Pensiero
Referendum sul divorzio 2025: quello di sindacati e compagni dalla realtà
Il referendum sul lavoro dipendente e l’invasione migratoria è fallito, tuttavia quello sul divorzio 2025 è riuscito: possiamo dire, senza ombra di dubbio, che non andando a votare gli italiani hanno ratificato il divorzio dalla realtà di istituzioni, enti, corpi sociali, vescovadi ed interi partiti politici.
Il mondo reale, ora è certificato democraticamente, è separato totalmente dai cascami sovietici della grande mangiatoia repubblicana: nessuno ha votato per i loro quesiti. Anzi andiamo oltre: nessuno sapeva davvero quali fossero.
Non è stato captato interesse, nessuno davvero, per il referendum – e questo al di là del fine settimana al mare. Attorno a me, non solo non c’è una persona che sia andata a votare, ma nemmeno che sapesse per cosa si votasse.
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Ognuno ha capito, senza bisogno di tante spiegazioni, che erano fisime sul feticcio del lavoro, cose di un mondo che sul serio non esiste più: mentre la gente arranca nella rovina post-industriale, ci parlano di licenziamenti illegittimi, giudici che decidono le indennità di licenziamento per le piccole imprese, contratti a tempo determinato, responsabilità di appaltatori e pure committenti sugli infortuni sul lavoro. Poi la ciliegina: 5 anni di residenza in Italia acciocché gli immigrati divengano cittadini italiani a tutti gli effetti.
Non uno di questi temi – e son dovuto andare a guardarmeli ora, ad urne chiuse, perché anche io ci ero volato sopra serenissimo – pare avere attinenza con la realtà. Non uno sembra essere allineato con il sentimento non solo della classe produttiva (compresi i dipendenti) ma del cittadino quivis de populo: rendiamo gli immigrati che stanno mettendo a ferro e fuoco le città subito italiani?
Maranza al voto? Sì: così poi però, invece che il Partito Maranza, ci troviamo il Partito Islamico – chiunque può fare questo pensiero, chiunque è finito per sentire ed ammettere, e in tutto il pianeta (FPO primo partito in Austria, Le Pen rampante in Francia, AfD in vetta in Germania… e Trump alla Casa Bianca) che la migrazione massiva è un problema da risolvere, non da facilitare.
Tutti lo sanno, tranne la sinistra e i sindacati. I quali, per fare bella figura e spingere sempre più gente a votare, hanno pensato bene pure di farsi vedere che litigano a sangue. Il che vuol dire, il divorzio ce lo hanno anche loro, infra: la parte piddina oramai metamorfosata in partito neoliberale e neoradicale di massa mai poteva votare per l’abrogazione del Jobs act.
Personalmente, mi impressiona non poco la questione dei sindacati. Ininfluenti sul piano politico (il referendum lo sancisce incontrovertibilmente), invisibili sul piano sociale (quante persone conoscete che sono state aiutate da un sindacato?), sono tuttavia realtà ricchissime, dove la cornucopia diviene sempre più visibile sullo sfondo di una società in sfacelo.
Voglio raccontarvi un angolo della mia città, quello dove svetta il palazzotto del principale sindacato, tetro ed eloquente con la sua colata di cemento grigio e il logo rosso che spunta in cielo: poco più avanti, c’era un’edicola, ora c’è uno dei quei buchi pieni di distributori automatici con dentro tutto: bibite, preservativi, cartucce per le sigarette elettroniche, latte, cioccolatini, olio da massaggio (che in realtà ipotizziamo serva agli invertiti, e non per massaggiarsi), cracker, e su tutto le casseforti cibernetiche che fanno da casella postale Amazon, grande simbolo del lavoro in Italia.
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A pochi metri, c’era un negozio di giocattoli e cartotecnica, durato decadi, con il nome di una famiglia cimbra: un posto eccezionale, che conoscevo da bambino, e in cui credo di aver fatto in tempo qualcosa anche per il primo figlio. Ora, invece, c’è una succursale del sindacato – la cui sede, ripetiamo, è lì a trenta metri – ci fanno dentro non so cosa, dalle vetrine si vede un bell’ufficio modernissimo, illuminato anche di notte, con il cartellino «Open» alla porta, neanche fosse un diner americano stile Happy Days.
In breve: il tessuto produttivo italiano è andato, da mo’, in malore: ma il sindacato proprio no. Anzi: può approfittare ed espandere il suo raggio. Ciò non vale solo per le quisquilie immobiliari. Il sindacato, in realtà, da diversi ha lanciato una vera e propria espansione morale. Ecco la crociata al Consiglio d’Europa per cancellare l’obiezione di coscienza sull’aborto in Italia.
