema scolastico italiano.
Come si legge nel suo sito, la fondazione «ha concentrato attività e risorse sull’education (scuola, università, apprendimento permanente) come fattore decisivo per il progresso economico e l’innovazione…» eccetera eccetera. A ciò si può aggiungere che l’ex ministro Bianchi nel 2018 scriveva il libro 4.0 La nuova rivoluzione industriale. Mettendo insieme le tessere, il Piano 4.0 parrebbe un omaggio all’illuminato programma di Quarta Rivoluzione Industriale.
In questa prospettiva non è difficile cogliere un salto quantico verso la coltivazione differenziata della popolazione: da una parte i piani alti, che si istruiranno alla maniera di sempre – probabilmente persino in aule quadrate o rettangolari, persino con una dotazione di libri di carta, quaderni, penne e matite; dall’altra le masse subalterne, piazzate davanti ai teleschermi a galleggiare nel nulla, a premere pulsantini ed emettere suoni disarticolati, come tante scimmie ammaestrate, preda di automatismi indotti, sottratte allo studio, e alla fatica che lo studio comporta, al contatto fisico con le cose e con i propri simili. Destinate alla atrofia cerebrale. In un mondo che non c’è, ma in cui dovranno evaporare, fluttuare, intripparsi e rimbambirsi, per volere delle istituzioni.
Sguardi, suoni, movimento, tutta quella fisicità e sensorialità che è parte integrante del processo di apprendimento, e che lo nutre, lo sostanzia e lo vivifica, devono sparire.
Deve sparire il «corpo a corpo» della lezione, deve sparire la palestra di vita che ogni classe rappresenta, e ha rappresentato per ognuno di noi con il suo caleidoscopio di personalità e di esperienze.
Deve sparire la penna, così come la carta, il libro e tutte le operazioni, a partire dalla calligrafia che, si sa, non si esauriscono nell’esercizio della manualità fine (che è già parecchio), ma sono collegate allo sviluppo della memoria e di una serie infinita di attitudini superiori. E che proietta all’esterno un’impronta unica, espressione irripetibile della personalità individuale. Ma nel mondo della tecnologia sono contemplate solo copie conformi.
Soprattutto, deve sparire l’umanità, fatta di carne e spirito, di pensiero e di creatività.
Attenzione, perché gli adulti sedotti dall’avanguardia digitale non sono in grado di comprenderne appieno il grado di distruttività, perché nella loro esistenza hanno beneficiato del confronto con la realtà vera, nel suo bene e nel suo male. In qualche modo, nella loro magari inconsapevole memoria immunitaria, possiedono ancora gli ultimi strumenti per padroneggiare i meccanismi della macchina. Ma non è così per quei figli che, connessi senza soluzione di continuità, sovrappongono il virtuale al reale spostando fuori di sé, in una protesi tecnologica, una quantità di funzioni essenziali il cui esercizio è destinato all’atrofia.
Epperò in questo scenario folle va registrato un fatto, che è passato, non per nulla, piuttosto in sordina. Il 20 dicembre scorso è stata protocollata una circolare del Ministero dell’istruzione e del merito intitolata: “Indicazioni sull’uso dei telefoni cellulari e analoghi dispositivi elettronici in classe”, volta a contrastare, di questi strumenti, gli utilizzi impropri.
Il testo della circolare – che rinvia a quello di una circolare del 2007 dell’allora ministro Fioroni – non ne è la parte più significativa. Ciò che davvero colora l’intervento del ministro Valditara è il documento allegato alla circolare, che va in totale rotta di collisione con il piano scuola 4.0, tanto che forse ha creato nell’ambiente un certo imbarazzo. Pare infatti che il pacchetto (circolare più allegato) non sia stato molto divulgato tra gli interessati (studenti, docenti, genitori) che per lo più non ne hanno nemmeno avuto notizia.
Questo allegato è la Relazione finale della indagine conoscitiva condotta dalla Settima Commissione Permanente del Senato della precedente legislatura, intitolata «Sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento», esposta dall’allora senatore Andrea Cangini nella seduta del 9 giugno 2021 (i lavori della commissione erano iniziati nel 2019, prima della pandemia).
La relazione, approvata in commissione con l’unanimità dei voti, è stata redatta sulla scorta, oltre che di una copiosa letteratura scientifica internazionale (questa volta citata in bibliografia), anche delle numerose audizioni di psichiatri, neurologi, psicologi, pedagogisti, grafologi, esponenti delle forze dell’ordine; enumera i gravissimi danni fisici e psicologici che discendono dall’uso/abuso della strumentazione digitale (smartphone, videogiochi, tablet) da parte degli studenti, ma soprattutto afferma come tale uso/abuso comporti la «progressiva perdita delle facoltà mentali essenziali», ovvero delle «facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza».
Per avere una visione prodromica del disastro annunciato, nella relazione si suggerisce di guardare agli effetti che la sbornia digitale ha prodotto sulle giovani generazioni in Cina, Giappone, Corea, modelli avanzatissimi quanto alla diffusione della tecnologia e perciò anticipatori delle sue ricadute, dove da anni proliferano i centri di disintossicazione.
«In Cina i giovani “malati” sono 24 milioni», si legge. «Quindici anni fa è sorto il primo centro di riabilitazione, concepito con logica cinese: inquadramento militare, tute spersonalizzanti, lavori forzati, elettroshock, uso generoso di psicofarmaci. Un campo di concentramento. Da allora, di luoghi del genere ne sono sorti circa 400. Analoga situazione in Giappone, dove per i casi più estremi è stato coniato un nome: “hikikomori“. Significa “stare in disparte”».
Gli hikikomori «vegetano chiusi nelle loro camerette, perennemente connessi con qualcosa che non esiste nella realtà». «In Giappone sono circa un milione. Un milione di zombie».
I dispositivi – diventati una sorta di «appendice del corpo» portatrice di algoritmi programmati per adescare e trattenere il più a lungo possibile i possessori – generano dipendenza e riducono la neuroplasticità del cervello – continua la relazione. Il cervello infatti agisce come un muscolo, si sviluppa in base all’uso che se ne fa e, se una determinata facoltà non è esercitata, si atrofizza. «Niente di diverso dalla cocaina – si legge – stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche».
In conclusione, «dal ciclo delle audizioni svolte e delle documentazioni acquisite non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento. Anzi, tutte le ricerche scientifiche internazionali citate dimostrano, numeri alla mano, il contrario».
Dunque, «rassegnarsi a quanto sta accadendo sarebbe colpevole. Fingere di non conoscere i danni che l’abuso di tecnologia digitale sta producendo sugli studenti e in generale sui più giovani sarebbe ipocrita. Come genitori e ancor più come legislatori avvertiamo il dovere di segnalare il problema, sollecitando Parlamento e Governo a individuare i possibili correttivi». Per non rendere i nostri figli drogati e decerebrati. Sic.
In sostanza quindi, lo stesso ministero che spinge a tutta velocità sul Piano scuola 4.0 e con esso impone alle scuole la didattica digitale sulla base di un generico richiamo a una presunta ricerca scientifica, le mette in guardia dagli effetti della didattica digitale diffondendo un vigoroso allarme basato su ampia e documentata ricerca scientifica (letteratura internazionale ed esperti audìti). Avverte che, andando avanti così, cresceremo un esercito di zombie.
