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Civiltà

«Ricostruire l’Italia», con i draghi della distruzione

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«Questo è l’orizzonte che abbiamo davanti. Dobbiamo disegnare e iniziare a costruire, in questi prossimi anni, l’Italia del dopo emergenza». È una delle frasi salienti del discorso di Mattarella per la sua rielezione, quello interrotto dal record repubblicano di applausi scroscianti.

 

C’è da dire che parla ad un Paese che la ricostruzione dopo il disastro, in qualche modo, la ricorda ancora. L’Italia subì i bombardamenti a tappeto angloamericani, i disastri militari, il tradimento dei suoi sovrani, il veleno della guerra civile, la fame, la disperazione, la sconfitta. Eppure, ce la fece. Ne uscì un Paese che rapidamente scalò le classifiche del PIL, divenendo una delle nazioni più prospere della Terra.

 

Dove erano rovine, furono fatte case. Dove erano acquitrini, sorsero industrie. Dove c’era la lacerazione, arrivò l’unità. Dov’era dolore, venne la pace. La ricostruzione post-bellica, in Italia, fu potente e indimenticabile.

 

La «ricostruzione» che abbiamo davanti non pare in nulla simile a quella del dopoguerra. Soprattutto, perché non è una vera ricostruzione. Essa è, innanzitutto, e sempre più dichiaratamente, distruzione

Ora, la «ricostruzione» che abbiamo davanti non pare in nulla simile a quella del dopoguerra. Soprattutto, perché non è una vera ricostruzione. Essa è, innanzitutto, e sempre più dichiaratamente, distruzione.

 

Non costruiranno case o industrie. Basta ricordare come, un anno fa, era ripartito il Recovery Fund: alle infrastrutture 27,7 miliardi, alla «digitalizzazione», 48,7 miliardi: il doppio. In breve, non si costruisce niente, fuori da qualche spettro digitale, immateriale e inutile a fini del benessere umano.

 

L’unità fra le genti della «ricostruzione» non ci sarà mai: perché, programmaticamente, si è scelta la lacerazione, la divisione sociale spinta sino all’apartheid, alla discriminazione biomolecolare, la meccanica del capro espiatorio per schiacciare la minoranza che può diventare – la storia dai Balcani al Ruanda ci dice: d’improvviso – pulizia etnica.

 

Cosa si può costruire, con un Paese così diviso?

 

Cosa si può costruire, se si pensa, prima che alla carne e alla materia, ai computer?

 

Come si può costruire, poi, con chi predica apertamente la distruzione?

 

L’unità fra le genti della «ricostruzione» non ci sarà mai: perché, programmaticamente, si è scelta la lacerazione, la divisione sociale spinta sino all’apartheid, alla discriminazione biomolecolare, la meccanica del capro espiatorio per schiacciare la minoranza che può diventare – la storia dai Balcani al Ruanda ci dice: d’improvviso – pulizia etnica

Poco sotto il presidente, durante il suo discorso da applausometro, c’era il vero vincitore di questa elezione presidenziale: Mario Draghi. Egli, compreso che i partiti in questo momento non riuscivano a convergere su di lui (l’attuale inutilità della democrazia rappresentativa deve pure essere posta sotto dei limiti di pudore), ha probabilmente solo saltato un giro, cioè mezzo giro. Il testimone gli sarà passato più avanti.

 

Draghi è uno che la distruzione la conosce: anzi, possiamo dire che la teorizza, la invoca. Almeno, leggendo quanto va pubblicando.

 

Draghi è membro senior del Group of Thirty, il «Gruppo dei 30», talvolta abbreviato in G30, è un organismo internazionale di finanzieri e accademici che vogliono «approfondire la comprensione delle questioni economiche e finanziarie e ad esaminare le conseguenze delle decisioni prese nel settore pubblico e privato».

 

È qualcosa di più di una lobby (anche se ha indirizzo a Washington in K Street, la celebre via dei lobbisti), di un think tank, di un club di ricconi laureati. Il G30 raccoglie il livello più alto dei decisori economici del pianeta.

