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Renovatio 21 recensisce House of Gucci
Era un film atteso, perché della sua produzione si parlava da decenni. Era atteso anche e soprattutto perché era una grande prova hollywoodiana su una vicenda tutta nostrana. Infine, nonostante gli inciampi degli ultimi tempi, non si può non aspettarsi un film rilevante da Ridley Scott.
La pellicola, invece, rivela tantissimo altro: dalla sciatteria all’agenda gender che oramai informano le opere anche dei maestri – quelli che, dall’alto dei loro milioni e delle loro carriere, dovrebbero essere liberi – a considerazioni più oscure riguardo alla distruzione delle imprese famigliari a vantaggio dei grandi fondi allineati, come da verbo del Grande Reset e, soprattutto, a pensieri che facciamo da queste parti riguardo la Cultura della Morte e all’innalzamento dei carnefici.
Andiamo con ordine.
House of Gucci è la storia degli ultimi tre lustri circa della famiglia Gucci, gli imprenditori della pelletteria di superlusso famosi in tutto il mondo. Il film è tratto dal libro omonimo di Sara Gay Forden. Nei 15 e passa anni da quando fu iniziato lo sviluppo, si sono altalenati una serqua di sceneggiatori nonché vari registi (il taiwanese Wong Kar-Wai, la figlia di Scott Jordan) prima che il lavoro tornasse nelle mani di Ridley Scott. Sembrava, ad un certo punto, che i protagonisti dovessero essere Angelina Jolie e Leonardo di Caprio, poi Margot Robbie – che da Lady Gaga è un bel salto.
Lady Gaga, vero nome Stefani Germanotta, è quindi la scelta finale per interpretare Patrizia Reggiani, la donna che per la giustizia italiana è mandante dell’omicidio del marito Maurizio Gucci, qui interpretato dalle volto poco comprensibile di Adam Driver, che per qualche motivo è ovunque ad Hollywood.
La figlia Allegra Gucci, che ha pubblicato pochi mesi fa un libro con la sua verità e che per qualche motivo non è presente nel film (dove è mostrata solo la sorella Alessandra: perché? Lettera degli avvocati? Oppure strane necessità morali di sceneggiatura per mostrare un divorzio senza troppi figli?) ha messo in risalto varie incongruenze, inaccettabili per la famiglia: il padre non era un viziato inconsistente, la madre non era una che si imbucava alla feste, era una corteggiata nella Milano di quegli anni.
Noi aggiungiamo: a vedere le foto, non si capisce cosa c’entri la Reggiani con la bruttezza esibita dal personaggio di Lady Gaga.
È omesso pure il fatto che la Reggiani aveva subito un’operazione al cervello pochi anni prima. Una questione non di poco conto se si vuole raccontare una storia, ma forse qui prevalgono altre logiche.
Di nostro, abbiano notato altre cose assurde, davvero di sciatteria impensabile. Le maghe non parlavano in TV a inizio anni Ottanta, perché la diretta per le TV private sarebbe arrivata un decennio dopo. In una scena, Maurizio Gucci legge il giornale nel lussuoso salotto: è Il Foglio, giornale che sarebbe nato un decennio e passa dopo, peraltro mostrato in modo illogico (la prima pagina è una pagina centrale).
Sono quisquilie sì. Tuttavia c’è anche, forse, un accenno ad una piccola storia nella storia che forse in qualche modo si voleva pure significare, visto che è presente nel libro della Sara Gay Forden: il contatto con Delfo Zorzi, l’ex ordinovista lungamente indagato per Piazza Fontana ora assolto da tutte le accuse in via definitiva, poi imprenditore di estremo successo di commercio di Alta Moda in Giappone, Paese di cui è divenuto cittadino. Il Giappone ha un suo ruolo nella pellicola: vediamo Aldo Gucci (Al Pacino) che discute con il fratello Rodolfo Gucci (Jeremy Irons) l’espansione del marchio nel Sol Levante, dove sarebbe pronto ad aprire un negozio in un grande centro commerciale, dice di voler imparare la lingua, nella boutique di Nuova York saluta calorosamente clienti nipponici.
All’epoca dell’omicidio alcuni giornali come L’Unità scrissero che Zorzi, che allora era ancora un babau per la stampa italiana, aveva prestato a Maurizio Gucci 30 miliardi di lire. Tuttavia, nel sommario già dicevano che il PM confermava il prestito ma negava ci fosse «una pista nera nelle indagini sul delitto di via Palestro».