Ora, la contraddizione è plateale e piuttosto stupefacente. Ma perché il ministro Valditara si è sentito in dovere di riesumare dalla naftalina un documento che sarebbe altrimenti con ogni probabilità caduto nell’oblio? Forse per porre tutti – politici, burocrati, insegnanti, genitori – di fronte alla propria immane responsabilità di questo momento storico? Per mettersi semplicemente in pace la coscienza? Non si sa.
Si sa però che intanto, i formidabili appetiti che muovono il PNRR evidentemente temono che lo stridio di questa contraddizione induca qualche ripensamento; ecco perché l’entusiasmo rumoroso delle prime battute del Piano scuola 4.0 (entusiasmo indotto dalla fascinazione del denaro) è stato presto deposto, e la patata bollente affidata alla felpata iniziativa dei dirigenti scolastici, sorretta dalla placida passività di docenti e dalla totale ignoranza dei genitori. Che, come le stelle, stanno a guardare.
Oltre a quanto è riportato nella relazione, si possono aggiungere, a margine, le rilevazioni ufficiali dell’OCSE PISA nei circa 80 paesi dell’area OCSE, dove dal 2010 (il 5 maggio 2010 il Parlamento Europeo approva la Nuova Agenda Europea del Digitale, in accordo con le prospettive della Quarta Rivoluzione Industriale di Schwab, per favorire la transizione verso un «mercato unico digitale») è stato avviato un processo di digitalizzazione sorretto da una martellante propaganda: salta fuori che le prestazioni scolastiche medie in lettura e comprensione dello scritto e in scienze e matematica registrano una significativa regressione.
I grafici e le tabelle parlano chiaro. I danni maggiori si ravvisano proprio nei paesi più industrializzati e iperdigitalizzati. (Giorgio Matteucci, Il libro nero della scuola, Arianna editrice, 2022: documenta la mappa che sta dietro a tutto questo).
È un caso? È la stessa OCSE a rispondere, in un report del 2015, dove dice: «Le risorse investite nelle tic (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) per l’istruzione non sono legate al miglioramento dei risultati degli studenti in lettura, matematica, scienze…nei paesi in cui è meno comune per gli studenti utilizzare internet a scuola per i compiti, le prestazioni in lettura sono migliorate più rapidamente rispetto ai paesi in cui tale uso è in media più comune…i livelli di utilizzo del computer al di sopra della attuale media OCSE sono associati a risultati significativamente inferiori». E ancora: «In media, negli ultimi 10 anni, i paesi che hanno fatto investimenti significativi nelle tic per l’istruzione non hanno visto alcun miglioramento notevole nelle prestazioni dei loro studenti in lettura, in matematica e scienze».
Ce lo dicono loro. Gli studi sono univoci e comunque è tutto talmente autoevidente – basterebbe chiedere conto a un qualsiasi genitore sensato – che la mancanza di ogni remora, di ogni richiamo alla prudenza, e di ogni tentativo di frenare il treno in corsa, risulta particolarmente inquietante.
Questo vale per gli scolari. Ma non si può prescindere dal guardare anche ai docenti, la cui sorte è per ovvie ragioni interdipendente da quella degli scolari. Perché è dalla loro libertà (o subalternità a logiche aliene) che dipende la formazione dei primi.
La buona riuscita del Piano implica l’addestramento dei docenti, chiamati ad assistere gli alunni in questa fase di transizione, a fare da traghettatori verso il metaverso, da Caronti, insomma.
A questo fine il Piano prevede la costituzione di quella che definisce leadership educativa: un gruppo di insegnanti, selezionati in base al criterio della fedeltà allo spirito del Piano e alle parole d’ordine che lo sorreggono, in ragione di ciò, assumono una posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto ai colleghi. Se si vuole fare carriera, si deve intraprendere un nuovo cursus honorum che nulla ha a che fare con il bagaglio culturale e professionale specifico, il quale passa in secondo piano, anzi diventa proprio irrilevante.
In base alle proprie «competenze digitali», infatti, i docenti sono suddivisi in sei livelli (che riproducono i livelli delle certificazioni linguistiche): A1 Novizio, A2 Esploratore, B1 Sperimentatore, B2 Esperto, C1 Leader, C2 Pioniere. Non è uno scherzo.
Si va dunque dal Novizio (A1), che è l’esemplare consapevole, ma con limitate conoscenze, ancora bisognoso di “incoraggiamento e accompagnamento”; fino al Pioniere (C2), vero leader, «mosso» dal continuo «impulso di innovare».
Poi ci sono le «community di docenti creatori di contenuti digitali», che sono belle anche loro.
In sostanza, quindi, si vanno strutturando nuove gerarchie interne al corpo docente funzionali ad assicurare la prona esecuzione dei diktat tecnocratici.
Nell’estate del 2022 suscitò una polemica l’improvvida e sinistra uscita dell’ex Ministro Bianchi al convegno organizzato dall’Aspen Institute a Venezia: «in 4/5 anni dobbiamo riaddestrare 650.000 insegnanti per andare incontro ad un insegnamento adeguato al futuro digitale e all’interconnessione globale che si è ormai prospettata».
Dal riaddestramento ora si è ripiegati verso un più dolce «accompagnamento» dei docenti – che è un po’ come avere un amministratore di sostegno. Resta comunque immutato l’intento, chiarissimo, di insegnare ai docenti come esercitare il proprio mestiere, e di sottoporli a un controllo stringente. Occorre per loro una formazione obbligatoria e continua, in quanto «è necessario che la progettazione didattica, disciplinare e interdisciplinare, adotti il cambiamento progressivo del processo di insegnamento».
Carosotti-Latempa scrivono: «Ciò che è anomalo – ma nient’affatto accidentale – è l’invadenza nel campo strettamente didattico, finalizzata a condizionare le modalità d’insegnamento dei docenti secondo strategie uniformi e imposte dall’alto».
Nel Piano, a pag. 27, si legge: «È necessario che la progettazione didattica, disciplinare e interdisciplinare, adotti il cambiamento progressivo del processo di insegnamento e declini la pluralità delle pedagogie innovative (apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification, etc.) lungo tutto il percorso scolastico…trasformando la classe in un ecosistema di interazione…». «Allo stesso tempo gli ambienti innovativi e le tecnologie possono rappresentare una importante occasione di cambiamento dei metodi e delle tecniche di valutazione degli apprendimenti…grazie al contributo offerto dalle tecnologie digitali…».
La condizionalità del finanziamento del PNRR è configurata in modo da incidere sulle metodologie e progettualità della didattica, e perciò direttamente sui contenuti dell’insegnamento e sui criteri di valutazione. Investe quindi frontalmente la libertà di insegnamento, che è valore costituzionalmente tutelato. Si badi bene: la libertà di insegnamento è sì una prerogativa che appartiene a chi insegna, ma la cui ricaduta va a beneficio di chi dell’insegnamento è destinatario, e in conseguenza dell’intera comunità. Si tratta di un principio cardine della democrazia. Che qui viene calpestato.
Il ruolo prezioso e delicatissimo del docente ne esce umiliato. Il docente si deve trasformare in “facilitatore digitale” e mero esecutore di ordini superiori, secondo un modello sostanzialmente autoritario.
