Pensiero
San Pio X, un piccolo pellegrinaggio. E una grande storia
Ho partecipato con mio figlio al pellegrinaggio organizzato dalla Fraternità San Pio X per venerare il corpo di San Pio X presso il Santuario della Beata Vergine delle Cendrole, a Riese San Pio X.
Le spoglie del santo papa veneto sono state eccezionalmente riportate in Veneto, sua terra natale, per il 120° anniversario della sua elezione al Soglio pontificio.
È stata una giornata speciale. Perché, come dicevo a mio figlio, quando mai ricapiterà: forse tra un secolo, se l’umanità non cesserà di esistere, forse tra due. Io non riuscirò a rivedere una cosa del genere, lui forse nemmeno, ma il senso della Tradizione sta proprio qui – tramandare, di padre in figlio. Potrà esserci un momento, in un futuro che non riesco a vedere, in cui mio figlio lo racconterà a suo figlio, e questi a suo figlio… e alla fine, qualche discendente forse tornerà a vedere il corpo del Santo che aveva capito tutto degli ultimi secoli, che aveva lucidamente visualizzato l’ora presente.
Per questa chiarezza, noi gli siamo grati, e abbiamo offerto la nostra venerazione di pellegrini.
Vi sono tuttavia delle note frivoli, cioè, essenziali, da fare. Partecipare al pellegrinaggio, con il suo serpentone infinito di fedeli della Tradizione cattolica, è stato un toccasana per l’umore.
Si incontrano tante persone, da tutta Italia, da tutta Europa, da tutto il mondo, che non si vedevano da tempo, ma che si sa esistono, persistono, in una dimensione lontana tuttavia in piena consonanza di spirito.
Ci sono tanti, tantissimi giovani. Bambini. Neonati. Famiglie, magari tre generazioni tutte presenti al contempo.
Si vedono i preti: tanti, da ogni angolo del pianeta (dall’Italia all’Alaska). Alcuni sono cresciuti dentro la Fraternità, provengono da famiglie che li hanno portati sin da bambini alla vera Messa. Sono preti veri, e a chi non li conosce basta la talare per capirlo. Nei giorni in cui esce la notizia delle messe senza prete a Genova e in altre parti del Paese, vedere questa quantità di consacrati, presenti e determinati, è un segno di forza spirituale potentissimo.
Ci sono i seminaristi, questi ragazzotti giovanissimi, elegantissimi nella loro lunga veste nere – un’eleganza che promana dalla forza della loro scelta – che ho beccato dietro la chiesa, dopo la Messa, a mangiare delle merendine, perché la colazione, per fare la comunione, la avevano certamente saltata.
E poi, soprattutto, ecco le suore: tante, tantissime, venute con un pullman dal monastero nel Lazio, giovanissime, quasi tutte italiane, la madre superiora che irradia rispetto a centinaia di metri di distanza. Quando mai capita di vederla, questa distesa di suorine? Non spesso, a me può capitare qualche volta l’anno, ed è sempre una visione edificante, che rigenera una qualche parte di me che mi ero scordato di avere.
(La figura della suora è oramai completamente disintegrata dalla società: un discorso che prima o poi faremo è sulla sparizione delle suore negli ospedali, dove un tempo imperavano, e senza di loro si è visto come è andata)
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Durante la marcia, oltre al Santo Rosario, è risuonato il canto Noi vogliam Dio. «Noi vogliam Dio, Vergin Maria / (…) Noi vogliam Dio nelle famiglie / (…) Noi vogliam Dio in ogni scuola / (…) Noi vogliam Dio nell’officina / (…) Noi vogliam Dio nella coscienza».
Quanto è bello cantare a squarciagola questo fiero anacronismo, questo pugno nello stomaco a chi ha distrutto la società: perché qui è detto tutto, togli Dio dalle aule, dalle case, dal lavoro, dalla tua vita e quello che ottiene è l’avanzata dell’Inferno che è sotto i nostri occhi.