Ecco la sollecitudine sui vaccini, che come abbiamo rilevato su Renovatio 21, è iniziata ben prima della pandemia, con ad esempio gli appelli ai pensionati (si allargano proprio: sono lavoratori, i pensionati?) a fare il vaccino antinfluenzale, nonostante in quegli anni ogni tanto sui giornali c’era qualche timido articolo sulla possibilità di qualche lotto assassino… per non parlare dei vaccini pediatrici (anche i bambini non sono lavoratori, ma pazienza), dove quando entrò in vigore la legge Lorenzin nel 2017 ad esempio a Palermo i sindacati lanciarono l’allarme sul fatto che c’erano pochi vaccinatori, bisognava assumere.
Insomma: come da piramide di Maslow, il sindacato è talmente ricco da aver soddisfatto tutti gli strati inferiori (bisogni fisiologici, bisogni di sicurezza, di appartenenza, di stima) e fluttua al vertice, dove può perseguire il fine dell’autorealizzazione: creatività, spiritualità moralità. Non c’è da ridere: questa è la sola spiegazione scientifica che trovo se penso al sindacato che si occupa di libero feticidio e sierizzazioni – e di concertoni rock, i quali, come detto dal poeta oramai lustri anni fa, in effetti hanno un po’ «rotto i coglioni».
Il sindacato è come un vecchio aristocratico, un nobile di quelli stile Gattopardo: il mondo è cambiato totalmente, e in teoria ti rifiuta pure, ma tu sai che invece starai lì, hai la sicurezza della tua ricchezza, e quindi può permetterti di correre dietro al superfluo, le amanti, le speculazioni di pensiero, etc.
Dobbiamo capire che tale nobiltà parassita ha in Italia un colpevole precipuo: la Costituzione. La quale essendo nata da comunisti e da democristiani (cioè, la specie creata in laboratorio da massoni e angloamericani per lasciare libero il passaggio a comunisti e liberali), è leggermente «sovietica», amava dire Silvio Berlusconi, al punto da mettere l’idolatria del lavoro in testa alla Carta stessa, e poi a dettagliare il goscismo istituzionali in altri articoli.
Come l’articolo 39: «L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».
In pratica, dice la Costituzione più bella dello mondo, sindacato libero! Sindacati per tutti! Ma allora, perché sono così pochi? Perché non sono usciti nuovi sindacati a fare concorrenza a quelli divorziati dalla realtà? Magari ci sono pure: ma non prendiamoci in giro, sappiamo tutti che siamo dinanzi a logiche di feudo, un feudo ultramiliardario, inscalfibile, intoccabile, invincibile.
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Vediamo, tuttavia, che a potersi permettere il divorzio dal reale: ecco che la Carta sovietica d’Italia prevede addirittura la creazione di un ente che talmente tante persone potrebbero definire inutile da farci sopra un referendum – anche quello fallito, forse a causa del giovane borioso premier-genio che aveva accluso il voto per abolire il Senato. Parliamo, ovviamente, del CNEL.
Articolo 99 della Costituzione della Repubblica Italiana: «Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa». Ebbene sì, il CNEL ha copertura costituzionale. Noi, confessiamo apertamente, non abbiamo idea di cosa faccia, e crediamo di non essere gli unici: ma, sapete, nella nostra Repubblica basta la parola «lavoro» e si può fare tutto, tranne obiettare i sieri genici sperimentali.
Un vecchio amico – nel senso, un signore anziano, che dal suo incarico per una grande azienda ne ha viste molte – mi diceva di un conoscente che, per ragioni a caso, era stato messo a fine carriera al CNEL, ed era felicissimo, perché neanche lui capiva bene quale fosse questo lavoro, ma lo stipendio arrivava. Non siamo in grado di verificare questa notizia, tuttavia, un po’ come per i quesiti del referendum 2025, come una immane porzione di popolazione italica non sentiamo l’impulso ad approfondire. Un altro ente, un altro turbine di leggi, uffici, salari, lontani anni luce dalla mia libertà, dalla difficoltà di tirare avanti la carretta tutti i mesi: ma chi davvero ha la forza per pensarci?
È quindi con questa mesta rassegnazione che registro come il divorzio in Italia sia stato approvato per referendum una seconda volta: il divorzio tra le istituzioni sociali – mica scordiamo l’ente sociale chiamato CEI, con il cardinale Zuppi che aveva invitato a recarsi alle urne – e la società stessa, che non vuole più saperne di loro e delle loro proposte, che non sono solo irrilevanti, sono con evidenza nocive, contrarie in tutto e per tutto alla percezione attuale del bene comune.
