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Storia

Rio 1904, la Rivolta dei vaccini

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Tra il 10 e il 16 novembre 1904 nella città di Rio de Janeiro, allora capitale del Brasile, vi fu una rivolta spaventosa. La causa di questa rivolta fu un tema che oggi, 117 anni dopo, pare ancora caldissimo: l’obbligo vaccinale.

 

Il governo infatti aveva passato una legge che imponeva la vaccinazione contro il vaiolo.

 

Nel giugno 1904, il governo presentò una proposta di legge che rendeva obbligatoria la vaccinazione della popolazione. La legge generò  accesi dibattiti tra legislatori e popolazione e, nonostante una forte campagna di opposizione, fu approvata il 31 ottobre.

 

L’innesco della rivolta fu la pubblicazione di un progetto per regolare l’applicazione del vaccino obbligatorio sul quotidiano A Notícia , il 9 gennaio 1904.

 

Il progetto rivelato dal giornale  richiedeva una prova di avvenuta  vaccinazione per l’iscrizione nelle scuole, per ottenere lavoro, per effettuare viaggi, per aver alloggio e anche per i matrimoni.

 

Il progetto prevedeva inoltre  il pagamento di multe per chi si opponeva alla vaccinazione.

 

Quando la proposta è trapelò alla stampa, la gente indignata iniziò  una serie di conflitti e manifestazioni che è durata circa una settimana. Le proteste iniziarono ben presto a dirigersi contro  i servizi pubblici in generale e verso i rappresentanti del governo, e contro la repressione delle forze dell’ordine. I disordini sfociarono addirittura in un tentato colpo di Stato da parte dei militari.

 

Il caos cessò solo quando il 16 novembre fu decretato lo stato d’assedio e la sospensione della vaccinazione obbligatoria.

 

Il bilancio finale fu di 945 persone arrestate a Ilha das Cobras, 30 morti, 110 feriti e 461 deportati nello stato di Acri.

 

Questa è la storia di quella che si ricorda come la Revolta da Vacina. La rivolta dei vaccini.

 

Innesco della rivolta

All’origine della rivolta vi fu la figura di un medico, Oswaldo Cruz. Di Cruz non è nota l’aderenza alla massoneria, che però permeava l’intera élite politico-economica brasiliana, lasciando simboli visibili perfino nei palazzi. Il Cruz era responsabile dei servizi igienico-sanitari della città, e aveva assunto la Direzione Generale della Sanità Pubblica (DGSP) con l’intenzione di combattere la febbre gialla, il vaiolo e la peste bubbonica.

 

A tal fine, ha chiesto al presidente Rodrigues Alves la più completa libertà di azione, oltre alle risorse per l’applicazione delle sue misure. Cruz così ottenne che il DGSP potesse invadere, ispezionare, ispezionare e demolire case ed edifici, oltre a disporre di un tribunale  speciale, dotato di un giudice appositamente nominato per risolvere i problemi e abbattere la resistenza.

 

Oswaldo Cruz

 

Cruz aveva in pratica messo in piedi una vera iatrarchia, una tirannia sanitaria in piena regola.

 

Le azioni del DGSP non furono mai ben accolte dalla popolazione, in particolare dai proprietari di stanze e condomini ritenuti insalubri, costretti a ristrutturarli o demolirli, e dagli inquilini costretti a ricevere operatori sanitari, a lasciare le case per la disinfezione, o addirittura ad abbandonare l’abitazione condannata alla demolizione.

 

 

Nel frattempo, i parlamentari eletti lavoravano ad un disegno di legge che rendesse obbligatorio il vaccino contro il vaiolo su tutto il territorio nazionale.

 

Il progetto di legge fu presentato il 29 giugno 1904 dal senatore Manuel José Duarte, e fu approvato con 11 voti contrari il 20 luglio, per entrare alla Camera il 18 agosto ed essere approvato a larga maggioranza alla fine di ottobre, diventando legge il 31 dello stesso mese.

 

 

L’idea di un obbligo vaccinale totale mostrò l’immenso gap tra i legislatori e la popolazione. Mentre i legislatori governativi sostenevano che la vaccinazione fosse di innegabile ed essenziale interesse per la salute pubblica, gli oppositori ritenevano che le modalità di applicazione del decreto vaccinale fossero truculente, e che i sieri e, soprattutto, i loro applicatori, fossero inaffidabili. Una situazione davvero non dissimile a quella odierna.

 

Durante la discussione delle legge vennero state inviate al Congresso diverse liste di firme contrarie all’obbligo. Due di questi sono stati organizzati dal Centro das Classes Operárias.

 

Un altro elenco comprendeva 78 soldati, per lo più allievi della scuola militare di Praia Vermelha. In tutto vennero aggiunte 15mila firme contro il progetto.

 

Dopo l’approvazione del disegno di legge, il 5 novembresi costituì la Lega contro il vaccino obbligatorio, in una riunione al Centro das Classes Operárias alla quale parteciparono duemila persone.

 

Qui si registrò grande irritazione popolare per le azioni del governo nel campo della sanità pubblica: ancora prima che i vaccini, l’invasione delle case, la richiesta di allontanamento dei residenti per la disinfezione e i danni causati agli utensili domestici furono  più volte citati come motivo di denunce.

 

C’era soprattutto il timore in relazione al vaccino stesso. Oltre alle preoccupazioni per la sicurezza, si espose l’idea che la campagna di vaccinazione prevedeva l’invasione della casa e ll’offesa all’onore dei capofamiglia assenti, in quanto si costringeva le figlie e la moglie a spogliarsi davanti a sconosciuti per l’applicazione del vaccino.

 

Le prime scintille 

Il 9 novembre 1904 fu pubblicato sul quotidiano A Notícia (Rio de Janeiro) un piano per regolare l’applicazione del vaccino obbligatorio.

 

Il progetto offriva l’opzione della vaccinazione da parte di un medico privato, ma il certificato avrebbe dovuto essere autenticato da un notaio.

 

Inoltre, erano previste multe per i refrattari e sarebbe richiesto un certificato di vaccinazione per l’iscrizione nelle scuole, l’accesso ai lavori pubblici, l’impiego nelle fabbriche, l’alloggio in alberghi, i viaggi, il matrimonio e, persino, il voto.

 

In pratica, l’intera vita civile del cittadino era sottomessa al vaccino.

 

La reazione fu immediata. Il 10 novembre, grandi raduni hanno occupato Rua do Ouvidor, Praça Tiradentes e Largo de São Francisco de Paula, dove oratori provenienti dal popolo comiziarono  contro la legge e la regolamentazione del vaccino.

 

I disordini iniziarono intorno alle sei del pomeriggio, quando un gruppo di studenti cominciò una manifestazione in Largo de São Francisco, dove si trovava la Scuola Politecnica. Gli studenti, probabilmente non estranei a certe usanze goliardiche, si produssero in cori umoristici e in rima.