Il canto venne rifatto, per osceno dileggio, dai partigiani delle Brigate Garibaldi organizzate dal Partito Comunista Italiano. Ma a noi cosa interessa? Potete sentire le voci angeliche delle suorine in sottofondo? Potete comprendere che nulla e nessuno può fermare un popolo armato della Fede?
Santuario della Beata Vergine delle Cendrole era uno dei luoghi dove, quasi due secoli fa, era possibile incontrare Giuseppe Melchiorre Sarto, il futuro San Pio X. Il percorso della processione d’un tratto è uscito dalla strada principale per andare su un sentiero nella boscaglia che sbucava proprio davanti alla chiesa: «era la scorciatoia che prendeva per tagliare» mi hanno detto.
Si faceva un po’ di fila per entrare, ma niente di che. Quando sono entrato in chiesa – che è antica, e molto bella – ammetto di essermi fatto distrarre stupidamente. Un tizio con una camicia hawaiana era salito sull’altare, e con un microfono proferiva invocazioni, organizzate probabilmente dalla parrocchia locale o dalla diocesi – l’evento era organizzato dal Comune e da altri enti del territorio.
Ho fatto in tempo a sentire le parole «custodia del creato», «casa comune», e forse pure «conversione ecologica». Il dogma ambientalista bergogliano microfonato sul corpo di San Pio X.
Poi mi sono reso conto che stavo sbagliando: non dovevo sintonizzare il mio essere sul presente, sul presente papato, sul cattolicesimo moderno. Dovevo prendere la mia anima e mio figlio e cercare di disporla nell’altra dimensione, quella dell’eterno. Il rifiuto del modernismo articolato in maniera infallibile da San Pio in fondo dice questo.
Mi sono così inginocchiato davanti alla teca con il corpo del Santo. Anche il mio piccolo lo ha fatto. Abbiamo pregato. Poi quando era venuto il momento di alzarsi, era come se non ne avessi voglia. Sentivo, nei pellegrini della Fraternità che entravano e circondavano le spoglie del papa, come un senso di stupore, e di gratitudine, che si diffondeva nell’aria. Era, credo, devozione. Qualcosa di rarissimo, oggi. Qualcosa che però se cerchi, puoi ancora trovare.
Sono rimasto in ginocchio fino a perdere consapevolezza di esserlo. Il bambino non ha battuto ciglio, ed è rimasto come me per tutto il tempo. È stato Don Massimo a svegliarmi toccandomi una spalla, come per dire pragmaticamente: «in piedi, dai».
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San Pio X è il papa dell’enciclica Pascendi Dominici gregis (1907), quella con cui condannava il modernismo «sintesi di tutte le eresie». Il mondo agnostico e materialista di oggi era già stato compreso perfettamente da papa Sarto. Gli era chiaro che stavano preparando una società del rifiuto del divino, un’umanità che considera la verità come mutante, progressivamente cangiante – cioè, nessuna verità possibile. Gli era chiaro che era in caricamento una religione fatta a misura di ciascuno, una religione interiore, soggettivistica, che quindi non aveva più bisogno né di Rivelazione (cioè di Gesù, cioè di Dio), né, in ultima analisi, di riti – se pensate alle «messe senza prete» apparse ora potete capire tutto.
Recidere il legame tra l’essere umano e il reale: il mondo dell’individualismo più autistico, delle religioni fai-da-te, delle perversioni liberali, della realtà virtuale più catatonica, dove l’uomo è titolato a credere e operare secondo qualsiasi sciocchezza interiore, era pienamente prevista da Pio X. I semi nella filosofia e nella teologia del tempo erano incontrovertibili.
Non è chiaro come sia possibile che una società che oggi ricorda Pio X non si renda conto dell’abisso che divide il Santo dall’ora presente – l’abisso che lui aveva indicato, e operato per scongiurare.
C’è, visibile, anche in cartelloni ora issati per l’occasione sulle strade del suo Paese natale, una – per così dire – «banalizzazione» di Giuseppe Sarto. Si ricordano varie sue battute in Veneto, come quando sua madre vedendolo per la prima volta vestito da cardinale gli disse «Ti xé tuto roso» («Sei tutto rosso») e lui rispose «e ti te sì tuta bianca» («e tu sei tutta bianca»).