 

Il consorzio elitista fu creato decenni fa dalla Rockefeller Foundation, uno dei veicoli di una delle famiglie che in questo ultimo secolo e mezzo ha fatto di più per la diffusione della Cultura della Morte. Non è il solo ente creato dalla famiglia: un altro, per esempio, è la Commissione Trilaterale, ad una riunione plenaria della quale nell’aprile 2016 Mattarella portò il suo saluto presidenziale, elogiando il ruolo di David Rockefeller (il sito del Quirinale lo riporta tuttora senza la prima «e»)

 

I Rockefeller iniziarono gli incontri dei G30 nel 1963 a Villa Serbelloni a Bellagio, tanto che battezzarono l’operazione Bellagio Group. In quegli anni, va ricordato, i Rockefeller partecipavano attivamente ad un altro consesso di potenti miliardari e potenti internazionali raccolti in Italia, il Club di Roma di Aurelio Peccei, il cui fine era (ed è) la riduzione della popolazione terrestre.

 

Draghi è uno che la distruzione la conosce: anzi, possiamo dire che la teorizza, la invoca. Almeno, leggendo quanto va pubblicando.

Dal 1978 il Bellagio Group prese il nome di Group of Thirty. Il suo primo presidente fu Johannes Witteveen, l’ex amministratore delegato del Fondo Monetario Internazionale.

 

Mario Draghi ne è parte. È segnato come membro senior. Nel gennaio 2018, l’Ombudsman («Mediatore europeo») Emily O’Reilly chiese che Draghi, allora presidente della BCE, si dimettesse dal gruppo perché la sua appartenenza all’organizzazione poteva essere interpretata come un’influenza indebita.

 

Il gruppo dei 30 è ancora pienamente attivo. Nel 2011 fece uscire uno studio sulle cause della crisi finanziaria globale del 2008. Nel dicembre 2020 stampò un altro saggio di analisi che riguardava i cambiamenti economici del mondo post-COVID. Il testo, Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-COVID, segna il nome di Mario Draghi come co-presidente del comitato direttivo. Nelle prime pagine del volume Draghi scrive, con tanto di firma autografa, anche alcuni ringraziamenti «per conto del Gruppo dei Trenta».

 

È in questo scritto che compare la formula della «distruzione creativa». Si tratta di un famoso concetto elaborato nel secolo scorso dall’economista austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950). Egli nel 1919, cioè a pochi mesi dalla disfatta dell’Impero asburgico, fu nominato ministro delle finanze della Prima Repubblica d’Austria. Durò poco, passò a dirigere una banca, e poi tornò all’insegnamento, per poi emigrare oltreoceano nel 1932 ed approdare alla prestigiosa università di Harvard, dove insegnò fino alla morte.

 

Nel celebre trattato economico Capitalismo, socialismo e democrazia (1942), Schumpeter scrive che la distruzione creatrice (schöpferische Zerstörung) è il «processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendo senza sosta quella vecchia e creando sempre una nuova».

 

La distruzione di interi comparti professionali è per l’economista austriaco la condizione ideale per l’economia e la sua necessaria evoluzione. Colpisce che questo inno alla distruzione fu scritto – negli USA – quando la distruzione era più che un concetto, era la realtà dell’Europa devastata dalla guerra. In quel momento la distruzione non era un’astrazione. La distruzione non creava: uccideva milioni di uomini. Eppure, Schumpeter, trovava consono scrivere e pubblicare l’idea della distruzione come via all’innovazione.

 

Schumpeter, nel documento 2020 del Gruppo dei 30 del dicembre 2020, è citato appena una volta. Ma tutto il testo è imperniato sul suo concetto di distruzione creatrice.

 

In sintesi, nel testo dell’ensemble di Draghi si dice che nella prima fase della crisi pandemica il problema era la liquidità, la prossima crisi sarà quella delle insolvenze. I governi non potranno salvare tutte le attività e quindi devono scegliere chi deve vivere e chi deve morire. Una sorta di dilemma del triage – i dottori che, anche in tempi COVID, decidono chi vive e chi muore – dove però si è sicuri che si deve lasciare che si compia la strage.

 

«Il settore delle imprese che emerge da questa crisi non dovrebbe apparire esattamente come quello precedente a causa degli effetti permanenti della crisi e dell’accelerazione delle tendenze esistenti come la digitalizzazione da parte della pandemia» scrive il testo.