Che vi fosse l’intenzione di andare lì?
No. L’idea alla base, che dovrebbe essere altamente offensiva per l’Italia e per la storia stessa, è quella che il cattivo nel film è il patriarcato famigliare italiano stesso. I Gucci, e Gucci come società, nella pellicola sono solo maschi. Secondo il racconto di Scott donne presenti sono o morte, o insignificanti, o sottomesse. La realtà è un’altra: il rilancio di Gucci si deve anche e soprattutto ad una donna, l’americana Dawn Mello, che fece la strategia di rebranding del gruppo.
Pazienza: bisogna invece far vedere Lady Gaga-Gucci trattata perennemente a pesci in faccia da questo mondo infame e maschilista (che osa pure giocare a palla in riva al Lago di Como), a suo modo viziato e infantile – perché maschio, finanche perché maschio italiano (Pacino e Jared Leto sono vere macchiette). Gli uomini le ricordano in continuazione che lei non ha voce in capitolo, che deve stare zitta e accettare quello che decidono per lei.
Non è impossibile, a questo punto, solidarizzare con la protagonista, che ricordiamolo è mandante di un assassinio. Pensiamo alla scena in cui Patrizia, abbandonata dal marito che torna endogamicamente alle amiche d’infanzia di Sankt Moritz, aspetta fuori di casa il marito e lo implora di tornare, perché la figlia parla solo di lui, il quale risponde che l’ha vista due settimana fa…
Ci chiediamo, a questo punto se non fosse questo il fine di tutto: farci avanzare nella parte più oscura….
La presenza di Lady Gaga qui non sarebbe quindi casuale: è la tizia dei video esoterici con sessuomania rituale; è quella che, con endorsement dell’ambasciata USA a Roma, fece, da idolo LGBT, un concertone al Gay Pride in faccia al Vaticano; è quella ripresa con Marina Abramovic in foto inquietanti dove rimira persone immerse come in vasche di sangue.
Lady Gaga and Marina Abramović ????☠????????
Just your average party for the ????️
I’m sure the theme of eating people isn’t really on the menu ???? pic.twitter.com/ji5sykRGdl— ???????????????????? ???????????????????????????????? (@VerumBellator1) January 15, 2022
Per aver pubblicato questa foto su Facebook (allora non eravamo bannati) fummo ricoperti di insulti da parte di quelli che sembravano proprio utenti con profilo arcobalenato o vacanze a Mykonos, che copincollavano sulla nostra pagina il testo, in tedesco, di una canzone della loro beniamina, Scheise («merda» in tedesco). Con evidenza, la trovavano una cosa giusta ed interessante da fare, soprattutto ci colpì come l’attacco sembrava coordinato. Avevamo toccato la loro divina, quel ciclico simbolo di femminilità estrema (Wanda Osiris, Mina, la Bertè) e talvolta bruttina (la Callas, Madonna, Dalida, Bjork) a cui paiono volersi sottomettere generazione dopo generazione le popolazioni omosessuali.
Insomma, Lady Gaga è una diva ctonia, una dea della trasgressione che vira però verso il nero. Chi meglio di lei per canalizzare la storia di un’assassina nel bruto mondo patriarcale? Le speculazioni sul fatto che le due dovessero incontrarsi, come si usa tra attore e personaggio reale, furono messe a tacere dalla produzione, specie dopo che la Reggiani stessa aveva detto all’ANSA di essere «infastidita dal fatto che Lady Gaga interpreti me nel nuovo film di Ridley Scott senza aver avuto la considerazione e la sensibilità per venirmi incontro».
La possibilità, tuttavia, da qualche parte, pur se evitata, era contemplabile.
Il britannico Sunday Mirror riportò una fonte anonima che disse che «questo film è stato il progetto di passione di Gaga per molto tempo. È determinata a perfezionare il ruolo e ha lavorato tutte le ore per interpretare correttamente Patrizia (…) I produttori hanno deciso che non avrebbe incontrato Patrizia».
Perché: «I produttori erano molto consapevoli di non voler avallare o sostenere il terribile crimine commesso da Patrizia».
Tra Lady Gaga e la Reggiani poteva scattare quindi un qualcosa che, ad esempio, non scatterebbe qualora al posto della Germanotta vi fosse stata Margo Robbie, che di fatto ha interpretato in tranquillità una mandante di violenze nel film sulla pattinatrice olimpica terribile del film Tonya.