A tale scopo non manca nemmeno l’invito rivolto ai Dirigenti a incitare il corpo docente ad adeguarsi ai nuovi paradigmi.
«Fondamentale è il ruolo dei dirigenti scolastici nell’introdurre il cambiamento nell’ambiente esistente per consentire ai docenti di organizzare il loro insegnamento in modo diverso, prototipare e sperimentare nuove disposizioni spaziali della classe e nuove metodologie didattiche, guidando il processo di trasformazione e attivando risorse interne di supporto e di accompagnamento».
Per avere ulteriore conferma del degrado, è istruttivo farsi un giro nel portale di Scuola Futura, dove sono pubblicizzati corsi accreditati dal Ministero per dare supporto a Dirigenti Scolastici, Animatori digitali, Team dell’innovazione, nella elaborazione dei progetti, «step by step» (dicono nel loro bell’italiano). Ci si imbatte in annunci tipo: «occasione irripetibile», SCONTO 20% per iscrizioni entro un dato termine. Le lezioni sono tenute da docenti con profilo tipo il seguente: formatore professionale, Animatore Digitale, membro dell’ecosistema STEAM della sua città, mentor CoderDojo, Ambassador Kid Game Jam, Leading Teacher European Code Week, e altre qualifiche di incontestabile rilievo. Nei prossimi giorni partirà un nuovo grappolo di webinar e – si segnala – è prevista una scontistica che arriva addirittura fino al 40% per chi porta molti amici.
Ma resta ancora un ultimo aspetto da considerare su cui nessuno pare sollevare obiezioni: la marginalizzazione degli organi collegiali. Infatti nella procedura per l’aggiudicazione dei fondi del PNRR il protagonista è il dirigente, coadiuvato dall’animatore digitale e da un «gruppo di progetto» formato dai docenti più zelanti nel sostenere la svolta cibernetica – che alla fine li toglierà di mezzo perché la scuola non avrà più bisogno di loro, li sostituirà con gli algoritmi, ma a loro va bene così.
Il collegio docenti e il consiglio di istituto sono interpellati solo in una fase successiva, di attuazione dei progetti in sede di rendicontazione, di fatto per una mera ratifica di scelte già fatte. Il decreto sulla governance del PNRR (77/2021), al Titolo II, art. 12, prevede, in caso di inadempienza, inerzia o ritardo, da parte dei soggetti attuatori, agli obblighi e impegni finalizzati alla attuazione del PNRR, l’esercizio di poteri sostitutivi.
Il Piano è chiaro sul punto, si esprime in forma assertiva: «Ciascuna istituzione scolastica adotta il documento Strategia Scuola 4.0., che declina il programma e i processi che la scuola seguirà per tutto il periodo di attuazione del PNRR con la trasformazione degli spazi fisici e virtuali di apprendimento, le dotazioni digitali, le innovazioni della didattica, i traguardi di competenza in coerenza con il quadro di riferimento Dig.Comp 2.2.(quadro europeo per lo sviluppo delle competenze digitali per i cittadini), l’aggiornamento del curricolo e del piano dell’offerta formativa, gli obiettivi e le azioni di educazione civica digitale, la definizione dei ruoli guida interni alla scuola, le misure di accompagnamento dei docenti e la formazione del personale, sulla base di un format comune reso disponibile dall’Unità di missione del PNRR».
In pratica è richiesto un consenso informato per una somministrazione di fatto obbligatoria. Il che ricorda qualcosa.
Gli organi collegiali, dunque, intervengono in articulo mortis, quando i giochi sono fatti. Dove non si può non notare come tutta la strombazzatissima conquista democratica dei decreti delegati sia stata travolta in un attimo da un PNRR qualsiasi, entrato dalla finestra.
Il quale, con incontestabile un colpo di genio, cos’ha fatto? Ha cronologicamente anteposto l’assegnazione dei fondi (riversandone una montagna sulle scuole) al resto della procedura, e così le ha costrette a una frenetica rincorsa per trattenere quei soldi, facendo un’abbuffata di articoli del catalogo e resettando tutta la propria fisionomia in funzione degli acquisti fatti. In pratica, consegnandoti tanto denaro, io ti metto le catene prima ancora di dirti cosa devi fare, così ti rendo schiavo a prescindere, e tu, pur di tenerti quel denaro che hai già tra le mani, esegui qualsiasi cosa io ti ordini di fare in cambio. Ti ho in pugno.
Una tattica rivelatasi efficacissima, perché tutti hanno il terrore di farsi sfuggire il malloppo, con lo stigma che ciò comporterebbe nella sfolgorante società del progresso – dove chi eserciti il principio di precauzione rispetto agli idoli digitali diventa ipso facto retrogrado, tecnofobo, luddista.
Di fronte a tanta leggerezza e (vorrei dire) irresponsabilità di quanti (siano essi dirigenti, animatori digitali, leader e pionieri) stanno affannandosi per accaparrarsi quanti più giocattoli possibile nel supermercato dell’intrattenimento – e pazienza per le ricadute – abdicando alla propria stessa dignità, vien quasi da dire: sia fatta la volontà dell’Europa e di BigTech. Stappiamo all’avvento dell’eduverso, ce lo meritiamo.
Ma purtroppo la posta in gioco è troppo alta per lasciarsi comprare con i trenta denari del PNRR, fossero anche trecento o trentamila, perché dentro le scuole si coltiva il nostro domani e nell’orgia digitale saranno travolti contenitori e contenuti, persone e cose, storie e identità.
Concludo. In quelle trentanove pagine è descritta con tratto allucinato la scena dell’assassinio incruento della scuola italiana, o di ciò che di essa rimane. Un delitto di cui saremo tutti complici se staremo zitti. E sarà una strage, perché lo scempio cui stiamo già in parte assistendo – ma è solo l’inizio – non lascerà molti sopravvissuti.
Si sa che per annientare un popolo è necessario distruggere la sua storia e la sua memoria. È ciò che in fondo intendevano significare gli antichi quando spargevano il sale sulle rovine delle città conquistate e distrutte – il sale che Roma sparse sulle rovine di Cartagine.
Masse alienate e stordite, rese amorfe e indistinguibili, sono strutturalmente incapaci di reagire alla propria demolizione programmata, in quanto incapaci di riconoscersi come antagoniste del programma di demolizione.
Noi abbiamo tra le mani un patrimonio spirituale accumulato in migliaia di anni, materializzato nelle vestigia che il tempo ci ha lasciato, e che è l’antitesi degli ectoplasmi che fluttuano nelle sale gioco virtuali: è un patrimonio incastonato nelle pietre come nei libri, che si è fatto arte, filosofia, scienza e fede.
È una cultura sedimentata, evidentemente pericolosa qualora le venisse lasciata la possibilità di risorgere e di rigenerarsi, perché capace di ridare corpo e linfa alla pianta.
Ora, danzare oggi sul corpo agonizzante della scuola, paghi (o meglio ebbri) della mancia con cui l’Europa vorrebbe attirarci per infliggerci il colpo di grazia, è, oltre che grottesco, anche immorale. E l’argomento vigliacco secondo cui la tecnologia non la si può fermare, quindi tanto vale arrendersi, alzare le mani, è un alibi di comodo per illudersi di potersi scrollare di dosso il peso di una responsabilità incommensurabile. Quella che grava addosso a ciascuno di noi, nessuno escluso, di fare di tutto per mettere in salvo il seme.