«I governi dovrebbero incoraggiare le trasformazioni e gli adeguamenti aziendali necessari o desiderabili nell’occupazione. Ciò potrebbe richiedere una certa quantità di “distruzione creativa”»

 

«I governi dovrebbero incoraggiare le trasformazioni e gli adeguamenti aziendali necessari o desiderabili nell’occupazione. Ciò potrebbe richiedere una certa quantità di “distruzione creativa” poiché alcune aziende si restringono o chiudono e ne aprono di nuove e poiché alcuni lavoratori devono spostarsi tra aziende e settori, con un’adeguata riqualificazione e assistenza transitoria. Tuttavia, anche i governi che sostengono tale adattamento in linea di principio potrebbero dover adottare misure per gestire i tempi della distruzione creativa per tenere conto degli effetti a catena di cambiamenti eccessivamente rapidi, come i regimi di insolvenza che potrebbero essere sopraffatti».

 

In un paragrafo intitolato «Apocalisse Zombie» è scritto si parla di «zombie-firms», aziende-zombie create dalla crisi finanziaria, viene posta, per bocca di un banchiere singaporese, la domanda finale: «Continuerete (…) ad usare le finanze pubbliche per sostenere le aziende o lascerete che la distruzione creativa accada  à la Schumpeter?».

 

In pratica, stanno dicendo: volenti o nolenti, ricostruiremo l’intero sistema economico come vogliamo noi: o meglio, lo resetteremo. Gli Stati daranno una mano, ammortizzeranno il cambiamento, conterranno gli effetti spiacevoli della disoccupazione, con milioni di lavoratori che andranno «riqualificati». Le aziende che boccheggeranno stremate dai lockdown imposti, saranno definite «zombie», e come tali trattate: morti viventi, creature inutili e non più umane, buone, appunto, per dei massacri che garantiscono l’assenza del senso di colpa, come nei film e serie TV sui morti viventi.

 

Assomiglia un po’ ai discorsi sul Grande Reset, sì – del resto, Draghi e Schwab alle volte si incontrano, come pochi mesi fa.

 

Assomiglia a un grande piano che, più che ricostruire, al momento sembra interessato a distruggere. O meglio: può ricostruire solo se distrugge, e distrugge perché vuole ricostruire secondo un suo preciso disegno.

Assomiglia a un grande piano che, più che ricostruire, al momento sembra interessato a distruggere. O meglio: può ricostruire solo se distrugge, e distrugge perché vuole ricostruire secondo un suo preciso disegno. Solve et coagula

 

Solve et coagula. Il principio della trasformazione secondo l’alchimia, un’idea poi passata a certe importanti società segrete ancora ben rappresentate in Italia.

 

Siamo anni luce dalle gioie e dai sudori della ricostruzione postbellica. Siamo infinitamente lontani dall’Italia che costruisce le autostrade, dalle famiglie che risparmiano e comprano l’auto, da Enrico Mattei, dall’Inter del Mago Herrera.

 

È chiaro quale sia il motivo profondo, metafisico, metapolitico, metastorico, di tutto questo. È la grande inversione realizzata: la Civiltà, da latrice dell’Essere, è divenuta barbarie del Niente.

 

È chiaro quale sia il motivo profondo, metafisico, metapolitico, metastorico, di tutto questo. È la grande inversione realizzata: la Civiltà, da latrice dell’Essere, è divenuta barbarie del Niente. Laddove il mondo viveva secondo un concetto di espansione – cosa vero perfino nel mondo marxista-leninista – ora vi è stata innestata una contrazione

Laddove il mondo viveva secondo un concetto di espansione – cosa vero perfino nel mondo marxista-leninista – ora vi è stata innestata una contrazione.

 

Siamo troppi, dobbiamo ridurre il numero degli esseri umani sulla terra – magari non figliando, o uccidendo subito la prossima generazione di esseri umani. Inquiniamo troppo, dobbiamo ridurre i consumi, o ridurre perfino la quantità di luce solare – partendo sempre dall’idea di diminuire subito la popolazione.