Gli annali ricordano poi la battuta con cui salvò il tango, quando la liceità del sensuale ballo argentino fu portata al suo giudizio, dopo che la chiesa parigina aveva chiesto l’interdizione: «Mi me pàr che sia più bèo el bało a ‘ea furlana; ma no vedo che gran pecài ghe sia in stò novo bało!» (A me pare che si più bello il ballo alla friulana, ma non vedo esservi grandi peccati in questo nuovo ballo») disse dopo aver assistito ad una esibizione del ballo fatta per lui.
Per capire la profondità della figura, tuttavia, noi vogliamo ricordare un’altra udienza privata, che serve a capire la portata della mente del Santo.
Theodor Herzl (1860-1940) è stato l’intellettuale (non un rabbino…) che fondò il movimento politico del sionismo: fu lui a programmare, quindi, il ritorno degli ebrei in quello che all’epoca era il mandato britannico della Palestina, al fine di creare uno Stato Ebraico. Per gli appassionati: è lo stesso personaggio citato da Walter, il singolare cattolico polacco convertito all’ebraismo, ne Il Grande Lebowski. (– «Se lo vuoi con forza non è un sogno» – «… che cosa hai detto?» – «Theodor Herzl. Lo Stato di Israele. Se lo vuoi con forza non è un sogno»)
Il 26 gennaio 1904 papa Pio X concesse udienza a Herzl. L’incontro era stato organizzato da un ritrattista papale austriaco, Berthold Dominik Lippay (1864-1919), che il sionista aveva incontrato a Venezia. Lo scopo dell’incontro, per Herzl, era chiedere il sostegno papale per la creazione di uno Stato Ebraico in Palestina.
«Fui condotto dal Papa attraverso numerose piccole sale. Mi ricevette in piedi e mi porse la mano, che io non baciai» scrive Herzl nei suoi diari. «Lippay mi aveva detto di farlo, ma io non lo feci. Credo che questo gli dispiacque perché chiunque va in visita da lui si inginocchia o per lo meno gli bacia la mano. Questo baciamano mi causò molti dispiaceri. Sono stato molto contento quando finalmente cadde in disuso» assicura fiero il fondatore del sionismo.
«Egli sedette su una poltrona, un trono per occasioni minori. Poi mi invitò a sedermi accanto a lui e sorrise in amichevole attesa. (….) Gli presentai brevemente la mia richiesta. Tuttavia egli, forse infastidito dal mio rifiuto di baciargli la mano, rispose in modo duro e risoluto».
«”Noi non possiamo favorire questo movimento. Non potremo impedire agli Ebrei di andare a Gerusalemme — ma favorire non possiamo mai. La terra di Gerusalemme se non era sempre santa, è santificata per la vita di Jesu Christo” (egli non pronunciò Gesù, ma Yesu, secondo la pronuncia veneta)». Incredibile come le doti superomistiche del sionista gli dessero piena conoscenza della lingua veneta. Tuttavia, specifichiamo, in Veneto si dice «Gesù» e non «Yesu», ma questo forse è un errore di traduzione.
Quindi il papa santo arrivò al dunque.
«”Io come capo della Chiesa non posso dirle altra cosa. Gli Ebrei non hanno riconosciuto nostro Signore, perciò non possiamo riconoscere il popolo ebreo”» disse Pio X.
«Il conflitto tra Roma, rappresentata da lui, e Gerusalemme, rappresentata da me, si aprì ancora una volta» annota Herzl sul suo diario – e non si sa se con amarezza o con minacciosa superbia.
Ci sono secoli di questioni che Herzl, che si sente di rappresentare Gerusalemme, non conosce. Sorvoliamo, cercando solo di indicare al lettore la realtà odierna, di cui può farsi un’idea da solo. È oggettivo, ad ogni modo, che il ritorno degli ebrei in Palestina non è stato un processo indolore – per nessuno – e continua a non esserlo. E, come sappiamo, non solo alcuni israeliani «non hanno riconosciuto nostro Signore», ma oggi sputano materialmente sopra ai suoi fedeli.