Attenzione. Non lo diciamo noi: lo dice il ministero dell’istruzione (o il suo alter ego), lo dice la commissione del senato istituita apposta, lo dice la letteratura internazionale, lo dicono i saggi.
Lo dice l’esperienza e l’evidenza con cui ogni genitore, ogni giorno, si scontra; lo dice il vecchio sano buon senso. E allora qualsiasi espressione di sudditanza al mostro che ci sta venendo addosso e minaccia i nostri figli persino dentro i luoghi dove dovrebbero imparare, e bonificarsi il cervello dall’iperconnessione in cui li hanno imprigionati – e non fa differenza se questa sudditanza dipende da interesse personale, da paura, da conformismo, da ignavia, o da semplice rassegnazione – in ogni caso è inescusabile.
Rallentiamo la corsa, fermiamoci a informarci e a riflettere, aggiustiamo i freni, guardiamo in faccia i nostri figli. E facciamo sì – cari genitori, cari maestri – che la nostra stella polare sia il loro bene. Non il profitto di Big Tech, di Big Data, e di altri big che, filantropicamente si intende, ci stanno aspirando l’anima.
Elisabetta Frezza
Intelligenza Artificiale
Scuola e Intelligenza Artificiale, le linee guide verso «conseguenze personali e sociali sconosciute» per i nostri figli

A ridosso del ritorno sui banchi (è un’immagine vintage, lo sappiamo e lo facciamo apposta), il ministero dell’Istruzione e del Merito ha pubblicato le Linee guida per l’introduzione dell’Intelligenza Artificiale nelle Istituzioni scolastiche.
Il documento consta di 34 pagine e qui non se ne vuole fare un’esegesi – anche perché non se la merita. Ciò non toglie però che leggerlo sia un’esperienza tutta particolare, per certi versi estrema, capace di suscitare una gamma di sentimenti che spazia dall’ilarità allo stupore alla rabbia, con una netta prevalenza per la rabbia alla conta finale, ché in effetti a pensarci c’è poco da ridere, e anche poco di cui stupirsi.
Impressionisticamente, senza alcuna pretesa di sistematicità e tanto meno di esaustività, cerchiamo allora di dare conto di ciò che resta dopo questo breve ma intenso viaggio ai confini della realtà.
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Uso consapevole e responsabile, come la droga
Al malcapitato che si appresta a leggerle, viene subito spiegato nelle prime righe che le linee guida vogliono fornire «un quadro di riferimento strutturato per l’adozione consapevole e responsabile dei sistemi di Intelligenza Artificiale», affinché «diventino uno strumento per rafforzare la competitività del sistema educativo italiano». Dopo di che parte il primo elenco (ne seguiranno vari altri) delle meraviglie che, nell’ambito della propria discrezionalità, ciascuna istituzione scolastica può realizzare con l’IA.
Come potevano mancare la consapevolezza e la responsabilità? È questo infatti il mantra numero uno che è stato conficcato nelle teste soprattutto dei genitori/educatori/animatori dei tecnoutenti in erba, per far credere loro che sia giusto dotare il pargolo di protesi elettroniche di ultima generazione e immergerlo nel metaverso, che sia anzi una scelta necessaria per non condannarlo a crescere nel medioevo; con l’unica accortezza, per mostrarsi davvero coscienziosi, di fargli spiegare dall’esperto come affogare in modo consapevole.
Un po’ come l’uso consapevole della droga, insomma: drògati, ma fallo con responsabilità. Non è un parallelo stravagante, perché il digitale ottunde i sensi e genera dipendenza, alla stregua della cocaina. Lo diceva a chiare lettere anche la relazione finale dell’indagine conoscitiva promossa dalla VII Commissione permanente del Senato nel 2019 (quindi ancora in era pre-Covid, prima del Piano Scuola 4.0 uscito dal laboratorio della pandemia) intitolata Sull’impatto del digitale negli studenti, con particolare riguardo ai processi di apprendimento e che si può trovare sul sito governativo.
È insomma un narcotico dell’intelligenza umana, specie di quella che dovrebbe essere educata a crescere. Privarsi del dispositivo elettronico, infatti, è come subire l’amputazione di un arto, e del resto gli algoritmi sono programmati per adescare l’utente, catturarlo e tenerlo in ostaggio il più a lungo possibile.
Poi quella relazione diceva molte altre cose, basandosi su un ricco compendio di letteratura ed esperienza consolidate. Tipo che l’uso-abuso del digitale sta decerebrando le nuove generazioni (proprio così): riduce la neuroplasticità del cervello e frena lo sviluppo delle aree cerebrali responsabili di singole funzioni; fa sì che si inibiscano sul nascere, o si atrofizzino, facoltà cognitive, abilità psicofisiche, attitudini relazionali.
Inoltre genera isolamento, danni fisici di varia natura, psicosi assortite. Insomma, un disastro. Tutte conclusioni peraltro che, oltre a radicarsi in una bibliografia ormai sterminata, sono raggiungibili in autonomia da qualunque persona di buon senso che abbia a che fare con un cucciolo d’uomo contemporaneo e con i suoi coetanei. Bastava una mamma sensata qualunque, per arrivarci.
In ogni caso, nel tempo in cui invocare la scienza equivale a calare la carta vincente, il fatto di disporre di evidenze pressoché unanimi che certificano il fallimento della didattica digitale e, ancor più, la sua fenomenale dannosità, e al contempo fregarsene completamente per dedicarsi a pompare le sue prestazioni miracolose, bisogna riconoscere che richiede una buona dose di sfrontatezza.
Vien da pensare che ci sia sotto una faccenda grossa di bilanciamento di interessi, e che gli interessi dei colossi della tecnologia educativa debbano avere la meglio, per ordine superiore, su quelli della gente comune, dei giovani e della società.
Tanto più che il ministero che oggi celebra i prodigi dell’IA con la pecetta (l’additivo cautelare) dell’«uso consapevole», è lo stesso che ieri – dicembre 2023 – mandava in giro sottoforma di circolare la relazione di cui sopra nelle scuole di ogni ordine e grado. Uno strano caso di strabismo istituzionale, passato del tutto sotto silenzio forse per l’abitudine diffusa, divenuta rassegnata assuefazione, di sentir predicare simultaneamente tutto e il contrario di tutto dagli stessi identici predicatori. Pare normale.
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Inevitabile tecnolatria
Ma la sensazione più irritante che, scorrendo quelle pagine, assale il lettore non tecnolatra deriva dal fatto che esse danno per presupposto che uno per forza lo sia. Cioè, non è nemmeno lontanamente contemplata l’eventualità che non tutti tutti – nella grande ammucchiata di genitori, studenti, docenti, dirigenti, personale di altro genere – non aspettassero altro che aderire felici all’utilizzo dell’IA nella propria scuola.
«L’introduzione dell’IA nelle istituzioni scolastiche rappresenta una grande opportunità, che richiede un impegno costante da parte di tutti gli attori coinvolti». Lo hanno deciso loro. Qualcuno è stato consultato? No. Si è registrata approvazione unanime? No. Ma entra in gioco qui un altro tic verbale e mentale (il mantra numero due) appiccicato ad arte al fenomeno della IA: la sua pretesa inevitabilità.