 

Questi concetti dei «limiti dello sviluppo» furono di fatto escogitati da Peccei e dal suo Club di Roma emanato dai Rockefeller (famiglia dove l’antinatalismo è trasmesso geneticamente). Peccei commissionò al politecnico bostoniano MIT uno studio che dimostrasse che l’espansione della Civiltà, nell’industria e nella popolazione, era finita: gli scienziati obbedirono, e consegnarono uno studio che prevedeva l’imminente esaurirsi delle risorse, e il collasso del pianeta, tra guerre e carestie, a causa della sovrappopolazione.

 

Erano tutte previsioni false, ovviamente: tuttavia, da queste menzogne scaturì l’ecologia moderna, che, come il Gruppo dei 30, ha in mente costantemente la distruzione dell’opera dell’uomo, parassita del pianeta.

 

Tale processo di contrazione dell’universo umano possiamo chiamarlo Necrocultura, o Cultura della Morte. Essa è la forza di gravità del mondo nuovo: ogni cosa tende naturalmente verso l’uccisione o la degradazione dell’essere umano.

 

Vuoi far l’amore? Solo con la contraccezione. Sei incinta? Puoi abortire. Sei malato? Puoi chiedere di suicidarti con l’eutanasia. Hai fatto un incidente di macchina? Ti espianteranno gli organi quando il tuo cuore ancora batte.

 

La Necrocultura è più che un concetto, una lettura del reale: essa è il fondamento di intere istituzioni, politiche e – ce ne rendiamo conto soprattutto ora – sanitarie. Essa è la base ideologica, latente o patente, di interi partiti, di interi Paesi

La Necrocultura è più che un concetto, una lettura del reale: essa è il fondamento di intere istituzioni, politiche e – ce ne rendiamo conto soprattutto ora – sanitarie. Essa è la base ideologica, latente o patente, di interi partiti, di interi Paesi.

 

La Necrocultura è distruzione creatrice – anche se non crea nulla e uccide tanto, lo scopo del resto è quello. È la guerra senza pietà all’Imago Dei.

 

Pensate al legame, sempre più sincrono nel mondo moderno, tra distruzione e riproduzione. Se vuoi avere in braccio un bambino fatto in provetta, devi uccidere almeno qualche decina di embrioni.  Distruzione creativa, distruzione procreativa: devi ammazzare per far nascere un bambino. Devi fare, per quanto invisibili nei loro vetrini in laboratorio, veri sacrifici umani per portarti a casa il bebè che corona il tuo sogno di famigliuola borghese arredata a dovere.

 

Il lettore può capire ora anche il legame che esiste tra la distruzione creatrice del bambino in provetta e la pandemia COVID. I cinesi, grazie alla bioingegneria CRISPR, hanno già creato (almeno) due gemelle immuni all’HIV. Quanto ci vorrà perché proporranno bambini geneticamente programmati per l’immunità al SARS-nCoV-2? Quanto ci vorrà prima che il bambino bioingegnerizzato anti-COVID (o anti-Ebola, Marburg, etc.) divenga obbligatorio? Perché, ricordatelo, «sarà come vaccinarli»…

 

Quindi, quale ecatombe di embrioni sacrificheremo alla distruzione procreatrice?

 

Milioni.

 

Come possiamo ricostruire le nostre città, se sono liberi i draghi della distruzione?

E questo massacro non servirà a «costruire l’Italia», ma a maledire la Civiltà.

 

Accettiamo la morte di oceani di embrioni. Accettiamo la morte di migliaia di aziende. Accettiamo la morte di ogni nostro diritto, perfino di quello di respirare. Accettiamo il nostro stesso massacro.

 

Come è possibile che, quindi, crediamo ad una qualche «ricostruzione»?

 

Come possiamo ricostruire le nostre città, se sono liberi i draghi della distruzione?

 

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

Immagine di LazyRemnant via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported (CC BY-NC-ND 3.0)

Civiltà

Gli Stati Uniti mettono in guardia l’Europa dalla «cancellazione della civiltà»

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L’Europa rischia la «cancellazione della civiltà», in quanto i leader del continente promuovono la censura, soffocano le voci dissidenti e ignorano gli effetti dell’immigrazione incontrollata, avverte la nuova Strategia per la sicurezza nazionale diffusa dall’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump.

 

Il testo, dal tono aspro e innovativo, reso pubblico venerdì, rileva che, sebbene l’Unione Europea mostri chiari segnali di stagnazione economica, è il suo deterioramento culturale e politico a costituire una minaccia ben più grave.