 

Il gruppo camminò lungo Rua do Ouvidor, dove l’oratore, lo studente Jayme Cohen, predicava la resistenza ai vaccini.

 

Un capo della polizia ordinò quindi a Cohen di andare alla stazione di polizia. Qui vi fu la reazione popolare contro l’arresto.

 

Il gruppo, giunto a piazza Tiradentes, si trovò faccia a faccia con le piazze della cavalleria della polizia, scoppiando in fischi e grida: «Abbasso il vaccino!».

 

Partì quindi uno scontro con le forze di polizia per tentare di liberare il prigioniero. Vennero arrestate quindici persone, tra cui cinque studenti e due dipendenti pubblici.

 

Alle 19:30 la situazione tornò alla normalità, con la polizia rimasta di guardia a Praça Tiradentes.

 

L’indomani, 11 novembre, i manifestanti si radunarono nuovamente  in Largo de São Francisco, convocati dalla Liga Contra a Vacina Obbligatoria. Poiché i leader della Lega non partecipavano, gli oratori popolari fecero discorsi improvvisati.

 

Le autorità di polizia ricevettero l’ordine di intervenire e, avvicinandosi alla manifestazione, furono oggetto di fischi e provocazioni.

 

Quando la polizia cercò di eseguire gli arresti, scoppiarono gli scontri. I manifestanti usarono le macerie della riqualificazione urbana in corso e armandosi di oggetti di metallo, bastoni e pietre.

 

Ci fu allora la repressione della polizia da parte della polizia tra Piazza Tiradentes e Largo do Rosário. Diciotto persone furono state arrestate per uso di armi proibite.

 

Il 12 novembre ebbe luogo un altro incontro per discutere e approvare le basi della Lega. L’incontro era previsto per le otto di sera, presso la sede del Centro das Classes Operárias in Rua do Espírito Santo, vicino a Praça Tiradentes. Dalle cinque del pomeriggio, i manifestanti cominciarono a radunarsi nel Largo de São Francisco.

 

Un gruppo di ragazzi lavoratori diede il via giocosamente le manifestazioni. Montati su pezzi di legno prelevati dai cantieri, iniziarono a rappresentare gli eventi del giorno prima, simulando il pestaggio della popolazione da parte della cavalleria della polizia.

 

Secondo i giornali dell’epoca, all’incontro erano presenti circa quattromila persone di tutte le classi sociali, tra mercanti, operai, giovani militari e studenti. Nonostante la presenza di qualche leader con aspirazioni politiche, Il movimento aveva davvero un carattere dispersivo e spontaneo.

 

Alla fine dell’incontro, la folla marciò verso Rua do Ouvidor, dove acclamò il giornale Correio da Manhã, che lì aveva la sua sede, fischiando i giornali governativi (un’altra scena vista di recente).

 

Quindi, un gruppo dei contestatori si diresse verso Palácio do Catete , passando per Lapa e Glória. Lungo la strada, fischiò il ministro della Guerra, applaudì il 9° reggimento di cavalleria dell’esercito, fischiò e sparò contro la carrozza del comandante della brigata di polizia, generale Piragibe. Il palazzo era pesantemente sorvegliato.

 

La folla si voltò e tornò al centro. A Lapa, i manifestanti hanno nuovamente sparato contro la carrozza di Piragibe, che, revolver in mano, ordinò alle truppe di caricarli. Durante la giornata si vociferava che la casa del ministro della Giustizia fosse fatto oggetto di sassaiola, ma non era vero.

 

Tuttavia, la sua casa era sorvegliata dalla polizia, così come quella di Oswaldo Cruz. Ben presto, l’esercito entrò pronto e soldati di cavalleria e di fanteria furono inviati a guardia del quartiere Catete.

 

 

Guerriglia e tentato golpe

Domenica 13 novembre  il conflitto si era diffuso e assumeva un carattere più violento.

 

Un avviso nel Correio da Manhã del giorno prima aveva invitato la gente ad aspettare in Praça Tiradentes, dove si trovava il Ministero della Giustizia, i risultati della commissione che avrebbe esaminato il progetto di regolamentazione del vaccino.

 

Sempre durante l’incontro, alle due del pomeriggio, la carrozza del capo della polizia Cardoso de Castro arrivata sul posto fu oggetto di sassaiola.

 

Quando la polizia caricò la folla ed è scoppiato il conflitto. Gradualmente, i disordini si diffusero nelle strade adiacenti.

 

I tram furono attaccati, ribaltati e bruciati. I combustori a gas furono rotti e i cavi dell’illuminazione elettrica in Avenida Central vennero tagliati.

Tram ribaltato dalla popolazione in Praça da República durante la rivolta dei vaccini

 

Furono erette barricate su viale Passos e nelle strade adiacenti. In vua Senador Dantas, gli alberi appena piantati sono stati sradicati. A São Jorge, le prostitute scesero in strada e affrontarono la polizia: una di lorofu ferita al viso.

 

Vi furono attacchi alle stazioni di polizia e alla caserma di cavalleria a Frei Caneca, oltre che attacchi alle aziende del gas e il tram.

 

I conflitti si diffusero, raggiungendo Praça Onze , Tijuca , Gamboa , Saúde , Prainha , Botafogo , Laranjeiras , Catumbi, Rio Comprido e Engenho Novo.

 

Le autorità persero il controllo della regione centrale e dei quartieri periferici. A Saúde e Gamboa, le forze dell’ordine furono espulse dai residenti. 

 

Gli scontri continuarono di notte, con la città in parte al buio a causa delle lampade rotte. Vi furono sparatorie e venne arrestato il proprietario di un magazzino in Rua do Hospício, accusato di aver fornito kerosene ai manifestanti per bruciare i tram. Alla fine della notte, la Companhia Carris Urbanos aveva subito la distruzione di 22 tram, mentre la compagnia del gas riferiva che più di 100 combustori erano stati danneggiati e più di 700 erano stati resi inutili. Alla fine del conflitto, diverse persone e dodici poliziotti rimasero ferite; e vi fu almeno un morto.

 

L’Esercito e la Marina iniziarono a presidiare edifici e luoghi strategici. In una scena piuttosto controintuitiva, anche quando si fecero avanti per disperdere i manifestanti, le truppe dell’esercito sono state accolte da un forte applauso dai manifestanti. La situazione non pare diversa agli applausi che in alcune situazioni i manifestanti contro la dittatura sanitaria hanno riservato ai poliziotti, specie quando questi si producono nel gesto di togliersi il casco.

 

All’alba del 14 novembre, le sommosse ripresero. Durante il giorno, tendeva a concentrarsi in due roccaforti, una nel quartiere di Sacramento, vicino a piazza Tiradentes, via São Jorge, Sacramento, Regente, Conceição, Senhor dos Passos e Passos; e l’altro in Saúde, che si estende a Gamboa e Cidade Nova.