Questo, forse, per il carattere oscuro del personaggio della Gaga, per le immagini ricoperta di sangue, le accuse di satanismo, tali da cacciare i suoi concerti fuori dall’Indonesia?
Non lo sappiamo, ma crediamo con fermezza nella corsa del mondo moderno verso la comprensione, se non l’innalzamento morale, dei carnefici. Tanti segni ce lo fanno credere: l’enfasi assoluta sulla difesa dei condannati a morte (purché non in Arabia Saudita…), la curiosità sempre più morbosa verso i protagonisti di cronaca nera (la Franzoni, Erika e Omar, il caso di Garlasco, Amanda Knox), le lettere d’amore, con proposta di matrimonio, che i serial killer ricevono in carcere.
Essendo convinti che il mondo stai andando incontro al ritorno del sacrificio umano, sappiamo che questa meccanica è inevitabile: nel rovescio della Civiltà cristiana, la vittima, l’Agnello, è dimenticata, mentre il lupo, il carnefice, il latore della morte è esaltato. Solo tramite la pubblicità dell’assassinio, la sua umanizzazione, il mondo arriverà ad uno stadio dove la dignità umana è liquefatta, e quindi l’umanità diventa spendibile, sfruttabile, controllabile e terminabile a piacimento.
Questo è uno dei pensieri che possiamo fare vedendo che dobbiamo empatizzare con una Lady Gaga che interpreta una vedova nera. Non possiamo vedervi un ulteriore piccolo passo degli idoli della Necrocultura e dell’insegnamento sanguinario che vogliono trasmetterci, come da ordine del loro maestro.
Tuttavia, aggiungiamo una considerazione di storia occulta ulteriore.
Il film è leggibile anche come il crepuscolo non solo di una famiglia (e già qui, ci sarebbe da dire quanto il messaggio sia chiaro), ma della stessa industria famigliare manifatturiera. L’entrata del fondo del Bahrein Investcorp, che prima rileva un ramo della famiglia e poi rileva tutto il resto, non è vista nel film come un atto soverchiante che pone fine ad una dinastia, ma come qualcosa di, in fondo, naturale. La finanziarizzazione dell’industria dei gruppi famigliari, sostituiti dal capitale globale, insomma, non è poi una così brutta cosa.
Ciò ha un significato preciso. Investcorp nel 1999 vendette Gucci al gruppo Kering, i parigini che hanno in mano, oltre a Gucci, Yves Saint Laurent, Balenciaga, Alexander McQueen, Bottega Veneta, Boucheron, Brioni, Pomellato, Puma.
Si tratta, quindi di un’altra Holding internazionale, sia pure verticalizzata sulla moda di lusso.
La nuora del capo del gruppo, François Pinault (il magnate che si è impadronito, fra le altre cose, di Punta della Dogana a Venezia), è nel film sui Gucci: l’attrice Salma Hayek interpreta il ruolo di Pina, la maga che avrebbe presentato alla Reggiani i sicari. Non deve sorprendere che, quindi, il film abbia scatenato le reazioni della famiglia, ma non dell’azienda che porta quel nome, la quale anzi avrebbe cooperato con la produzione dando accesso all’archivio di abiti e arredo.
Si tratta di quell’allineamento delle grandi aziende verso una grande, unica narrazione, la convergenza che chiamano «Grande Reset». A dispetto degli esseri umani coinvolti, l’ultima parola, grazie al megafono della comunicazione di media, cinema e arte, l’avrà sempre il grande capitale. Gucci, quindi, è la storia secondo il potere economico che detiene il marchio e secondo Hollywood – in un continuum la cui giunzione è la Salma Hayek – non di quello che dicono le famiglie.
Tra parentesi, non dovrebbe sorprendere nemmeno che nella pellicola alla 56enne Hayek-Pinault sia consentito di mostrare il sempre abbondante seno svestito, ricoperto appena da un sottile strato di fango.
Chiudiamo con un altro pezzo di storia occulta, apparentemente più leggero.
Ridley Scott, il regista che è stato quasi due decenni dietro a questo progetto, ha un legame preciso con la Milano di quegli anni: sua moglie, Giannina Facio.
Forse la ricordate come moglie del Gladiatore, o presenza in altri film di Scott come Hannibal, Black Hawk Dawn, Un’ottima annata, Prometheus.
In verità, i più anziani la possono ricordare come presenza nella TV commerciale italiana di quegli anni, ad esempio nella trasmissione di Italia 1 erede di Drive In chiamata Emilio (1989), dove la Facio conduceva con il commissarrio Zuzzurro e Gaspare ed Enrico Beruschi.