 

La strategia denuncia le scelte migratorie dell’UE, la repressione dell’opposizione, i vincoli alla libertà di espressione, il crollo della natalità e la «perdita di identità nazionali e di autostima», ammonendo che il Vecchio Continente potrebbe risultare «irriconoscibile entro 20 anni o anche meno».

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Secondo il documento, numerosi governi europei stanno «intensificando i loro sforzi lungo la traiettoria attuale», mentre Washington auspica che l’Europa «rimanga europea» e si liberi dal «soffocamento regolatorio», un’allusione evidente alle tensioni transatlantiche sulle norme digitali dell’UE, accusate di penalizzare colossi tech americani come Microsoft, Google e Meta.

 

Tra le priorità degli Stati Uniti figura il «coltivare la resistenza alla traiettoria odierna dell’Europa all’interno delle nazioni europee», precisa il testo.

 

La strategia trumpiana esalta inoltre l’emergere dei «partiti patriottici europei» come fonte di «grande ottimismo», alludendo al boom di consensi per le formazioni euroscettiche di destra che invocano restrizioni ferree ai flussi migratori in tutto il blocco.

 

Il documento sentenzia che «l’era delle migrazioni di massa è conclusa». Sostiene che questi flussi massicci abbiano prosciugato le risorse, alimentato la criminalità e minato la coesione sociale, con l’obiettivo americano di un ordine globale in cui gli Stati sovrani «collaborino per bloccare anziché solo gestire» i movimenti migratori.

 

Tale posizione si inserisce nel contesto delle spinte di Trump affinché i partner europei della NATO incrementino le spese per la difesa. In passato, il presidente aveva ventilato di non tutelare i «paesi inadempienti» in caso di aggressioni, qualora non avessero accolto le sue istanze. Durante un summit europeo all’inizio dell’anno, l’alleanza ha approvato un piano per elevare la spesa complessiva in difesa fino al 5% del PIL, superando di gran lunga la soglia del 2% a lungo stabilita dalla NATO.

 

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Civiltà

Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica

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Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.   Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.   Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.

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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.   Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.   Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.   Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.   Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.   O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.   Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.   Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.   Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».   Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.

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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.   Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.   Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.   Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.   Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.   Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.   la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.   La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.   Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.   Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.   Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.   Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.

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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.   Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.   Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.   Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».   E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.   Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.   Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.   Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.

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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.   Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.   Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.   Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.   Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.   Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.   Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.   Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.   Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.   Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.   Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.   Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».   Patrizia Fermani

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Civiltà

Chiediamo l’abolizione degli assessorati al traffico

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Renovatio 21 propone una soluzione apparentemente drastica, ma invero assai realistica, ad uno dei problemi che affligge l’uomo moderno: il traffico.

 

Non si parla di una questione da niente, e ci rendiamo conto che essa pertiene propriamente alla catastrofe del mondo odierno, e proprio per questo serve una modifica radicale di carattere, soprattutto, istituzionale.

 

Lo aveva capito il genio di Marshall McLuhan: «La strada è la fase comica dell’era meccanica (…) Il traffico è l’aspetto comico della città» (Gli Strumenti del comunicare, 1964). Il culmine comico dell’era dell’industria: la civiltà costruisce strade ed automobili per muoversi in libertà e rapidità, e si ritrova imbottigliata per ore, innervosita, massacrata da miriadi di leggi, restrizioni, multe.

 

Il traffico è un fenomeno generatore di caos e dolore, di isterie e sprechi – il tutto subito sulla nostra pelle, ogni singolo giorno – al quale nessuno sembra trovare soluzione, soprattutto quanti sarebbero preposti a risolverlo. Costoro sembrano invece, consapevoli o no, impegnati nell’aggravarsi del dramma.

 

Davanti a noi abbiamo la degradazione continua, inarrestabile della mobilità urbana. È difficile trovare qualcuno che possa dire che il traffico è migliorato, o che una soluzione azzeccata adottata su una qualche strada non sia stata poi azzerata da una scelta successiva, calata, come tutte, dall’alto, sul cittadino schiavo inerme.