 

Durante la notte, duecento uomini tentarono di rapinare la 3a stazione di polizia urbana in Rua da Saúde, nelle vicinanze; la 2a stazione di polizia, in Rua Estreita de São Joaquim, fu presa dai manifestanti e poco dopo è stata abbandonata dall’arrivo delle truppe dell’esercito.

 

A Saúde si ebbero sparatorie tutto il giorno. Di notte, sempre a Saúde, grandi gruppi si radunarono e iniziarono a rompere i combustori, distruggere le linee telefoniche e erigere barricate. Le forze di polizia dovettero essere ritirate e sostituite da un contingente di 150 soldati della Marina.

 

Barricata eretta nel quartiere Saúde

 

In Rua do Regente ci fu un intenso conflitto tra manifestanti e cavalleria, provocando tre morti. A Prainha, il traghetto proveniente da Petrópolis fu  attaccato da un gruppo di oltre duemila persone, che perquisirono la stazione senza disturbare i passeggeri. Sul viale centrale, i vagoni dei Lavori Pubblici vennero ribaltati.

 

A Visconde de Itaúna ci fu uno scontro a fuoco tra guardie civili e soldati dell’esercito, comandati dal tenente Varela, del 22° battaglione di fanteria. I soldati arrestarono e ferirono alcune guardie sotto l’acclamazione dei manifestanti.

 

Nel corso della giornata i bollettini diffusi dal capo della polizia chiedevano alla «popolazione pacifica» di ritirarsi nelle proprie abitazioni affinché i «disturbi» potessero essere trattati con «il massimo rigore».

 

In vista della generalizzazione del conflitto e per intese tra i ministri della Giustizia, della Marina e dell’Esercito, la città fu divisa in tre zone di polizia, con l’intera costa di competenza della Marina, dell’Esercito e della parte settentrionale di Passos Avenue, tra cui São Cristóvão e Vila Isabel; e alla polizia la parte meridionale di Passos Avenue.

 

Il 38° battaglione di fanteria dell’esercito si chiamava Niterói. Treni partiti per raccogliere il 12° Battaglione di Lorena, a San Paolo, e il 28° Battaglione di São João del-Rei , Minas Gerais.

 

Allo stesso tempo, il militare Lauro Sodré e altri soldati stavano tramando un colpo di Stato. In un primo momento, il golpe era stato programmato per la notte del 17 ottobre 1904, data del compleanno di Lauro Sodré, al quale sarebbe passata la presidenza. La denuncia della congiura da parte della stampa costrinse però i ribelli a rimandare i loro piani.

 

La caricatura di Angelo Agostini, pubblicata su O Malho, mostra il generale Silvestre Travassos, uno dei cospiratori della Scuola Militare di Praia Vermelha, ferito a morte mentre i soldati in rivolta fuggono, e il generale Piragibe, comandante della Brigata di Polizia, alla guida delle forze ufficiali

 

Il colpo di stato fu inizialmente previsto per la parata militare del 15 novembre. Sarebbe toccato al generale Silvestre Travassos, uno dei capi del complotto, comandare le truppe in parata. Egli avrebbe quindi incitato le truppe a ribellarsi, e avendo l’adesione degli ufficiali già in mano, avrebbe imposto il consenso dei tentennanti e disarmato i refrattari. La rivolta dei vaccini, tuttavia, causò la sospensione della sfilata.

 

Così, il 14 novembre , si tenne una riunione al Clube Militar, alla quale parteciparono Lauro Sodré, Travassos, il maggiore Gomes de Castro, il deputato Varela, Vicente de Souza e Pinto de Andrade. Il ministro della Guerra prese atto dell’incontro e ordinò al presidente del club, il generale  Leite de Castro, di scioglierlo. Mentre si stava recando, dopo l’incontro, verso il centro della città, Vicente de Souza è stato arrestato in Rua do Passeio.

 

In serata una parte del gruppo che aveva partecipato all’incontro si recò alla Scuola Preparatoria e Tattica di Realengo cercando di sobillarla. La reazione del comandante, il generale Hermes da Fonseca, vanificò il piano e il maggiore Gomes de Castro e Pinto de Andrade furono arrestati.

 

L’altro gruppo, composto da Lauro Sodré, Travassos e Varela, ottenne l’appoggio della Scuola Militare Praia Vermelha senza grosse difficoltà.

 

Avvertito, il governo ha concentrato le truppe dell’Esercito, della Marina, della Brigata e dei Vigili del fuoco intorno al Palácio do Catete (allora sede della presidenza della Repubblica) e mandò un contingente ad affrontare la scuola militare ribelle, che si era messa in moto alle dieci con circa trecento cadetti.

 

Le due truppe si scontrarono sparandosi a via Passagem, che era completamente buia a causa delle lampade rotte. Durante la scaramuccia, una parte delle truppe governative si unì ai ribelli, il generale Travassos fu ferito, Lauro Sodré scomparve e, infine, entrambe le parti fuggirono, non sapendo cosa stesse accadendo all’altra.

 

Il generale Piragibe si recò a Catete per annunciare la fuga delle sue truppe, provocando la paura nel governo. Al presidente fu suggerito di ritirarsi su una nave da guerra con sede nella baia e organizzare la resistenza da lì. Il presidente Rodrigues Alves rifiutò  la proposta.

 

Poco dopo, fu  riferito che anche gli studenti si erano ritirati e sono tornati a scuola. La mattina del 15, i cadetti si arresero senza opporre resistenza e furono condotti in prigione.

 

La parte in rivolta subì più vittime, con tre morti e diversi feriti. Tra le truppe governative, trentadue furono feriti.

 

 

La rivolta continua

Le proteste popolari continuarono, iniziando all’alba del 15 e continuando per tutta la giornata. I maggiori focolai di rivolta si concentrarono a Saúde e Sacramento. Nella prima, dall’alto di una trincea, davanti al colle Mortona, sventolava una bandiera rossa.

 

In prossimità della seconda, su Rua Frei Caneca, fu realizzata una grande trincea. Circa 600 lavoratori delle fabbriche di tessuti Corcovado e Carioca e della fabbrica di calze São Carlos, tutti nell’Orto Botanico, eressero barricate e attaccarono la 19a Polizia Urbana, urlando contro il governo e la polizia.

 

Un caporale della guardia fuo ucciso e anche le tre fabbriche sono state attaccate e le finestre sono state rotte. Sono continuati gli attacchi alle stazioni di polizia, al gasometro, alle armi da fuoco e persino a un’impresa di pompe funebri a Frei Caneca. Vi furono  disordini a Meier, lo stesso giorno arrivarono battaglioni militari dal Minas Gerais e da São Paulo. Anche due battaglioni della forza pubblica di San Paolo arrivarono sul posto. Il governo dello stato di Rio de Janeiro offrì l’assistenza delle sue forze di polizia. A Saúde, la polizia ha ordinato alla Marina di attaccare i ribelli via mare, mentre le famiglie iniziarono ad evacuare il quartiere, per paura di un possibile bombardamento.