Il progresso non si può scansare, va cavalcato per una questione di destino invincibile, qualunque esso sia. Una species del suggestivo genus «there is no alternative» (TINA) coniato, al tempo, dalla lady d’oltremanica. Non ha quindi senso manifestare contrarietà verso qualcosa di ineluttabile: tanto vale buttarcisi a pesce, forti dell’illusione indotta di essere più scafati degli altri e di essere in grado di governare la macchina.
Siccome però in questa fattispecie specifica abbiamo visto che si va incontro a rischi e danni certi, severi e documentati, con l’aggravante che ad esserne travolti sono i più indifesi, la dichiarazione di inevitabilità equivale praticamente ad ammettere che abbiamo creato un mostro che ora vive di vita propria e non si può più fermare, o – detta altrimenti – che abbiamo aperto il vaso di Pandora, abbiamo perso il coperchio, ma amen, lasciamolo aperto e restiamo a guardare l’effetto che fa.
Niente male come tacita confessione di impotenza per l’uomo del terzo millennio che si crede onnipotente.
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Effetti avversi sconosciuti
Tra l’altro le linee guida in esame non fanno affatto mistero della quantità dei rischi derivanti dalla adozione della IA nelle scuole e nemmeno della loro gravità. Si parla ripetutamente di rischi, così, in scioltezza, quasi come un intercalare. In fondo perché drammatizzare, se siamo di fronte all’inevitabile? I sistemi di IA vengono divisi, ai fini della diversa disciplina applicabile, in due categorie: sistemi ad alto rischio, se presentano una serie di caratteristiche espressamente elencate; sistemi non ad alto rischio tutti gli altri (categoria residuale).
È bellissimo però che a un certo punto (p. 30), nel mezzo di un lunghissimo discorso sul trattamento dei dati personali – dove con ammirevole disinvoltura si elenca una serie interminabile e complicatissima di passaggi burocratici prescritti, che è prevedibile porteranno in manicomio più di qualcuno – si dice anche che le istituzioni scolastiche, in qualità di titolari del trattamento, tra gli adempimenti e i sottoadempimenti cui sono obbligate, devono procedere alla «esecuzione di una valutazione di impatto (DPIA)» sulla protezione dei dati personali «volta a individuare i rischi connessi al trattamento di dati».
E poco più avanti si spiega che «la DPIA risulta necessaria in considerazione della innovatività dello strumento tecnologico utilizzato nonché del volume potenzialmente elevato dei dati personali trattati» (i grassetti sono nel testo originale). Infatti, continua il testo «il ricorso a tale nuova tecnologia può comportare nuove forme di raccolta e di utilizzo dei dati, magari costituendo un rischio elevato per i diritti e la libertà delle persone. Infatti le conseguenze personali e sociali dell’utilizzo di una nuova tecnologia potrebbero essere sconosciute» (qui il grassetto è nostro).
Conseguenze personali e sociali sconosciute. Cioè, un salto nel vuoto, messo nero su bianco nei documenti ufficiali. La popolazione scolastica, composta in buona parte di minorenni, è travolta (ancora una volta) in un mega esperimento di massa condotto (ancora una volta) con prodotti dei quali è nota a priori la dannosità, la quale comunque potrebbe esprimersi in forme ulteriori ancora non note.
Sostanze sperimentali – farmaci, droghe e simildroghe – inoculate nel cuore pulsante della società che fu democratica, ad effetto sorpresa: senza nemmeno un bugiardino e, quindi, senza un vero consenso informato possibile.
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La partecipazione democratica è una beffa
Nonostante queste premesse, il ministero dà per scontato che tutti insieme appassionatamente partecipino al grande gioco di società apparecchiato in tutte le scuole d’Italia dalle aziende Ed Tech e dall’indotto che ne discende: un’orgia digitale collettiva alla quale nessuno deve sottrarsi. A p. 21 si afferma, sempre in modo assertivo, che «il processo di transizione digitale richiede un coinvolgimento sinergico e sistemico del dirigente scolastico, del direttore dei servizi generali e amministrativi, del personale tecnico, ausiliario, amministrativo, dei docenti, degli studenti, tenendo conto del diverso grado di sviluppo connesso all’età, e delle rispettive rappresentanze di tali categorie di soggetti, delle famiglie, degli organi di indirizzo e di gestione degli aspetti organizzativi in ambito scolastico (ad esempio i Consigli di Istituto)».
Insomma, si tratta di allestire un balletto brulicante di ballerini improvvisati che saltellano sulla pelle di incolpevoli scolari tutt’intorno a una grande mangiatoia per predatori privati, più e meno corpulenti ma tutti parimenti affamati. Per non farsi mancare nulla, si suggerisce anche il coinvolgimento di stakeholder «attraverso la costituzione o l’adesione a parternariati, a reti di scuole, oppure stabilendo accordi con startup, università, istituti di ricerca, con approccio di ricerca-azione (…)».
Dulcis in fundo, al fine di «facilitare il coinvolgimento di tutti gli attori nel processo di cambiamento», il ministero veste pure i panni del coach motivazionale e consiglia di predisporre un «piano di comunicazione strutturato», perché si sa bene che «una strategia operativa efficace facilita il consenso e motiva i singoli a contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni» (p. 24) e incoraggia «il senso di appartenenza, il clima positivo».
Naturalmente per implementare tutta questa giostra, occorre che i docenti acquisiscano particolari «competenze digitali, approccio critico e attenzione a etica e professionalità, da sviluppare attraverso specifici percorsi formativi» (altra miniera d’oro, per i tenutari dei corsi). E così essi potranno finalmente accedere a un repertorio infinito di funzioni sostitutive delle proprie normali mansioni – fa tutto lei, e lo fa meglio di te – e predisporsi felici, in modalità suicidaria, alla soppressione prossima ventura della propria figura professionale.
Questa enfasi sulla partecipazione, di interni ed esterni, vuole evidentemente dare una mano di vernice di simil-democrazia sopra un gigantesco apparato industriale – la scuola è la più grande industria al mondo di estrazione dati (cit.) – che con i connotati propri di un’istituzione pubblica, specie se di natura educativa, non ci piglia neanche di striscio.
Forse a questo punto si può capire l’irritazione del lettore non conforme, al quale le linee guida si rivolgono come a uno scimunito che passa di là, pronto a farsi trascinare nelle danze dall’animatore del villaggio vacanze.
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Il Paese dei Balocchi e il mantra del pensiero critico
Quanto al regno incantato che si spalanca davanti agli studenti, la sua descrizione è lussureggiante. La campagna pubblicitaria del ministero sulle prodezze della IA punta a coprire e far dimenticare tutte le magagne sui pericoli e gli inconvenienti che, al confronto, sono bazzecole.
Basti pensare che l’IA (pp. 27 e 28): rende il processo educativo più coinvolgente, crea percorsi formativi su misura in linea con le esigenze individuali, permette di ampliare e diversificare l’offerta formativa adattandola agli interessi di ciascuno, dà supporto nella creazione di materiali didattici personalizzati; favorisce l’approfondimento di argomenti specifici, stimola la curiosità e il desiderio di apprendere e una naturale voglia di scoprire, potenzia le competenze digitali, fa diventare co-creatori attivi di contenuti, nonché futuri leader che definiranno il rapporto di questa tecnologia con la società, supporta nelle attività didattiche orientate nella produzione di contenuti.