 

Crediamo che uno dei motivi di tale regressione diacronica ed ubiqua sua l’esistenza dei cosiddetti assessorati al traffico, che si chiamano in vari modi (uffici mobilità, dipartimento dei trasporti, direzione viabilità), ma che sono tutti costruiti attorno ad uno assunto semplice: spendere un determinato budget per cambiare le strade.

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Probabilmente la questione è davvero così semplice: nell’impossibilità di non spendere l’ammontare di danaro assegnato (grande tabù per qualsiasi ente pubblico: i soldi che risparmi non generano un premio, ma una diminuzione della cifra che arriva l’anno dopo) gli assessori e i loro scherani non possono che mettere mano ovunque, con decisioni a volte incomprensibili, a volte ideologiche, e quasi sempre dannosissime.

 

Ecco che, perché l’assessorato deve fare qualcosa, invertono un senso unico, cagionando il disorientamento totale del cittadino automunito, che d’un tratto si trova non solo multato, ma anche al centro di un pericolo per sé e per gli altri. Ricordiamo le tecniche dei missionari: cambiare la forma del villaggio è aprire la mente dell’indigeno all’altro, qui tuttavia non c’è il Vangelo a dover essere diffuso, ma il nulla di una decisione burocratica stupida e gratuita – gratuita per modo di dire, perché anche per un’inezia del genere vi è un costo non indifferente per il contribuente.

 

Ecco che, perché l’assessore deve finire sui giornali, l’area viene pedonalizzata: ZTL laddove prima potevi passare per portare i figli a scuola o fermarti nel negozietto (che ne patirà, ovvio, le conseguenze). Sempre considerando che le ZTL sono da vedersi come riserve indiane degli elettori dei partiti di sinistra, gli unici che possono permettersi di vivere in centro.

 

Ecco che, perché l’assessore deve far carriere nel partitello con le fisime ecologiche, laddove c’erano due corsie ce ne troviamo una sola, con una, perennemente vuota, riservata ad autobus che fuori dalle ore di scuola sono oramai solo utilizzati da immigrati che con grande probabilità non pagano il biglietto e in caso potrebbero pure picchiare il controllore (succede, lo sapete). Il risultato è, giocoforza, un imbottigliamento ancora più ferale, un’eterogenesi dei fini per politica ecofascista che è, in ultima analisi, solo una mossa di PR inutile quanto oscena.

 

Ecco la sparizione di parcheggi gratuiti – grande segno della fine della Civiltà – così da scoraggiare, come da comandamento di Aurelio Peccei, l’uso dell’auto che produce anidride carbonica, orrenda sostanza per qualche ragione alla base della chimica organica e quindi della vita stessa, soprattutto quella umana. Chi va all’Estero – non in Giappone, ma in un Paese limitrofo come l’Austria – sogna vedendo la quantità di parcheggi sotterranei creati attorno alle cittadine, senza tanti problemi per gli scavi al punto che, con recente politica, il rampollo Porsche si è fatto il suo tunnel che lo porta da casa al centro di Salisburgo in un batter d’occhio.

 

Il superamento del traffico attraverso la dimensione infera è stato compreso, con la solita mistura di genio e concretezza, da Elon Musk con la sua Boring Company: se vuoi migliorare la tragedia del traffico l’unico modo di farlo è andando verso il basso, anche se sembrerebbe che il prossimo misterioso modello di Tesla, la Roadster, potrebbe poter operare verso l’alto. Noi, tuttavia, non abbiamo Elone, abbiamo gli assessori al traffico.

 

E poi, i capolavori – sempre trainati da ideologia verde, interessi cinesi impliciti e tagli di nastro sul giornale – della «micromobilità», con i monopattini e le bici «free-floating» rovinate, abbandonate e utilizzate, in larghissima parte, dalle masse di eleganti africani, che magari con esse si spostano con più agilità per certe loro attività, come lo spaccio di droga: massì, vuoi non pagargli, oltre che vitto-alloggio-acqua-gas elettricità-internet-telefonino-avvocato-sanità-bei vestiti alla moda anche dei mezzi di trasporto con cui, appunto, possono evitare il traffico? Tipo: un inseguimento di una gazzella della Polizia nel traffico contro un criminale in monopattino, come finisce? L’eterogenesi dei fini qui non è nemmeno comica, è tragicomica, o tragica e basta.