 

Il 16 novembre fu decretato lo stato d’assedio. Le operazioni repressive si sono concentrate nel distretto di Saúde, che il quotidiano governativo O Paiz ha definiva «l’ultima roccaforte dell’anarchismo».

 

Nel centro della città, specialmente nella roccaforte di Sacramento, continuarono le scaramucce tra la popolazione e la polizia, anche se con minore intensità che nei giorni precedenti. L’attrito ha provocato diverse lesioni. Al calar della notte, su Frei Caneca apparvero grandi barricate. Anche a Cidade Nova le azioni sono continuate.

 

Poco prima dell’assalto finale al distretto di Saúde, da effettuarsi via terra dal 7° battaglione di fanteria e via mare dalla corazzata Deodoro , fu arrestato Horário José da Silva, detto Prata Preta .

 

Caricatura di Prata Preta

 

Capoeirista e stivatore, Prata Preta è stato uno dei principali e più temuti capi della rivolta, guidando i manifestanti attraverso le barricate del distretto di Saúde. Prima del suo arresto, uccise un soldato dell’esercito e ferì due poliziotti. Quando venne portato alla stazione di polizia, fu  quasi linciato dai soldati. Dovette essere messo in una camicia di forza e, nonostante ciò, continuò a insultare e minacciare i soldati.

 

Verso le tre del pomeriggio, una truppa sbarcò e fece una prima trincea. La corazzata Deodoro si avvicinava, mentre l’esercito dell’esercito avanzava sul colle Mortona. A questo punto, le trincee erano state completamente abbandonate.

 

Fino al 20 novembre ci furono isolati focolai di rivolta. Il 18 novembre, si è verificata una sparatoria in una cava di Catete, che ha provocato la morte di un civile e due soldati, oltre a 80 arresti.

 

I delegati della polizia iniziarono a perlustrare i territori sotto la loro giurisdizione, arrestando sospetti e coloro che consideravano uomini del disordine, legati o meno alla rivolta che fossero.

 

Il 20 novembre ci fu un gran numero di arresti a Gávea. Il giorno successivo, il numero dei prigionieri su Ilha das Cobra sera già arrivato a 543. Quel giorno, il ministro della Giustizia ricevette la denuncia che “tre pericolosi anarchici” si erano imbarcati per Rio per agitare la classe operaia e ordinò che fossero prese misure per impedire lo sbarco.

 

Come atto finale, il 23 novembre, la polizia effettuò o un grande raid in una favela, mobilitando 180 soldati. Le baracche sulla collina furono spazzate via. Sulla via del ritorno, le truppe perquisirono gli alloggi e hanno arrestato diverse persone.

 

Sull’isola infine si contarono più di 700 prigionieri

 

Conclusione

Lo stesso giorno in cui il governo decretò lo stato d’assedio, la vaccinazione obbligatoria fu sospesa.

 

Spenta la causa scatenante, il movimento iniziò a declinare.

 

L’insurrezione militare, a sua volta, ebbe ripercussioni a Bahia, dove si sollevò una guarnigione che fu prontamente neutralizzata.

 

A Recife, l’agitazione della stampa favorevole alla rivolta provocò alcune innocue marce per la città. A Rio de Janeiro, la scuola Praia Vermelha fu   chiusa ei suoi studenti furono  esiliati nelle regioni di confine e poi licenziati dall’esercito.

 

Tra i civili, solo quattro furono perseguiti: Alfredo Varela, Vicente de Souza, Pinto de Andrade e Arthur Rodrigues.

 

In tutto furono  arrestate 945 persone. Di questi, 461 avevano precedenti penali e furono espulsi. I restanti 481 vennero rilasciati. Sette stranieri furono  espulsi.

 

Le vittime della successiva repressione furono generalmente gli individui più poveri, che avrebbero potuto prendere parte alla rivolta, sebbene la loro partecipazione non fosse sempre dimostrata.

 

I deportati furono stipati nelle navi-carcere e mandati ad Acri, mentre gli altri prigionieri furono mandati nell’isola di Cobras, dove subirono maltrattamenti.

 

Qui concludiamo la storia della Rivolta dei vaccini di Rio nel 1904.

 

Lasciamo al lettore di meditare su quanto la storia abbia ancora da insegnarci.

Pensiero

«Ci inseguiranno con le loro torce fiammeggianti fino al fuoco dell’inferno». Israele, il sacrificio dell’Innocente: cosa ha compreso Toaff

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Sta circolando da ieri con insistenza un post fatto su Facebook dadi Ariel Toaff. Molti lo conoscono già: professore di Storia presso l’Università israeliana Bar-Ilan, è figlio di Elio Toaff, già rabbino capo di Roma, noto per gli episodi di vicinanza con Giovanni Paolo II.

 

Le parole di Toaff, ebreo italo-israeliano, sono di una durezza tremenda. Sarebbero immediatamente condannate come «antisemitismo», e bannate dai social, se a pronunziarle fosse stato un goy, un non-ebreo.

 

«Israele sotto Netanyahu sta imboccando, come un ciuco ubriaco, la strada verso una debacle economica senza precedenti e l’isolamento internazionale» scrive lo storico medievale, evocando un animale, l’asino, di certo sapore biblico.

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«Se riusciremo ad uscirne, ci vorrà del tempo per rimetterci in sesto. Dell’immagine morale di Israele non parlo, perché l’ha persa da tempo». Un’ammissione drastica, ma oramai condivisibile da chiunque: il disastro morale di Israele è ora sotto gli occhi del mondo, e le denunce all’Aia e i futuri riconoscimenti promessi alla Palestina (in ultimis, in queste ore, è arrivata anche l’Australia, che pure ha una storia di lotta contro il cosiddetto «negazionismo olocaustico») ne sono la prova schiacciante. Al punto che perfino Donald Trump, accusato ora dalla sua stessa base di favorire gli israeliani rispetto agli americani in tradimento totale del principio MAGA dell’America First, ad aprile aveva dichiarato che Israele a Gaza «sta perdendo gran parte del mondo» e alimentando l’antisemitismo.

 

 

«Gaza non rischia di essere la tomba di Netanyahu e dei suoi folli seguaci, ma la nostra» continua Toaff, senza specificare se stia parlando degli ebrei o degli israeliani. «E non abbiamo fatto niente per impedirlo. Di fatto siamo suoi complici, ignobilmente complici». Parole coraggiose, di sincerità che va ben al di là dell’autocritica di rito. Si tratta di un giudizio spirituale che sa di definitivo, di epocale.