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Scendiamo ancora più a fondo, per dire qualcosa di incredibile – una mia opinione, una mia piccola, tragica visione metastorica.
La storia – negata da alcuni sacerdoti che stimo molto, tuttavia persistente – vuole che quando dopo la morte di Leone XIII si aprì il conclave (primo di agosto 1903) il candidato più papabile fosse l’allora segretario di Stato Mariano Rampolla del Tindaro (1843-1913), cardinale arcivescovo siciliano considerato vicino alla Terza Repubblica francese, che usava politiche antireligiose e massoniche, e ad idee, diciamo così, «liberali».
Nel solenne momento della scelta del futuro papa, vi fu però una grande sorpresa: il vescovo di Cracovia, cardinale Puzyna, annunciò che l’imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe usava un suo antico diritto come sovrano di del Sacro Romano Impero per porre il veto sull’elezione del cardinale Rampolla. Paradossalmente, una delle prime azioni di Pio X fu l’abolizione del cosiddetto jus exclusivae (o veto laicale) attraverso la costituzione apostolica Commissum Nobis. Tale forma di veto, che era in mano a certi sovrani cattolici e che aveva contribuito alla sua elezione come pontefice, è stata eliminata.
Eletto con 50 voti su 62, Giuseppe Sarto cominciò la sua opera di lotta all’infiltrazione modernista e alla laicizzazione della società.
Ma perché Francesco Giuseppe si era opposto all’elezione del cardinale Rampolla? Perché era filo-francese, cioè filo-Terza Repubblica «laica», dicono gli storici mainstream. All’epoca invece ambienti come quelli dell’Action Française, e non solo, dichiararono che invece l’opposizione dell’imperatore cattolico era dovuta ad una presunta appartenenza di Rampolla alla massoneria, o forse perfino ad un ordine neotemplare. Un vescovo straniero, tanti anni fa, mi disse che prove dell’affiliazione del cardinale sarebbero emerse anche quando questi morì, tuttavia nessuno storico ha mai portato prova certa.
Quindi, ipotizziamo, la massoneria era già infiltrata nella Chiesa nel XIX secolo? Già allora stava per fare il colpaccio e prendersi il Soglio di Pietro? Secondo queste voci, parrebbe.
Il progetto, per chi conosce le istruzioni dell’Alta Vendita – le lettere dei vertici ultramassonici Nubius, Piccolo Tigre, Volpe, Vindice – sa che era già segnato da decenni: «Or dunque, per assicurarci un Papa secondo il nostro cuore, si tratta prima di tutto, di formare, a questo Papa, una generazione degna del regno che noi desideriamo. Lasciate in disparte i vecchi e gli uomini maturi; andate, invece, diritto alla gioventù, e, se è possibile, anche all’infanzia».
Sappiamo come tali lettere poi raccontassero del programma di rovina morale, attaccando soprattutto la donna: «Per abbattere il cattolicismo, bisogna prima sopprimere la donna. La frase è vera in un senso, ma poiché non possiamo sopprimere la donna, corrompiamola».
Pio X, con la sua azione, ribaltò di fatto il programma massonico, lo individuò, ne scovò i dettagli più intimi tramite il Sodalitium Pianum, la rete segreta di informazione affidata a monsignor Umberto Benigni (1862-1934). Nessuno ostacolo fu più grande, per l’adempiersi del progetto della Loggia, del Santo di Riese.
Qui diviene interessante notare la coincidenza: l’anno della morte di papa Sarto e lo stesso anno dello scoppio della Prima Guerra Mondiale – il fatale 1914.
Molti ritengono che la Grande Guerra altro non sia che una parte di un piano per togliere di mezzo il cristianesimo dal Vecchio Continente: di fatto, il risultato fu la distruzione, dopo secoli e secoli, del Sacro Romano Impero, e aggiungiamo pure della Russia Zarista, ancorata sul cristianesimo ortodosso.