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Potremmo continuare con la lista. Laddove c’era una rotonda che funzionava meglio di un semaforo (ogni tanto, qualcuna la devono azzeccare, ma non dura) ecco che te la cancellano e ci mettono cordoli, fiori, pianticelle, magari perfino un monumento orrendo o una fontana lercia.

 

Laddove c’era una strada larga, eccotela divorata da un nuovo mega-marciapiede che non usa nessuno, se non i ciclofascisti zeloti, i quali tuttavia divengono presto vittime della follia viabilitaria, con sensi unici e corsie di trenta centimentri anche per i velocipedi.

 

Laddove c’era una strada dritta che in 50-100 metri ti portava allo snodo, loro, per farti arrivare al medesimo punto, ti costruiscono una deviazione di mezzo chilometro che ti manda sotto un supermercato, un tribunale, una palestra, una pizzeria, appartamenti di lusso e uffici pubblici – insomma un bel progetto di complessone che qualcuno deve aver costruito e in qualche modo venduto, con tutti incuranti del fatto che se all’esame di urbanistica all’Università proponevi una cosa del genere venivi bocciato seduta stante.

 

Laddove devono costruire una tangenziale, magari con decenni di ritardo, ti rendi conto che si dimenticano di fare le uscite nei comuni che attraversa e ci fanno l’immissione con uno stop invece di una corsia di accelerazione, con il risultato che entri a 0 km/h in una strada dove da sinistra ti arriva uno che viaggia ufficialmente a 70-90 km/h, che poi divengono sempre 100-120 km/h se non, nel caso del tizio con l’Audi in leasing, cinque vaccini e chissà cos’altro in corpo, perfino di più.

 

E non parliamo dei casi di corruzione che saltano fuori in quegli uffici – dove ci sono appalti, ci sono mazzette, uno pensa. Ma non è nemmeno questo il punto: nel disastro, gli effetti della malizia possono essere indistinguibili da quelli dell’ebetudine conclamata dei soggetti e del sistema.

 

È difficile, davvero, trovare qualcosa di positivo in quello che fanno quanti sono politicamente preposti al miglioramento della mobilità – cioè dell’esistenza – dei cittadini. Il motivo, lo ripetiamo, è strutturale: gli assessorati sono macchine strutturate per modificare, cioè complicare, le cose. In pratica, sono l’essenza stessa della burocrazia, con effetti fisici però immediati e devastanti.

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La soluzione a tutto questo potrebbe essere davvero facile-facile: abolizione completa degli assessorati al traffico. Con essa, si perderebbe l’incentivo strutturale a cambiare sempre e comunque tutto, e a valutare con più responsabilità le innovazioni.

 

Immaginiamo che se la viabilità fosse fra le mansioni dirette del sindaco, cioè se la responsabilità fosse la sua, le decisioni sulla mobilità sarebbero più dosate e sensate, perché esposte al popolo con il quale il primo cittadino ha certo un rapporto più diretto, nonché mediato dal voto, passato e soprattutto futuro.

 

È una proposta che non sappiamo se sia già stata fatta. Certo si possono valutare cose anche più radicali: come la punizione per quanti complicano e distruggono la viabilità delle nostre città. Lo sappiamo, è la mancanza di castigo che crea aberrazioni ed orrori, con la devastazione di tanta parte d’Italia dovuta a questo principio di irresponsabilità della casta politico-burocratica.

 

La realtà è che, per ottenere qualcosa, il cittadino sincero-democratico automunito deve arrabbiarsi molto di più. Non basta ringhiare al bar, o imprecare dentro l’abitacolo, magari pure, a certe latitudini, suonando il clacsone. Non serve alimentare un sistema che, alla fine, continua a produrre assessori al traffico, e traffico.

 

No, serve davvero di più. Perché l’auto è davvero un mezzo di libertà, e aggiungiamo, di vita – l’auto è uno strumento della famiglia. Chi vuole togliervela – come quelli di Davos, le cui idee percolano poi giù giù fino al vostro assessorino – odia la vita, odia voi e i vostri figli.

 

Chiedere l’abolizione degli assessorati al traffico ci sembra il minimo che possiamo fare se vogliamo sul serio lottare per la Civiltà.

 

Roberto Dal Bosco

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