 

«La giusta e crudele punizione non tarderà a raggiungerci. È uno dei capitoli più infami della storia del sionismo moderno» scrive ancora lo storico nato ad Ancona. «I morti ammazzati di Gaza, donne e bambini, ci inseguiranno con le loro torce fiammeggianti fino al fuoco dell’inferno».

 

Qui scatta un’immagine ancora più potente, che l’esperto di storia ha studiato e raccontato in profondità: i pogrom, gli atti di persecuzione contro gli ebrei di cui è costellata la storia di, praticamente, ogni regione del mondo. Una punizione che, incredibilmente, viene qui definita «giusta e crudele». Inseguiti con le fiamme, e poi l’inferno: sono immagini di portata spaventosa. Davanti a tanta intensità, davanti a un tale coraggio di visione e percezione, può venire la pelle d’oca. Ci togliamo il cappello.

 

«E ora provate a bloccarmi e a cancellare il mio post ipocriti, pavidi e vigliacchi» conclude Toaff. «Siete una vergogna nella storia del popolo di Israele». Non sappiamo a chi stia parlando ora: a chi controlla i social media? È un’implicita ammissione al fatto che gli ebrei (o i sionisti, fate voi) controllano il pubblico discorso su internet e oltre?

 

La carne al fuoco è tantissima. Specie se consideriamo chi sta parlando. E ricordiamo quanto accadde nel febbraio 2007, quando uscì il libro più celebre di Toaff, Pasque di sangue.

 

Lo studio storico, edito dalla prestigiosa casa editrice Il Mulino (in zona, diciamo così, prodiana) esamina il contesto storico e culturale dell’ebraismo ashkenazita medievale in diaspora, dove nacque l’accusa agli ebrei di compiere omicidi rituali di bambini cristiani durante la Pasqua, utilizzando il loro sangue per presunti riti anticristiani.

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L’esempio più noto è quello di Simonino di Trento, noto da tutti come San Simonino (1472-1475), bambino di due anni e mezzo trovato morto durante la Pasqua del 1475, venerato come beato dalla Chiesa cattolica sino al Concilio Vaticano II. A seguito del ritrovamento in una roggia del corpo (che, secondo voci, da qualche parte ancora dovrebbe esserci…), quindici ebrei di Trento furono interrogati con la tortura, e confessarono. Furono messi a morte. Il culto di Simonino divenne nei secoli, e non solo per il mondo cattolico, la prova dell’esistenza dell’omicidio rituale ebraico, la cosiddetta «Accusa del sangue»: l’idea, diffusa dall’Inghilterra Medievale all’Europa rinascimentale alla Germania nazista al mondo arabo odierno, secondo cui gli ebrei consumano sangue umano, specialmente di bambini, durante la Pasqua ebraica (Pesach) per scopi magici o rituali.

 

In Pasque di sangue, se da un lato Toaff rigetta l’idea di omicidi rituali come mito cristiano, in linea con la storiografia tradizionale che considera tali accuse una montatura delle autorità cristiane, dall’altro suggerisce che, pur mancando prove dell’uso magico o superstizioso del sangue, non si può escludere che singoli individui, forse legati a gruppi estremisti ashkenaziti, possano aver compiuto tali pratiche. In particolare, vi sarebbero elementi che farebbero pensare a collegamenti con culti cabalistici dell’ebraismo dell’Europa orientale.

 

In pratica, Toaff ammette che l’omicidio rituale ebraico potrebbe essere realtà. Secondo Toaff, non è corretto rigettare completamente i documenti processuali, ritenuti dalla vulgata attuale come «inattendibili». Ad esempio, si riscontra una chiara corrispondenza tra le confessioni del processo di Trento e le fonti ebraiche relative all’uso magico e simbolico del sangue in riti e liturgie specifiche durante la Pasqua ebraica, tipici di gruppi estremisti ashkenaziti, con intenti anticristiani (il cosiddetto «rituale della maledizione»). Ciò conferma che, nonostante le confessioni ottenute sotto tortura, è possibile estrarne elementi autentici della cultura sotto processo. Nelle confessioni del processo di Trento emergono frasi in ebraico ashkenazita – invettive anticristiane corroborate da altre fonti – trascritte erroneamente dai notai, dimostrando che i giudici non conoscevano né l’ebraico né lo yiddish, il che avvalora l’autenticità di tali espressioni.

 

Lo scandalo all’uscita del libro fu immediato. In una reazione di velocità e potenza mai prima vedute, il volume fu ritirato prepotentemente dalle librerie (un fenomeno che avremo visto anni dopo con il libro sul COVID dell’allora ministro della Sanità Speranza), ma l’effetto fu l’opposto di quello desiderato dai censori: in un classico della golemica ebraica, l’interesse verso le tesi del libro accrebbero ancora di più. Nel momento in cui scrivo, su eBay una copia di Pasque di sangue prima edizioni si può comprare per 550 euro, mentre se volete risparmiare e comprarlo su Amazon dovete sborsarne 480. Racconterò pure di aver scoperto che un’amica serba, moderatamente religiosa, aveva pure lei sentito parlare del caso, che evidentemente viene discusso anche dalle comunità ortodosse in Italia.

 

Sì, Golem. Il mostro sfugge dal controllo: la seconda edizione, uscita nel 2008, pure ribadiva in qualche modo le tesi, ma voleva mettere in chiaro i concetti espressi «per non consentire equivoci di sorta», ma lo scandalo non viene dimenticato, il segno lasciato dal saggio è indelebile.

 

Vale la pena qui notare come dentro al mondo ebraico le reazioni non siano state univoche, e per un motivo che tenteremo di spiegare.

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Le reazioni dell’ebraismo italiano, e di conseguenza dell’intellighenzia democratica tutta (con paginoni su Corriere e Repubblica, ma anche, ma guarda un po’, sul giornale dei vescovi Avvenire) fu di rigetto alle tesi di Toaff. Valga la risposta del rabbino Elio Toaff, massimo rappresentante del giudaismo nazionale, nonché padre dell’autore: «la cultura ebraica è basata sulla pace e sul perdono. Si tratta di leggende che non hanno nessun fondamento».

 

Al contrario, l’università di Tel Aviv dove insegna il professor Toaff, la Bar-Ilan, difese le ricerche del suo cattedratico. Lì per lì, uno si potrebbe chiedere perché: stiamo parlando di un rito diabolico, di combustibile per l’antisemitismo nei millenni, di un argomento ancora usato oggi da palestinesi e altri musulmani mediorientali. Com’è possibile che non abbiano negato a basta?