Lo schema di disintegrazione del cattolicesimo prevedeva la sparizione dell’Impero d’Austria, suo garante e protettore – come dimostrato dal veto su Rampolla papa.
Qui faccio la mia considerazione: la Grande Guerra è un effetto indiretto del conclave del 1903? Non potendo sconfiggere San Pio X, e vedendo la portata della sua opera, i massoni hanno scatenato una guerra mondiale, con strage infinita di poveri ragazzi?
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Nessuno può togliermi per la testa questa idea. Così come si può finire a pensare che il primo dopoguerra, con le sue richieste impossibili alla Germania sconfitta, di fatto preparasse una nuova guerra, il cui risultato sarebbe stato l’esclusione definitiva dell’Europa – il continente radice del cristianesimo – dalla scena mondiale. Sono stati creati, dopo il 1945, due blocchi, più o meno extraeuropei, la cui sfida combacia perfettamente con il principio dialettico massonico-hegeliano per cui gli opposti che creano una sintesi – una sintesi desiderata. Il pavimento a scacchi delle logge massoniche può significare proprio questo.
L’Europa è morta due volte: con una guerra per distruggere gli imperi e il cattolicesimo, e con una per togliere di mezzo qualsiasi sua pretesa sulla storia mondiale. Non ci stupiamo, quindi, se ora è invasa da africani e islamici ed incapace di reggere a qualsiasi conflitto le si pone dinanzi.
Questo massacro è finito? No.
Il 15 agosto 1871 Albert Pike (1809-1891), il cosiddetto «papa della massoneria», generale sudista americano e forse fondatore del Ku Klux Klan, scrive al supermassone e agente britannico Giuseppe Mazzini (1805-1872), ancor ‘oggi considerato eroe nazionale in Italia (pur essendo morto, come Bin Laden, da latitante): «Noi scateneremo i nichilisti e gli atei e provocheremo un cataclisma sociale formidabile che mostrerà chiaramente, in tutto il suo orrore, alle Nazioni, l’effetto dell’ateismo assoluto, origine della barbarie e della sovversione sanguinaria».
Alcuni dicono che il carteggio tra l’antipapista statunitense e l’antipapista italiano non esistono. Tuttavia, un commodoro della marina canadese, William Carr, dice di avere vedute le lettere a Londra, e in seguito vi scrisse un libro che le riassumeva. Altri ritengono che tali documenti siano secretati alla Temple House, sede della massoneria di Rito Scozzese di Washington.
Vale la pena di leggere le supposte parole del Pike. Tanti campanelli, a un secolo e mezzo di distanza, potrebbero risuonare nella mente del lettore.
«Allora ovunque i cittadini, obbligati a difendersi contro una minoranza mondiale di rivoluzionari, questi distruttori della civiltà, e la moltitudine disingannata dal cristianesimo, i cui adoratori saranno da quel momento privi di orientamento alla ricerca di un ideale, senza più sapere ove dirigere l’adorazione, riceveranno la vera luce attraverso la manifestazione universale della pura dottrina di Lucifero rivelata finalmente alla vista del pubblico, manifestazione alla quale seguirà la distruzione della Cristianità e dell’ateismo conquistati e schiacciati allo stesso tempo!»
Si prepara, insomma, la guerra ulteriore, la guerra satanica. Il processo, definitivo, per la sottomissione dell’umanità al demonio – la concrezione del Regno sociale di Satana. Se ciò stia per accadere, o se stia già accadendo, decidetelo da voi.
San Pio X aveva, tuttavia, già l’antidoto pronto: «Instaurare omnia in Christo». Restaurare ogni cosa in Cristo. Riformare, riformulare, ridisegnare, riedificare la società secondo Dio – e non secondo l’uomo, né secondo altro; non secondo «Gaia», non secondo la Pachamama, la «madre Terra» o qualsiasi altra follia idolatrica portata avanti dalla mostruosa neochiesa, per la quale, abbiamo visto, potrebbe valere il detto «Instaurare omnia in Chtulhu».