La Facio, costaricana, nella Milano dell’esplosione della TV commerciale assumeva, in quel demi-monde di star e starlette, un ruolo centrale. Uno dei suoi amici era il Lele Mora degli esordi, che molto in realtà deve alla Facio.
«Come riusciva ad attovagliare così tante vedette?» ha chiesto Stefano Lorenzetto in un’intervista a Mora due anni fa. «Me le portava una cara amica, Giannina Facio, la ex di Julio Iglesias, attuale compagna di Ridley Scott, il regista di Blade Runner e Il gladiatore. Aveva addirittura preso il domicilio fiscale a casa mia».
Secondo un libro di Fabrizio Corona, fu Mora in versione «cupido» a fare incontrare il cineasta – tra i massimi viventi – e la Facio, ora produttrice di House of Gucci.
Scott, insomma, ha in casa un po’ di Milano di quegli anni, tuttavia è più vicino alla Milano di Lele Mora che a quella della dinastia Gucci. Non crediamo siano la stessa cosa, anche se una delle cose non espresse bene nel film è che dall’alta società al mondo più basso del crimine le distanze si possono annullare in un baleno.
Renovatio 21 dà tutta la sua solidarietà alla famiglia Gucci. La produzione di kolossal per celebrare la fine delle imprese famigliari è un orrore che dovrebbe offendere tutti noi.
Come ci offende anche qui la bruttezza cinematica di Lady Gaga, che giustamente ha cantato all’inaugurazione della presidenza Biden, che è la presidenza del mondo della menzogna, della decadenza, della corruzione, della perversione e della demenza.
Roberto Dal Bosco
Immagine promozionale dal sito MGM pubblicata secondo Fair Use.
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Nuova serie gay sui militari americani: il Pentagono contro Netflix
Il Pentagono ha accusato Netflix di produrre «spazzatura woke» per una sua nuova serie incentrata su un marine gay. La serie ha debuttato durante la campagna del presidente Donald Trump e del Segretario alla Guerra Pete Hegseth per eliminare la «cultura woke» dall’esercito.
Kingsley Wilson, portavoce del dipartimento della Guerra, ha dichiarato a Entertainment Weekly che il Pentagono non appoggia «l’agenda ideologica» di Netflix. L’esercito americano «non scenderà a compromessi sui nostri standard, a differenza di Netflix, la cui leadership produce e fornisce costantemente spazzatura woke al proprio pubblico e ai bambini», ha detto Kingsley, sottolineando che il Pentagono si concentra sul «ripristino dell’etica del guerriero».
«I nostri standard generali sono elitari, uniformi e neutrali rispetto al sesso, perché al peso di uno zaino o di un essere umano non importa se sei un uomo, una donna, gay o eterosessuale», ha aggiunto la portavoce.
Lo Hegseth ha introdotto nuovi requisiti fisici «di livello maschile» per affrontare situazioni di «vita o morte» in battaglia, affermando: «Gli standard devono essere uniformi, neutri rispetto al genere ed elevati. Altrimenti, non sono standard» criticando approcci alternativi che «fanno uccidere i nostri figli e le nostre figlie». A febbraio, il Segretario alla Guerra ha definito il motto «la diversità è la nostra forza» come il «più stupido» nella storia militare.
Il Pentagono lotta da anni con carenze di reclutamento, registrando nel 2023 un deficit di 15.000 unità, il peggiore dalla fine della leva obbligatoria nel 1973. I repubblicani attribuiscono il problema all’eccessiva enfasi sulla diversità a scapito della preparazione militare, come evidenziato da un rapporto del 2021 che criticava la Marina per aver prioritizzato la «consapevolezza» rispetto alla vittoria in guerra.
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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Da Nasser a Sting e i Police: il mistero di Miles Copeland, musicista e spia della CIA
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Amazon Prime Video rimuove tutte le armi e le Bond Girls dai poster dei film di 007. Poi ci ripensa
La piattaforma streaming di Amazon Prime Video ha recentemente rimosso tutte le armi e le Bond girl dalle locandine dei film di James Bond. Poi nelle ultime ore, sembra aver ripristinato la versione originale.
L’amata serie di pellicole di spionaggio 007, dove le pistole giuocavano un ruolo grafico sin dalle locandine, si trova ancora sotto il tallone della cultura woke, e quindi della censura e dell’orwelliana cancellazione della storia.