 

Il motivo riesco a spiegarmelo ricordando le parole di uno sconosciuto incontrato per caso nell’estate del 2007. Ero a Roma, e non potevo resistere all’idea di una passeggiata serale. Davanti alla fontana di Piazza Navona incontro, incredibilmente, un amico compaesano trasferitosi a Los Angeles, che era lì con la famiglia messa su in America – che coincidenza incredibile trovarlo lì. Quando ci salutiamo, vedo seduto lì a fianco un ragazzo calvo, dall’aspetto anglo. Sta leggendo una fotocopia con un articolo su Pasque di Sangue. Non resisto e attacco bottone.

 

Voglio chiedergli come mai si interessa della questione. Nasce una conversazione più generale, durata ore, del perché si trovava a Roma: è un ragazzo britannico, che viveva in America, mi racconta la sua storia di conversione, lavorava per una ricca signora cattolica, ma lui non aveva tanta fede. Poi un giorno davanti a altre persone si mette a parlare di Cristo e della sua chiesa, e si rende conto di avere dentro di sé qualcosa di simile ad una vocazione. Era volato nel centro della cristianità, quindi, per capire il da farsi: non so se sia entrato in qualche seminario, non so se ora sia un consacrato, posso però dire che credevo completamente all’energia della sua conversione.

 

E allora, caro amico, perché ti interessi di Pasque di sangue? Al momento trovai la risposta ingenua, «dilettantistica», direi, ma ora capisco meglio. «Perché gli ebrei stanno rivendicando questo segno di forza sanguinaria, di violenza a fondamento della loro storia. I cattolici non hanno niente del genere». Parlava quasi come la cosa gli dispiacesse, forse perché lui sognava uno Stato Cattolico come Israele è lo Stato Ebraico, e nella sua foga di neoconvertito si rendeva conto che la chiesa moderna ha tolto ogni fondamento all’idea di uno Stato Cristiano.

 

È la prima parte del discorso di questo ragazzo conosciuto casualmente (che ha un nome, che non farò) che ora mi risuona dentro: gli ebrei rivendicano la propria forza sanguinaria. Pure se essa è ingiusta, orrenda, crudele, inumana – esoterica, infernale. E quindi: per sfuggire all’immagine di passività inane, gli ebrei rivendicano il sacrificio umano…?

 

Ciò sicuramente può venire dalla vulgata ebraica del Novecento, che vedeva l’ebreo come debole prima, come vittima poi: si va dall’idea dell’ebreo come razza femmina espressa in Sesso e Carattere (1903) di Otto Weininger – libro apparso in Italia con traduzione di Giulio Evola e apprezzato da Adolfo Hitler, malgrado l’autore fosse ebreo: il führer tuttavia apprezzava il fatto che il Weininger si fosse suicidato – alla successiva presentazione dell’ebreo come vittima definitiva con i campi di sterminio, quella che Norman Finkelstein ha chiamato L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei (2000).

 

L’etichetta di razza debole, insomma, non va più bene agli ebrei. Non è vero che sono stati eterne vittime, e mai hanno alzato un dito contro i cristiani maggioritari: «Anche gli ebrei avevano voce. E non era sempre una voce sommessa e soffocata dalle lagrime» scrive Toaff in Pasque di Sangue.

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Quello dell’ebreo che non ne può più del senso di vittimismo, della narrativa dell’impotenza della propria genìa è un tema che meglio di ogni saggio accademico descrive il film capolavoro The Believer (2001), con un giovane e bravissimo Ryan Gosling nei panni di uintern naziskin americano che in realtà è ebreoUna storia che riprende quella, vera, di Dan Burros (1937-1965), esponente del Partito Nazismo Americano (ANP) e della frangia più violenta del Ku Klux Klan che era in realtà di una famiglia di ebrei di Nuova York.

 

Burros, definito come non plus ultra post-bellico di jüdische selbsthass («odio dell’ebreo verso se stesso»), finì, come Weininger, suicida. Non era l’unico ebreo a finire ai vertici dell’ANP. Era il giro che parlava di Washington come il luogo dello ZOG, cioè Zionist occupied Government («Governo di occupazione sionista»), espressione classica dei neonazisti statunitensi desunta dal loro libro-manifesto The Turner Diaries, di cui anni fa era apparsa finalmente una traduzione in italiano chiamata La seconda guerra civile americana. I diari di Turner, ora – abbiamo appena visto – misteriosamente sparita da Amazon, dove poco tempo fa pure l’avevamo comprata. Notiamo che che in questi giorni l’espressione del «governo occupato dagli israeliani» sionisti si sente tranquillamente in bocca a commentatori americani critici dell’influenza di Israele che magari nemmeno sono di destra.

 

Qui si introduce un discorso più ampio, che è quello della sostituzione dell’olocausto. Alcuni hanno sostenuto che la propaganda del dopoguerra ha tentato di sostituire presso la spiritualità cristiana l’Agnello, cioè l’Innocente, cioè Cristo, con il massacro degli ebrei: di fatto, proprio il termine per descrivere il sacrificio, «Olocausto», è ora occupato dalla questione dello sterminio operato dai tedeschi.

 

Il popolo ebraico massacrato diviene il vero Agnello, il vero sacrifizio dell’Innocente. Per questo, è stato detto, si può considerare l’Olocausto come «unica religione rimasta», l’unica di cui lo Stato moderno, Stato laico (cioè, massonico) obbliga il culto: ecco le «Giornate della Memoria». Ecco le leggi sul «negazionismo dell’Olocausto». Ecco la censura sui social se anche solo si prova a dire qualcosa contro non l’ebraismo, ma il sionismo…

 

Tutto questo è finito, e non solo Toaff sembra averlo capito. La vittima è divenuta carnefice. L’abusato, abusatore. Chi ha gridato per quasi un secolo al genocidio subìto, ora è accusato all’Aia di genocidio.

 

Il nuovo agnello mostra le forme di un lupo sanguinario: bombarda civili, uccide bambini, affama un intero popolo. Il rovesciamento del paradigma, sembrano dire tanti come Toaff, è incontrovertibile. Nessuna carta di vittimismo pare funzionare più: non il genocidio nazista, non la strage del 7 ottobre 2023.

 

Per chi scrive è evidente che la volgare esibizione di potenza di Israele, mostrata in tutta la sua crudeltà gratuita non solo sui canali social interni dei soldati IDF, sia animata proprio dalla volontà di sembrare, finalmente, non più vittime. Con il problema che, dicotomicamente, se non si è vittime, si diviene carnefici…

 

Dal dolore della vittima, all’estasi del carnefice: non possiamo non vedere come, davvero, ciò avvicini alle versioni più caricaturali, fumettistiche, del nazismo, inteso come sadismo massivo nei confronti del più debole.

 

Memento Golem: quello che non viene calcolato qui, come non lo era stato l’altra volta, sono le conseguenze di quanto si fa. Certo non ce lo dice la storiografia dell’establishment, ma sappiamo che i nazisti pagarono non solo con la distruzione del loro Stato (e la creazione di uno Stato castrato, uno Stato in istato di umiliazione e impotenza permanente) ma con l’uccisione e la diaspora, nel dopoguerra, di milioni di tedeschi.