La soluzione ai problemi del mondo – in Palestina, in Ucraina, in Italia, nel vostro quartiere, nella vostra famiglia, nel vostro cuore – è tutta qua.
Tutta quella gente con cui sabato scorso io e il mio bimbo abbiamo camminato cantando «Noi vogliam Dio» lo sa. È già tanto, è tantissimo.
È la speranza con cui costruiamo, ora, il futuro dei nostri figli, e dei loro figli, e dei figli di questi, nella catena sacra della vita umana che da Adamo arriverà sino all’Apocalisse.
Sancte Pie Decime, ora pro nobis.
Roberto Dal Bosco
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Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri
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Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
Il presidente americano ha ancora una volta dimostrato la sua capacità di creare scherzi che tuttavia celano significati concreti – e talvolta enormi.
L’ultima trovata è stata la cerimonia della «grazia al tacchino», un frusto rito della Casa Bianca introdotto nel 1989 ai tempi in cui vi risiedeva Bush senior. Il tacchino, come noto, è l’alimento principe del giorno del Ringraziamento, probabilmente la più sentita ricorrenza civile degli americani, che celebra il momento in cui i Padri Pellegrini, utopisti protestanti, furono salvati dai pellerossa che indicarono ai migranti luterani come a quelli latitudini fosse meglio coltivare il granturco ed allevare i tacchini. Al ringraziamento degli indiani indigeni seguì poco dopo il massacro, però questa è un’altra storia.
Fatto sta che il tacchino, creatura visivamente ripugnante per i suoi modi sgraziati e le sue incomprensibili protuberanze carnose, diventa un simbolo nazionale americano, forse persino più importante dell’aquila della testa bianca, perché il rapace non raccoglie tutte le famiglie a cena in una magica notte d’inverno, il tacchino sì. Tant’è che ai due fortunati uccelli di quest’anno, Gobble e Waddle (nomi scelti online dal popolo statunitense, è stata fatta trascorrere una notte nel lussuosissimo albergo di Washington Willard InterContinental.
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax
— The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Da più di un quarto di secolo, quindi, eccoti che qualcuno vicino alla stanza dei bottoni si inventa che il commander in chief appaia nel giardino delle rose antistante la residenza e, a favore di fotografi, impartista una grazia al tacchino, salvandolo teoricamente dal finire sulla tavola – in realtà ci finisce comunque suo fratello, o lui stesso, ma tanto basta. Non sono mancati i momenti grotteschi, come quando il bipede piumato, dinanzi a schiere di alti funzionari dello stato e giornalisti, ha scagazzato ex abrupto e ad abundantiam lasciando puteolenti strisce bianche alla Casa Bianca.
Non si capisce cosa esattamente questo rituale rappresenti, se non la ridicolizzazione del potere del presidente di comminare grazie per i reati federali, tema, come sappiamo quanto mai importante in quest’ultimo anno alla Casa Bianca, visti le inedite «grazie preventive» date al figlio corrotto di Biden Hunter, al plenipotenziario pandemico Anthony Fauci, al generale (da alcuni ritenuto golpista de facto) Mark Milley. Sull’autenticità delle firme presidenziali bideniane non solo c’è dibattito, ma l’ipostatizzazione del problema nella galleria dei ritratti dei presidenti americani, dove la foto di Biden, considerato in istato di amenza da anni, è sostituita da un’immagine dell’auto-pen, uno strumento per automatizzare le firme forse a insaputa dello stesso presidente demente.
Ecco che Donaldo approffitta della cerimonia del pardon al tacchino per lanciare un messaggio preciso: appartentemente per ischerzo, ma con drammatico valore neanche tanto recondito.
Trump si mette a parlare di un’indagine approfondita condotta da Bondi e da una serie di dipartimenti su di « una situazione terribile causata da un uomo di nome Sleepy Joe Biden. L’anno scorso ha usato un’autopsia per concedere la grazia al tacchino».