È ridicolo, e antistorico, vedere il comandante Bond a braccia conserte senza la sua arma (che è variata, dagli anni, da una Walther PPK a una Beretta forse di modello 418 o 950) impugnata disinvoltamente – un elemento che è parte fondamentale dello stesso personaggio, elegante e pericoloso, come il mondo in cui la spy-story promette di immergere lo spettatore.
Amazon had digitally removed all of the guns from James Bond movie art.
Next … they will probably eliminate any scenes from the movies with guns.
Ridiculous. pic.twitter.com/PdMgKIKY2e
— Wall Street Mav (@WallStreetMav) October 3, 2025
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In particolare, tutte le armi sembravano essere state rimosse da immagini già note, tra cui un ritratto di Sean Connery con una pistola Walther PPK tra le braccia incrociate, utilizzato come foto pubblicitaria per la pellicola Dr. No e ora esposto alla National Portrait Gallery di Londra. Un poster teaser ampiamente visto per il film Spectre con Daniel Craig è stato apparentemente modificato per eliminare la pistola che tiene al fianco (sebbene la fondina ascellare indossata da Craig sia ancora visibile).
Un ritocco simile sembrava essere stato effettuato su un’immagine pubblicitaria di Roger Moore in Agente 007 Vivi e lascia morire, in cui Moore impugna una .44 Magnum, un allontanamento dalla tradizione di Bond di pistole relativamente piccole.
Le immagini modificate digitalmente dei poster originali dei film sono un insulto agli artisti che le hanno create e ai fan che le hanno guardate negli ultimi 63 anni – oltre che all’idea stessa che sta alla base del racconto di James Bond.
Notice in these Amazon #JamesBond digital posters they’ve removed all the guns and given awkward poses?
Welcome to a world where promoting James Bond 007 needs to be done without his sidearm. pic.twitter.com/3NGkxXShcn
— Chris (@GelNerd) October 2, 2025
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L’establishment progressista cerca di cancellare le armi dall’immaginario cinematografico classico, mentre il transgenderismo e i temi satanici vengono promossi in film e cartoni pensati per bambini.
Notizia delle ultime ore, Amazon si averci ripensato: dopo il pubblico clamore, le pistole sono tornate sulle locandine.
La mossa era arrivata dopo che Amazon ha acquisito i diritti del film acquistando gli studi MGM per un miliardo di dollari all’inizio di quest’anno e si appresta a lanciare un nuovo film diretto da Denis Villeneuve (il regista di The Arrival, Blade Runner 2049, e del recente, noiosissimo, Dune), scritto e diretto da Steven Knight, il cui nuovo attore di Bond deve ancora essere annunciato.
In passato si è speculato sull’arrivo di un Bond negro (si è fatto il nome del divo anglo-nigeriano Idris Elba) o di una Bonda. In realtà, una potente anticipazione era nell’ultimo film No Time to Die con Daniel Craig – la cui scelta come protagonista della serie, una ventina di anni fa, fu contestata da un gruppo di fan: è biondo – dove saltava fuori una agente MI6 nera e statuaria (tipo Grace Jones, per intenderci), seduttiva e letale anche più del Bond stesso.
No Time to Die sconvolse gli aficionados perché mostrava un atto incomprensibile per chi conosce la saga: la morte di James Bond, un fatto narratologicamente, archetipicamente inconcepibile, in quanto il tema profondo della serie è, senza dubbio alcuno, il mito dell’eroe invincibile.
La castrazione del carattere di 007 era presente nei film dell’era Craig anche in precedenza: il filosofo ratzingeriano coreano Byung-chul Han nel suo saggio La società della stanchezza indicava la stranezza di vedere in Skyfall (2012) un James Bond affaticato e depresso, con traumi psicanalitici che riemergono.
Il codice «007» è in realtà un riferimento preciso che il romanziere (e vero agente segreto) britannico Ian Fleming faceva agli intrecci tra l’occultismo e la storia di Albione, in particolare nel momento in cui Londra si separò dalla Chiesa cattolica e cioè dall’Europa.
Il primo «oo7» fu infatti John Dee (1527-1608), matematico, geografo, alchimista, astrologo, astronomo ed occultista inglese che organizzo i servizi segreti britannici nella sua visione di un nuovo mondo fatto di colonie dell’«Impero britannico», un’espressione che alcuni dicono sia stata coniata proprio da lui stesso.
Nei messaggi cifrati riservati alla regina Elisabetta I Dee apponeva la sigla «007» in cui gli zeri erano due occhi, il sette un numero fortunato.
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