Ancora: l’IA è un facilitatore della curiosità intellettuale, capace di alimentare la voglia di esplorare, aiuta nella scomposizione di problemi complessi e nella analisi di varie tipologie di informazioni; semplifica l’integrazione delle conoscenze, evidenziando punti di interconnessione tra diverse discipline; individua fonti di approfondimento pertinente, crea simulazioni interattive e ambienti virtuali. Promuove l’autonomia: chatbot o piattaforme di apprendimento personalizzate permettono di ricevere assistenza senza essere vincolati dagli orari scolastici tradizionali, facilitando la gestione autonoma del tempo e delle risorse, approccio che sviluppa capacità di autogestione e competenze trasversali come il pensiero critico e la capacità di problem solving. Aiuta a rimanere coinvolti e motivati rendendo il processo di apprendimento continuo e interattivo e incoraggiando a identificare i propri punti di forza e le aree di miglioramento.
Un panegirico che pretende dal lettore un atto di fede, mentre tocca vette spudorate di impostura. Contiene passaggi esemplari da sfruttare nelle lezioni di italiano (ci sono ancora, le lezioni? e l’italiano?) per spiegare il significato dell’ossimoro: l’Intelligenza Artificiale che promuove l’autonomia, facilita la gestione autonoma del tempo e delle risorse, sviluppa capacità di autogestione, il pensiero critico e la capacità di problem solving.
Cioè: a delegare alla macchina pensieri, parole e opere, a esternalizzare le funzioni fondamentali in un prolungamento artificiale del corpo, uno conquisterebbe autonomia.
Notare, tra l’altro, l’evocazione qua e là del pensiero critico, altra stucchevolissima formuletta magica (mantra numero tre), estratta dal cilindro del prestigiatore come il classico coniglio, per legittimare se stesso da un lato e per nobilitare qualsiasi ciofeca dall’altro. Basta spruzzare in giro, a casissimo, qualche «pensiero critico», e la coscienza va subito a posto, e ci si gode l’applauso assicurato del pubblico pagante.
Ma non c’è solo il pensiero critico. Sparse per il testo, tutte le classiche esche per i benpensanti, quelle che piacciono alla gente che piace, sfoderate per il lancio del grande gioco di società a cui siamo tutti chiamati coattivamente a giocare.
Ecco infatti che, per raggiungere i traguardi stellari elencati a più riprese nel documento, «è necessario che l’IA supporti la crescita personale e l’acquisizione di competenze autentiche, promuovendo l’apprendimento critico e creativo senza sostituire l’impegno, la riflessione e l’autonomia degli individui». Essa «deve promuovere un’innovazione etica e responsabile», essere utilizzata «in modo trasparente, consapevole e conforme ai valori educativi delle Istituzioni scolastiche italiane»; deve essere sostenibile nel lungo termine e «per traguardare (sic) questo obiettivo deve garantire un equilibrio nei tre pilastri della sostenibilità: sociale, economica e ambientale».
In sintesi: l’AI promuove l’autonomia, stimola il pensiero critico, ma per raggiungere questi fantastici obiettivi deve promuovere l’autonomia e stimolare il pensiero critico. Una autolegittimazione tautologica e circolare, formulata per la stessa banda di presunti scimuniti cui si accennava sopra.
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Accendere la resistenza
Viene da ridere, sì, ma poi sale la rabbia. L’onda d’urto di tanto delirio si abbatterà sui nostri figli se non ci predisponiamo a difenderli.
Che dall’altra parte ci sia un grumo di potere non solo economico, ma soprattutto politico (nel senso che il suo intento egemonico sta nel controllare l’esistenza altrui e pilotarla a proprio uso e consumo) non è forse nemmeno il problema più grande.
Il problema più grande è che la gente abbocca, anche se l’imbroglio è così plateale, e si lascia attirare nel girotondo per via di quel «piano di comunicazione strutturato» che funziona alla grande; oppure perché è semplicemente stanca, rassegnata, tanto da lasciarsi persuadere dalla narrazione truffaldina che fa leva sulla parola magica della «inevitabilità». E allora si convince a salire sulla giostra che gira sempre più forte, ma si sente rassicurata dall’essere «consapevole e responsabile», il tranquillante prescrittole dall’impresario circense.
L’imposizione dell’IA ai nostri figli – proprio come è stato per l’mRNA – calpestando la Costituzione, uccidendo il diritto e disintegrando il concetto stesso di democrazia, mira dritto dritto al cuore della natura umana per colpire la sua integrità e un po’ alla volta sostituirla. Ma in pochi sembrano farci caso: la maggior parte obbedisce, zitta e mosca, al programma di sottomissione.
E invece questo è proprio il momento della responsabilità. Dunque, che la forza sia con noi: con i docenti che non mollano, con i genitori che tengono ai propri figli, con gli scolari capaci di sopravvivere al trattamento loro riservato, e determinati a continuare a farlo per conquistarsi in premio una vita da vivere, e non da subire.
Elisabetta Frezza
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Scuola
Elisabetta Frezza: tra raccolta massiva di dati e isolamento dei bambini «la scuola è il nuovo campo di sorveglianza»

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Pensiero
Scuola, la tempesta sui nostri figli: dal terrore pandemico all’«educazione al consenso»

Stiamo assistendo a una operazione, tanto patente quanto capillare, di rimozione e mistificazione pilotata della realtà con tutti i suoi esiti distruttivi. Va di conserva alla edificazione di un immaginario collettivo capace di riassorbire in una visione (in apparenza) coerente le rovine causate.
Un grande lavacro mediatico, insomma, che consente di depistare le responsabilità e mandare assolti i colpevoli, di cancellare tante vergogne contando sulla memoria corta dello spettatore passivo: quello stesso che canta in coro il ritornello dell’aggressore e dell’aggredito perché si beve sereno la storia che la storia del mondo inizia precisamente da lì, non un istante prima.
Ecco allora fioccare articoli e servizi su scala più o meno vasta i quali, strumentalizzando fatti e atti del vivere quotidiano, li distorcono per costruirci sopra casi esemplari e nuovi paradigmi: dal cilindro spuntano i nuovi totem da adorare, le nuove streghe da bruciare a favore di masse rimbambite chiamate a raccolta intorno a una metafisica prêt-à-porter fatta di pseudovalori da strapazzo, perché c’è pur bisogno di credere in qualcosa se questo qualcosa non è più un dio.
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Che l’operazione comporti l’effetto collaterale di stritolare persone per bene, o sacrificarne altre al monolite ideologico, pazienza. L’importante è non intralciare il flusso inebriante del progresso, tenere fede al copione e, in omaggio alla sua trama, lanciare progetti, costruire culti e altarini, inventare molte «educazioni» in grado di fabbricare ominidi di serie bravi a pappagallare a vita slogan di ordinanza.
Come sempre accade, i primi destinatari della fiction sono le nuove generazioni: del resto, i grandi laboratori a cielo aperto, come quello della pandemia, sono apparecchiati soprattutto per loro.
E come per magia si scopre d’improvviso che oggi i ragazzini sono quasi tutti stressati, sofferenti, fragilissimi. Vegetano, stanno male sia nel fisico sia nell’anima.