«Ho il dovere ufficiale di stabilire, e ho stabilito, che le grazie ai tacchini dell’anno scorso sono totalmente invalide» ha proclamato il presidente. «I tacchini conosciuti come Peach and Blossom l’anno scorso sono stati localizzati e stavano per essere macellati, in altre parole, macellati. Ma ho interrotto quel viaggio e li ho ufficialmente graziati, e non saranno serviti per la cena del Ringraziamento. Li abbiamo salvati al momento giusto».
La gente ha iniziato a ridere. Testato il meccanismo, Trump ha continuato quindi ad usare i tacchini come veicoli di attacco politico.
«Quando ho visto le loro foto per la prima volta, ho pensato che avremmo dovuto mandargliele – beh, non dovrei dirlo – volevo chiamarli Chuck e Nancy», ha detto il presidente riguardo ai tacchini, facendo riferimento ai politici democratici Chuck Schumer e Nancy Pelosi. «Ma poi ho capito che non li avrei perdonati, non avrei mai perdonato quelle due persone. Non li avrei perdonati. Non mi importerebbe cosa mi dicesse Melania: ‘Tesoro, penso che sarebbe una cosa carina da fare’. Non lo farò, tesoro».
Dopo che il presidente ha annunciato che si tratta del primo tacchino MAHA (con tanto di certificazione del segretario alla Salute Robert Kennedy jr.), l’uso politico del pennuto è andato molto oltre, nell’ambito dell’immigrazione e del terrorismo: «invece di dar loro la grazia, alcuni dei miei collaboratori più entusiasti stavano già preparando le carte per spedire Gobble e Waddle direttamente al centro di detenzione per terroristi in El Salvador. E persino quegli uccelli non vogliono stare lì. Sapete cosa intendo».
Tutto bellissimo, come sempre con Trump. Il quale certamente non sa che l’uso del tacchino espiatorio non solo non è nuovo, ma ha persino una sua festa, in Alta Italia.
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Parliamo dell’antica Giostra del Pitu (vocabolo piementose per il pennuto) presso Tonco, in provincia di Asti. La ricorrenza deriverebbe da usanze apotropaiche contadine, dove, per assicurarsi il favore celeste al raccolto, il popolo scaricava tutte le colpe dei mali che affligevano la società su un tacchino, che rappresentava tacitamente il feudatario locale. Secondo la leggenda, questi era perfettamente a conoscenza della neanche tanto segreta identificazione del tacchino con il potere, e lasciava fare, consapevole dello strumento catartico che andava caricandosi.
Tale mirabile festa piemontese va vanti ancora oggi, anticipata da un corteo storico che riproduce la visita dei nobili a Gerardo da Tonco, figura reale del luogo e fondatore dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni in Gerusalemme, poi divenuto Sovrano Militare Ordine di Malta.
Subito dopo il gruppo che accompagna Gerardo avanza il carro su cui troneggia il tacchino vivo, autentico protagonista della celebrazione. Seguono quindi i giudici e i carri delle varie contrade del paese, che mettono in scena, con grande realismo, momenti di vita contadina tradizionale. Il passaggio del tacchino è tra ali di folla che non esitano ad insultare duramente il pennuto sacrificale.
Il clou dell’evento è il cosiddetto processo al Pitu, arricchito da un vivace botta-e-risposta in dialetto piemontese tra l’accusa pubblica e lo stesso Pitu, il quale tenta inutilmente di difendersi. Dopo la inevitabile condanna, il Pitu chiede come ultima volontà di fare testamento in pubblico, dando vita a un nuovo momento di ilarità.
Durante la lettura del testamento, infatti, egli si vendica della sentenza rivelando, sempre in stretto dialetto, vizi grandi e piccoli dei notabili e dei personaggi più in vista della comunità. Fino al 2009, al termine del testamento, un secondo tacchino (già macellato e acquistato regolarmente in macelleria, quindi comunque destinato alla tavola) veniva appeso a testa in giù al centro della piazza. Dal 2015, purtroppo, il tacchino è stato sostituito da un pupazzo di stoffa, così gli animalisti sono felici, ma il tacchino in zona probabilmente lo si mangia lo stesso.