 

Toaff sembra averlo capito quando parla della punizione in arrivo, con «i morti ammazzati di Gaza, donne e bambini, ci inseguiranno con le loro torce fiammeggianti fino al fuoco dell’inferno». L’inferno di Israele, al di là della questione personale e metafisica, potrebbe coincidere con la sua fine: non si tratta di un’idea peregrina, almeno non più, nemmeno presso gli stessi ebrei, con alcuni che si stanno convincendo della «maledizione dell’ottava decade»: lo Stato degli ebrei non dura più di ottant’anni, non visse più a lungo il Regno di re Davide, né il regno di Giudea (140-37 a.C.) degli asmonei che, per beghe interne tra fazione giudaiche, finì come protettorato romano.

 

Ora ci avviciniamo all’ottantesimo anniversario della nascita di Israele. Che sia questo che forza la mano dei sionisti? Che vi sia questo senso di apocalisse politica dietro alla frenesia assassini di questi mesi? Non sappiamo rispondere. Vediamo, tuttavia, come costoro possono immaginare, e temere, un mondo post-Israele…

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Se la sono cercata, potrebbe essere il commento superficiale. Forse in realtà non avevano scelta: con boria, ti prendi gioco dell’Innocente, sgozzi sghignazzando l’Agnello, pretendendo pure di essere tu, l’Agnello – e credi che ciò non chiamerà l’Ira di Dio?

 

Chiudo con una nota personale. Sono stato a Trento, per un gita domenicale, mesi fa. Parcheggiato davanti al Duomo, siamo entrati, e dopo un po’ abbiamo cercato qualcosa che ricordasse San Simonino, da qualche parte nella mia testa c’è l’idea che ci fosse una statua, forse poi cancellata con l’abolizione voluta dal Concilio Vaticano II del culto del beato bambino. Non si tratta di una figura minore per la città e per la Chiesa cattolica: fino al 1965, il Martirologio Romano in data 24 marzo segnava la celebrazione a Trento della «passione di san Simone, fanciullo trucidato crudelmente dai Giudei, autore di molti miracoli».

 

Chiediamo a quello che sembra un lavoratore della cattedrale. Ci dice che sì, c’è un segno rimasto, è un dipinto, dove, tra tanti altri soggetti, si intravede San Simonino… andiamo a vederlo, sulla navata sinistra: c’è, il bimbo beato è appena accennato. Quindi chiediamo dove sia la chiesa di San Simonino, e il ragazzo ci risponde che non c’è, c’è una cosa che si chiama «Aula del Simonino», è uno spazio pubblico, «laico», è un luogo FAI, ci fanno conferenze, cose così, è in fondo alla via fuori dal Duomo, che si chiama ancora via del Simonino. Andiamo a verificare: tutto vero. Tuttavia, apprendiamo che lo scorso 27 gennaio (l’immancabile «giorno della memoria») è stata piazzata in Piazza Duomo una targa commemorativa degli ebrei uccisi nel processo di quasi sei secoli fa…

 

Ora non ci sorprenderemmo se l’interesse per San Simonino, sepolto da decenni come hanno cercato di sotterrare il libro di Toaff, facesse un’impennata. Magari tracimando pure in altri casi della zona, come quello di Lorenzino da Marostica, bambino trovato cadavere nel 1485 e per il cui omicidio furono accusati gli ebrei di Bassano: un altro infanticidio rituale giudaico, con culto del bambino martire abolito, anche quello, dal Concilio nel 1965.

 

Simonino, Lorenzino, potrebbero essere tra quei «bambini, ci inseguiranno con le loro torce fiammeggianti fino al fuoco dell’inferno». Qualcuno lo sta capendo. Sta capendo che le conseguenze, quando si tocca l’Innocente, possono davvero seguirti sino alla fine, sino al giudizio. Perché il giudizio, alla fine, ci sarà.

 

Sì: il sacrificio umano ha un costo. Lo diciamo non solo per quanto riguarda la guerra di Gaza, ma anche per i nostri ospedali: forse chi uccide i bambini, ad un certo punto, dovrà pagare.

 

Davvero.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine: Bassorilievo rappresentante l’assassino di San Simonino di Trento

Immagine di Andreas Caranti via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic; immagine modificata

 

 

 

 

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Economia

Gruppi ebraici chiedono un nuovo risarcimento per i conti bancari svizzeri legati ai nazisti

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Il colosso bancario svizzero UBS potrebbe dover chiedere miliardi di dollari di risarcimento ai sopravvissuti all’Olocausto se venissero provate le accuse dei gruppi ebraici riguardo a conti bancari segreti nazisti ereditati dal fallito Credit Suisse. Lo riporta Bloomberg.   Secondo la testata economica neoeboracena, UBS sta completando le sue indagini sulla questione.   Ronald Lauder, presidente del Congresso Mondiale Ebraico e figura chiave dietro l’accordo da 1,25 miliardi di dollari con le banche svizzere del 1998, ha dichiarato a Bloomberg di credere che le banche debbano molto di più.   «Probabilmente abbiamo lasciato sul tavolo dai 5 ai 10 miliardi di dollari», ha affermato il miliardario della cosmetica a capo del grande ente giudaico internazionale.

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Nel 2020, il Simon Wiesenthal Center, un’organizzazione ebraica per i diritti umani, ha accusato Credit Suisse di non aver divulgato i conti collegati a clienti nazisti. In risposta, la banca ha commissionato un’indagine interna.   Dopo l’acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS nel 2023, ha reintegrato l’ombudsman indipendente Neil Barofsky, ex procuratore statunitense, per condurre un’indagine più approfondita. Secondo Bloomberg, il rapporto finale dovrebbe essere completato all’inizio del prossimo anno.   L’indagine ha portato alla luce irregolarità, ha osservato la testata. Il lavoro preliminare di Barofsky ha rivelato centinaia di account, alcuni contrassegnati con etichette interne come «lista nera americana», suggerendo un occultamento intenzionale durante indagini precedenti.   «I numeri sono impressionanti. Dove un ebreo poteva aver versato 100.000 dollari, questi nazisti ne versavano 10 o 20 milioni, o l’equivalente», ha detto Lauder, sostenendo che il denaro fosse probabilmente stato rubato alle vittime dell’Olocausto. «Niente di tutto ciò è stato coperto dall’accordo degli anni Novanta».   Lauder sostiene che UBS potrebbe ora dover pagare miliardi in più di risarcimento. Altri sostengono che l’accordo del 1998 protegge le banche da future responsabilità finanziarie.   Credit Suisse, un tempo la seconda banca svizzera per dimensioni, è stata acquisita da UBS nel 2023 a seguito di una serie di scandali e perdite dovute alle ramificazioni del crash bancario partito con la crisi delle banche regionali USA come la Silicon Valley Bank.   La storica fusione, favorita dallo Stato elvetico, ha posto fine ai 167 anni di storia di Credit Suisse e ha scosso la fiducia globale nel settore bancario svizzero.   Come riportato da Renovatio 21, le accuse sui conti nazisti nell’istituto creditizio si erano riaccese mezzo anno fa.   Le banche svizzere sono ciclicamente accusate altresì di riciclaggio per conto del narcotraffico mondiale.