Giornaloni, giornaletti e rotocalchi emanano i bollettini di guerra dell’ultimo terribile contagio: parlano di impennata di suicidi e di atti di autolesionismo, di reparti di neuropsichiatria intasati, di sindromi post traumatiche dalle mille manifestazioni, di disturbi alimentari fuori controllo, di manie ossessivo-compulsive, di dipendenze, di distacco dalla realtà, di ansia e depressione, di difficoltà di socializzare, di frustrazione e incertezza verso il futuro, di disturbi del sonno, di aggressività, di solitudine siderale senza vie d’uscita, di psicofarmaci come se piovesse.
Dolori proteiformi e senza confini, e incapacità di esprimerli per incapacità di comunicare e quindi di compatire, ovvero di sciogliere il male interiore in un bacino un po’ più ampio del proprio cuore ferito.
In parallelo, si registra un crollo delle facoltà cognitive, espressive, logiche, speculative; della capacità di concentrazione, di memorizzazione, elaborazione, calcolo; l’inabilità diffusa a scrivere in modo intelligibile persino a se stessi, e in generale a interagire con i propri simili attraverso un linguaggio appena articolato; l’inettitudine a comprendere la propria lingua madre, coi suoi lemmi, la sua grammatica, la sua sintassi, e di analizzare un testo, e di afferrarne il senso.
Di fatto, mutismo e sordità sono diventate piaghe endemiche e ingravescenti: circostanza di cui la scuola che non è più scuola prende atto, compiacente.
Ora, una persona normale che abbia abitato questo disgraziato pianeta negli ultimi anni penserebbe subito che non poteva andare a finire diversamente per le cavie di una sperimentazione che ha voluto vedere l’effetto che fa isolare dei cuccioli d’uomo per un tempo infinito in proporzione alla loro età, terrorizzarli senza tregua, costringerli a obbedire a ordini demenziali cui i grandi obbedivano senza fiatare come soldatini sotto ipnosi (tipo sensi unici pedonali nei corridoi degli edifici, così come nelle vie della città; fogli di carta messi in quarantena, stanze di segregazione per uno sternuto; facce e voci deformate dagli schermi; palombari vaganti, distanze di sicurezza; occultamento dei volti, sterilizzazione di oggetti, di cibarie, di giardini e di spiagge; non hai diritto a un bicchier d’acqua, puoi bere solo in piedi e dopo le diciotto e quindici; fai una giravolta, falla un’altra volta, guarda in su, guarda in giù; e molto altro).
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E ancora, vedere l’effetto che fa impedire loro di giocare, di fare sport, di salire sull’autobus, di trovarsi (di assembrarsi), di sorridersi e di litigare, di correre e cascare e sporcarsi, di muoversi liberamente al chiuso e all’aperto, stando relegati in apnea nel loro fazzolettino di pavimento recintato e compulsivamente disinfettato, simpatica gabbietta per topolini domestici.
Vedere l’effetto che fa mostrare loro morti, imbustati dentro sacchetti neri, sparire nel nulla senza un addio, senza la pietà che ci ha insegnato Antigone agli albori di una civiltà dimenticata.
Infine, vedere l’effetto che fa ricattarli – loro, che manco si ammalavano di un raffreddore – per svuotare i magazzini di un farmaco sperimentale che si sapeva (quantomeno) inefficace: ti concedo un brandello di libertà vigilata, in cambio dell’ipoteca sul tuo corpo e sulla tua salute, corri a ritirarlo gratis allo hub più vicino, panino in omaggio. Insieme al distintivo di bravo cittadino da appuntarti al petto e sfoggiare in società, quella stessa che aveva elevato la delazione a valore civico supremo.
E sopra tutto questo inferno, una costante, frutto dell’addestramento coatto durato un paio d’anni di esercizio intensivo: fornire la carica perenne a una calamita invincibile che impone di restare appiccicati fissi a una scatoletta elettronica, unico tramite con l’altro da te nella «società senza contatto», unica valvola della pentola a pressione in cui ti hanno trasformato. Senza più giorno né notte, senza ritmi cicardiani, senza tocchi o aliti di vita.
La vita infatti era tossica; il primo comandamento, quello di scansarla. Vade retro, vita.
Qualcuno sano di mente poteva davvero pensare che i cuccioli d’uomo uscissero indenni dall’esperimento? Che a comando tornassero in forma, come un qualsiasi materiale elastico e comprimibile che riprende il suo spazio non appena liberato dalla morsa? Qualcuno può non vedere un nesso causale grande così tra l’esperimento condotto con tanta ferocia, e gli eventi dannosi che abbiamo oggi sotto gli occhi, per cui torme di espertoni si strappano i capelli?
A quanto pare, sì. Anche questo disastro – troppo imponente per essere taciuto – sono riusciti ad appenderlo al vuoto pneumatico dell’hic et nunc, recidendo ogni collegamento con il passato. A beneficio di tutti quanti, a ogni livello della piramide sociale, devono guadagnarsi prima l’oblio e poi l’impunità, e sono parecchi: aguzzini, carcerieri, delatori, sceriffi e sbirri improvvisati, psicopoliziotti, impegnati tutti a infierire sul proprio simile, specie se indifeso, persino sui bambini. Persino sui bambini. I volontari si arruolano a frotte.
Si capisce bene, allora, come sia altrettanto facile far evaporare il passato, anche recente, dalla mente collettiva, distratta su altri fronti di intrattenimento. Così, dopo aver scaricato per anni su spalle non ancora formate un peso emotivo ed esistenziale insostenibile, dopo aver organizzato la transumanza di massa nella dimensione straniante dell’artificio, giornali e TV ci raccontano adesso che a stressare i ragazzi è la scuola.
La scuola li rattrista, sì, ci dicono, perché è troppo esigente, vecchia e ingessata, poco amichevole, incapace di rendere gli scolari protagonisti della propria formazione. E quindi, è urgente che la scuola si aggiorni, si metta al passo con il progresso, si digitalizzi completamente; si faccia più inclusiva e ricca di attrazioni, assecondando l’indole dei suoi frequentatori che vanno divertiti e distratti perché così raggiungono il loro personale «successo formativo» e allora, finalmente, si autostimeranno.
Del resto, a cosa servono gli insegnanti, se non ad animare scolaresche annoiate e a gratificarle con tanti complimenti, ricchi premi e cotillons?
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Se i più giovani sono stressati, dunque, la colpa è di quegli insegnanti superstiti che ancora cercano di insegnare con rigore e serietà le proprie materie di studio, e con esse la vita. Costoro vanno sputati fuori da questo sistema «educativo» socio-assistenziale e pseudo-sanitario lanciato verso il tracollo di obiettivi e risultati, perché è l’allievo l’unità di misura di se stesso e, per non turbarlo, va coccolato nel suo status quo, dentro un bozzolo autoreferenziale inviolabile da chiunque eccetto che dallo psicoesperto.
E giù di psicologi e di psicopedagogisti, di psichiatri e di certificatori, che fanno affari d’oro per spianare a tutti la strada alla conquista di diplomi vuoti e luccicanti.