Ci sarebbe qui da lanciarsi in riflessioni abissali sulla meccanica del capro espiatorio di Réné Girard, ma con evidenza siamo già oltre, siamo appunto al tacchino espiatorio.
Il tacchino espiatorio diviene il dispositivo con cui è possibile, se non purificare, esorcizzare, quantomeno dire dei mali del mondo.
Ci risulta a questo punto impossibile resistere. Renovatio 21, sperando in una qualche abreazione collettiva, procede ad accusare l’infame, idegno, malefico tacchino, che gravemente nuoce a noi, al nostro corpo, alla nostra anima, al futuro dei nostri figli.
Noi accusiamo il tacchino di rapire, o lasciare che si rapiscano, i bambini che stanno felici nelle loro famiglie.
Noi accusiamo il tacchino di aver messo il popolo a rischio di una guerra termonucleare globale.
Noi accusiamo il tacchino di praticare una fiscalità che pura rapina, che costituisce uno sfruttamento, dicevano una volta i papi, grida vendetta al cielo.
Noi accusiamo il tacchino di essere incompetente e corrotto, di favorire i potenti e schiacciare i deboli. Noi accusiamo il tacchino di essere mediocre, e per questo di non meritare alcun potere.
Noi accusiamo il tacchino di aver accettato, se non programmato, l’invasione sistematica della Nazione da parte di masse barbare e criminali, fatte entrare con il chiaro risultato della dissoluzione del tessuto sociale.
Noi accusiamo il tacchino di favorire gli invasori e perseguitare gli onesti cittadini contribuenti.
Noi accusiamo il tacchino di aver degradato la religione divina, di aver permesso la bestemmia, la dissoluzione della fede. Noi accusiamo il tacchino di essere, che esso lo sappia o meno, alleato di Satana.
Noi accusiamo il tacchino di operare per la rovina dei costumi.
Noi accusiamo il tacchino per la distruzione dell’arte e della bellezza, e la sua sostituzione con bruttezza e degrado, con la disperazione estetica come via per la disperazione interiore.
Noi accusiamo il tacchino di essere un effetto superficiale, ed inevitabilmente tossico, di un plurisecolare progetto massonico di dominio dell’umanità.
Noi accusiamo per la strage dei bambini nel grembo materno, la strage dei vecchi da eutanatizzare, la strage di chi ha avuto un incidente e si ritrova squartato vivo dal sistema dei predatori di organi.
Noi accusiamo il tacchino del programa di produzione di umanoidi in provetta, con l’eugenetica neohitlerista annessa.
Noi accusiamo il tacchino di voler alterare la biologia umana per via della siringa obbligatoria.
Noi accusiamo il tacchino di spacciare psicodroghe nelle farmacie, che non solo non colmano il vuoto creato dallo stesso tacchino nelle persone, ma pure le rendono violente e financo assassine.
Noi accusiamo il tacchino per l’introduzione della pornografia nelle scuole dei nostri bambini piccoli. Noi accusiamo il tacchino per la diffusione della pornografia tout court.
Noi accusiamo il tacchino per l’omotransessualizzazione, culto gnostico oramai annegato nello Stato, con i suoi riti mostruosi di mutilazione, castrazione, con le sue droghe steroidee sintetiche, con le sue follie onomastiche e istituzionali.
Noi accusiamo il tacchino di voler istituire un regime di biosorveglianza assoluta, rafforzato dalla follia totalitaria dell’euro digitale.
Noi accusiamo il tacchino, agente inarrestabile della Necrocultura, della devastazione inflitta al mondo che stiamo consegnando ai nostri figli.
Tacchino maledetto, i tuoi giorni sono contati. Sappi che ogni giorno della nostra vita è passato a costruire il momento in cui, tu, tacchino immondo, verrai punito.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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