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Immagine di Ank Kumar via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
   
 
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Pensiero

Il samurai di Cristo e il profeta del nulla: un sabato a Kanazawa

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Sabato scorso ho avuto la fortuna di passare la giornata a Kanazawa, un piccolo gioiello di città situato nell’Ovest del Giappone.

 

Sul lato sud dell’area del castello, il centro ideale della città, poco meno di un chilometro separa due luoghi che rappresentano i due estremi della storia della regione. Vicino alla zona commerciale di Korinbo, si trova la chiesa Cattolica di San Giuseppe, dove, appena entrati, da subito si fa sentire la presenza del Beato Giusto Takayama Ukon.

 

 

Ho già avuto modo di rievocare la sua figura sulle pagine di Renovatio 21, ma vale la pena di ricordare ancora una volta la meravigliosa figura di questo samurai cristiano: dopo avere preferito rinunciare alle ricchezze garantite dal suo status di signore feudale pur di non abiurare la sua fede (una specie di San Francesco nipponico), Giusto Takayama passò a Kanazawa gli ultimi anni della sua vita giapponese, prima dell’esilio nelle Filippine e della morte ivi presto soppravvenuta a causa dei lunghi anni di persecuzione.

 

La sua presenza a Kanazawa ha lasciato tracce che esulano dalla sola testimonianza religiosa: visitando la ricostruzione del castello, si trovano cartelli illustrativi che ricordano il suo ruolo nella progettazione delle mura esterne e del fossato, oltre che del complesso sistema di canali che ancora attraversano la città.

 

Il clan Maeda, che ha continuativamente detenuto il potere sulla regione fino alla fine dello shogunato di Edo e all’ingresso del Giappone nell’era moderna, aveva dato asilo a Takayama quando questi si era trovato ormai senza più casa né averi a causa della sua fede religiosa, il che fa davvero onore a questo clan di guerrieri e mecenati.

 

Il beato Giusto, oltre che rinomato capo militare e ingegnere civile, era anche uno dei sette principali maestri della cerimonia del tè dell’epoca. Sul sado (茶道, la via del tè), ovvero la cerimonia del tè giapponese, bisognerebbe aprire un capitolo a parte: la maniera in cui in esso si fondono austerità e disciplina militare, ricercatezza estetica, enfasi sulla finitezza e l’imperfezione delle cose, attenzione nei confronti dell’ospite e umiltà nell’atteggiamento di chi officia rappresenta una delle vette assolute raggiunte dalla cultura di questo popolo contraddittorio e meraviglioso.

 

La chiesa di Kanazawa è appunto dedicata a San Giuseppe, ma già nel parcheggio ci dà il benvenuto una statua del samurai di Cristo. Nelle vetrate della chiesa, l’unica figura distintamente giapponese è quella del beato (con tanto di chonmage, la caratteristica pettinatura dei samurai!), e, a coronare il tutto, si trova anche in esposizione costante una reliquia della veste del Beato Giusto Takayama (per la sua santificazione si richiedono cortesemente le preghiere dei lettori).

 

 

La chiesa risulta suggestiva, vi si celebra una Messa post conciliare un po’ raffazzonata ma visibilmente molto sentita dalla comunità, come spesso capita qui in Giappone.

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Il contrasto con il museo D.T. Suzuki, a soli 15 minuti di distanza, non potrebbe essere più grande. In mezzo al verde delle piccole colline a sud del castello e del meraviglioso giardino Kenrokuen, in una zona punteggiata di musei (e vicino a un santuario shintoista dedicato al demone Inari: Quoniam omnes dii gentium daemonia), si trova questa austera e minimale struttura in cemento: in tutta onestà si tratta di un edificio indiscutibilmente bello, opera dell’architetto Yoshio Taniguchi.

 

 

Il problema è il personaggio a cui è dedicato: Daisetsu Teitaro Suzuki, probabilmente il principale divulgatore del nichilismo zen in occidente. Ci sono entrato senza sapere nulla del soggetto, su consiglio di un amico che aveva apprezzato l’architettura del museo, ma dopo pochi metri già la faccenda puzzava.

 

Foto del Suzuki con Erich Fromm, copia de Le porte della percezione del mefitico Aldous Huxley nella biblioteca del museo e altri cascami del milieu venefico che ha fatto da brodo di cultura ai vari sessantotti, sono gli indizi che mi hanno fatto capire di essere di fronte a una celebrazione del degrado morale e culturale militarizzato.

 

 

Una scorsa alla biografia del Suzuki sull’enciclopedia online basta a fare cadere dubbi, braccia e altre appendici. Riporto a seguire: «nel 1911, Suzuki sposò Beatrice Erskine Lane Suzuki, una laureata di Radcliffe e teosofa con molteplici contatti con la fede Baháʼí sia in America che in Giappone. In seguito Suzuki stesso si unì alla Società Teosofica Adyar e fu un teosofo attivo». Perché scrivere semplicemente che era un burattino dei servizi britannici pareva brutto. Direi che può bastare.

 

Ci tengo a riportare uno dei cartoncini con le profondissime massime del nostro distribuiti nel museo, che vale come promemoria della sconfinata inanità delle bubbole zen che sono state inoculate in occidente negli anni critici del dopoguerra. Si tratta chiaramente di frasette da imbonitore che devono apparire profonde e intimidire il lettore, ma che di fatto non sono degne di un Bacio Perugina scaduto.

 

 

Dietro a un linguaggio complesso, che senza definizioni precise non significa niente, si nasconde a stento il nulla. Che vuol dire trascendere? Cos’è un oggetto? Scapellamento a destra come fosse antani per due?

 

Di fronte a tanta aria fritta si capisce come lo zen d’accatto si sia diffuso così rapidamente in un ambiente culturale perennemente adolescente come quello statunitense, perché un adulto che legge cotante dabbenaggini risponde di regola a pernacchie o, se ha studiato, a rutti.

 

Il contributo che il popolo giapponese può dare all’umanità risiede altrove, nei gesti sobri di chi, attraverso il linguaggio della sua gente, celebrava la bellezza che emana dall’Unica Verità.

 

Mi piace pensare che, in questo momento, Giusto Takayama stia servendo il matcha a San Pietro in Paradiso.

 

Taro Negishi

Corrispondente di Renovatio 21 da Tokyo

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