A nessuno passa per la testa che a distruggere questa generazione è stata proprio l’eclissi della scuola, che li ha completamente abbandonati, prima incarcerandoli nella loro cameretta, poi riaprendo le porte sottoforma di caserma a nonnismo libero, infine rimettendo in moto la macchina pedoburocratica come nulla fosse accaduto, e omettendo qualsiasi spiegazione dell’incredibile che è accaduto per davvero.
Manco delle scuse per il trattamento inflitto, per gli orrori perpetrati. Zero, come fosse solo una parentesi un po’ anomala da chiudere e dimenticare, e chi s’è visto s’è visto.
Così, schiere di ragazzini arrugginiti e inselvaggiti, disorientati e smarriti, contenitori viventi di ordigni inesplosi, sono tornati a condividere gli spazi fisici che per inerzia chiamiamo ancora scuola, ma sarebbe ora di trovare un altro nome. Dalla regia suggeriscono «ecosistema di apprendimento» (e però ci andrebbe spiegato quale apprendimento) o eduverso, che le sta già meglio perché non significa niente.
E siccome stanno tutti male, che si fa? Si elimina dal loro orizzonte ogni spinta al miglioramento e tutta la dimensione dell’impegno e dello sforzo, si personalizza il percorso di studi ritagliandolo sulla misura all’indole (immatura, per definizione) e ai limiti (presunti e provvisori, per definizione) individuati dallo scrutatore esperto; li si psicopedagogizza in serie; si mette loro in mano qualche giochino colorato dei colori dell’arcobaleno, alcune volte ancora sottoforma di vecchio libro, con tante immagini, poche parole e le poche parole ridotte a slogan; li si rieduca ai dogmi inventati a uso e consumo di una società morente: è stupendo che l’ultima trovata si chiami «educazione al consenso» (cioè imparare a dire sì) e serve a martellare nella testa degli scolari che i maschi in quanto maschi devono o castrarsi, o sparire, e comunque pentirsi di essere nati sbagliati.
Ma sono bellissimi anche i millemila corsi contro il bullismo, nella cui definizione entra qualsiasi cosa, dagli atti persecutori a uno scherzo innocente tra amici, di quelli che tante volte aiutano a crescere ma che bisogna imparare a reprimere per sempre. Non si può più scherzare, ragazzi, né prendersi in giro, perché l’occhiuto addetto antibullista vigila e punisce. Magari è quello stesso che pochi anni fa, con l’avallo dell’istituzione, bullizzava i ragazzini non marchiati di verde. Il bullo-antibullismo, sicofante dentro, è un altro capolavoro di questa temperie nata e cresciuta sotto il segno dell’assurdità.
Non dimentichiamoci infatti che era l’istituzione a discriminare gli scolari privi di lasciapassare, legittimando un trattamento differenziato tra chi era vaccinato e chi no. Che era l’istituzione, quindi, a permettere che fossero additati al pubblico ludibrio i pochi che non avevano bruciato il granello di incenso all’imperatore.
E che era l’allora ministro dell’istruzione ad affermare con sicumera che l’imposizione del bavaglio permanente a scuola rispondeva, più che a motivi sanitari – e infatti è dimostrato come fosse non solo inutile, ma dannoso, specialmente per i soggetti in crescita (e non ci voleva un genio a capire che tappare naso e bocca per ore con una pezza umida e sporca non è proprio un bagno di salute) – a esigenze «educative», perché serviva ad abituare i giovani alla «nuova normalità». Un addestramento su modello zootecnico, insomma.
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Ora che, davanti a una catastrofe di proporzioni mai viste, non si può non riconoscere la nocività della esposizione perpetua ai dispositivi digitali, e la dipendenza che generano – del resto sono progettati per quello –, ci si dà ai giochini delle tre carte mascherati dietro la logica del fatto compiuto: siccome la tecnologia non si può fermare, allora occorre educare i ragazzini all’«uso consapevole», sul presupposto che si debba sempre e comunque cavalcare il progresso.
Che è poi come dire, insegniamo l’uso consapevole del veleno, o della droga, o dei superalcolici. Avvelènati, drògati, ubriàcati, ma in modo consapevole, così tu sei spacciato, ma le coscienze degli altri profumate di bucato.
Oppure, l’altra novità: squilli di tromba ovunque per il divieto del telefonino in classe, e però via libera al tablet, cioè al telefonone; no allo smartphone, sì al megasmartphone. E che sia una megapresaingiro ce lo dice, oltre al buon senso minimale, anche l’ultimo prodotto commercializzato negli USA (che stanno sempre un passo avanti rispetto alle colonie): la tavoletta inerte con le fattezze dell’Ipad ma senza connessione, chiamata «metadone tecnologico», che va a ruba. Non è uno scherzo.
La verità è che, per frenare la corsa di questo treno impazzito a bordo del quale viaggiano i nostri figli a tutta velocità – che è partito ben prima della pandemia, ma che la pandemia ha accelerato in modo furibondo – ci sia una sola cosa e semplice da fare: restituire alla scuola il suo statuto, il suo senso e la sua dignità. E ai docenti la loro professione, che non è quella dell’animatore, dell’inserviente informatico o dell’assistente psicologico: è altro.
Oltre ad essere il primo luogo di aggregazione al di fuori della famiglia dove si sperimenta la socialità, dove si misura il proprio carattere nel confronto quotidiano con i propri pari e con i maestri, che pari non sono, la scuola possiede in esclusiva un compito fondamentale cui ha rovinosamente abdicato: quello di alfabetizzare e di trasmettere le conoscenze nelle materie disciplinari, che vanno studiate, imparate, capite, mettendo in campo le migliori risorse e gli sforzi necessari per farlo.
Albergano lì dentro, dentro quel sapere durevole e forte che ha resistito alla prova del tempo, i semi che producono frutto nel tragitto lungo della vita, perché non scivolano via alla prima pioggia della moda stagionale, delle idee effimere, del simil-pensiero usa e getta.
E la fatica fa parte del gioco e pretendere di toglierla di mezzo per raggiungere la pax scolastica e il «successo» a prescindere è una truffa ai danni degli studenti, perché così li si priva del gusto della conquista e si costruisce per loro un destino gramo da invertebrati, incapaci di affrontare ogni difficoltà, deprivati a priori del senso del sacrificio e dell’attitudine al combattimento, fluttuanti nell’eterno presente ipertecnologico come tante docili rotelline dell’ingranaggio che si muove al ritmo salmodiato dei mantra ipnotici mandati in filodiffusione.
Solo quelli dotati di una struttura spirituale e culturale robusta saranno in grado di resistere al potere fagocitante del meccanismo, e di padroneggiarlo. Saranno attrezzati per ragionare in autonomia senza restare ostaggio di narrazioni mendaci dettate dall’esterno. Sapranno comprendere dove stanno di casa le menzogne, per liberarsene. Avranno il privilegio di conoscere e assaporare la vita.
La scuola è uno spazio sacro, dove si impara e si cresce, e si impara a crescere (con licenza di cadere e di rialzarsi, di sbagliare e di correggersi senza essere etichettati da uno stupido algoritmo). Uno spazio, oggi abusivamente occupato, che va restituito ai suoi legittimi abitanti, bonificato dall’artificio, protetto dai predatori.
Non serve ammassare altri orpelli sopra un edificio già sfigurato e cadente. Serve una energica operazione di sgombero. Di purificazione.
Elisabetta Frezza
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
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