Lo sappiamo: la rassegnazione non va bene. Ma capiteci: abbiamo paura di dire qualsiasi cosa.
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Il sindacato può comunicare apertis verbis di non voler difendere i lavoratori (per il vaccino mRNA, e magari i soldini del Recovery Fund), può cambiare volti di leader che non ci colpiscono esattamente per il pensiero (il tizio con il diastema, il baffotto bianco, l’occhio mandorlato che scrive le prefazioni dei romanzi di Philip Dick, l’orsetto democristiano, la tizia flemmatica che fuma, quello professorale con gli occhiali spessi e la pelle tra il diafano e il rosso, il sindacalista metalmeccanico professionista), travasandoli poi in larga parte, autista e scorta e quant’altro, alle elezioni politiche per il voto feudale automatico dei soliti partiti della sinistra postcomunista e democristiana.
Come tutto questo non inorridisca i lavoratori, non sappiamo dirlo, ma tuttavia ora sappiamo che inorridisce assai gli elettori. I quali elettori, che non sono principi e conti che possono vivere di rendite politico-costituzionali, dalla realtà non vogliono divorziare, altri, loro non possono.
Come non possono permettersi di avere, a decidere per loro, qualcuno che, come Landini due anni fa, comizia letteralmente a favore del «Nuovo Ordine Mondiale». Cioè ciò che, con nel silenzio se non nel tifo del sindacato stesso, ha distrutto il loro lavoro, la loro famiglia, la loro esistenza.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Maritè Toledo via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0
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Pensiero
Separazione delle carriere, equivoci vecchi e nuovi. Appunti minimi in tema di future riforme della Giustizia
In mezzo alle turbolenze inaudite di questi tempi, è tornata ad alleviare le nostre pene la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Che è un po’ come la polemica calcistica nell’intervallo di un film dell’orrore. E tutto sommato servirebbe a sollevare gli animi se non implicasse cose un po’ più grandi di quelle a cui spesso viene ridotta.
Quella che ad alcuni può apparire una questione nuova, è invece una vecchia diatriba, andata un pò in sordina e tornata ora di prepotenza forse per dare lustro all’affaccendarsi di alcuni volenterosi, infaticabili riformatori della giustizia.
Il tema infatti poteva essere considerato in qualche misura obsoleto, perché emerso quando era in vigore il sistema processuale cancellato nel 1989 con la riforma del processo penale, o rivoluzione che dir si voglia in omaggio ad una data fatale per definizione.
Le ragioni addotte allora, per sostenere la necessità di una separazione delle carriere, si fondavano sulla vicinanza «fisica» tra i soggetti deputati alle funzioni giudicanti e requirenti che, alloggiati negli stessi ambienti giudiziari, potevano intrecciare rapporti troppo amicali, e quindi capaci di compromettere il corretto esercizio delle funzioni svolte rispettivamente da giudici e pubblici ministeri. Si trattava di una querelle che andava per la maggiore, ma confondeva gli effetti con una causa di ben altra portata: quella strutturale del cosiddetto «processo misto». Ovvero si vedeva la pagliuzza e non si vedeva la trave.
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Infatti in varie fasi processuali le funzioni del pubblico ministero venivano a confondersi o a sovrapporsi. Il giudice aveva poteri istruttori non dissimili da quelli del pubblico ministero mentre quest’ultimo, oltre ad essere titolare di una istruzione segreta, dalla quale per lungo tempo sono rimasti esclusi i difensori, anche se non pronunciava sentenze, era fornito di un importante potere decisorio «paragiurisdizionale», come quello di disporre misure cautelari, convalida di arresti e fermi etc.
Insomma, le possibili compromissioni e influenze reciproche, in bene o in male, non derivavano tanto dal fatto che i titolari dei diversi uffici potessero avere l’ abitudine di «prendere il caffè insieme». Derivavano semplicemente dal sistema processuale vigente. E non sarebbe valsa la separazione delle carriere ad ovviare agli inconvenienti di una commistione organica di funzioni e di poteri che di certo la separazione delle carriere non avrebbe potuto risolvere in alcun modo.
Semmai la formazione e l’incardinamento comune, che rendevano plausibile anche il passaggio da una funzione all’altra, passaggio ormai precluso dalla riforma Cartabia, portavano il vantaggio di evitare in qualche misura la sclerotizzazione della mentalità accusatoria, sempre in agguato in chi l’accusatore lo deve fare per mestiere e rischia perciò di trasformarsi in un irriducibile e messianico Javert. Un rischio sentito dallo stesso legislatore che da tempo ha previsto la possibilità per il pubblico ministero di chiedere l’assoluzione dell’imputato.
Ma il vero katechon contro la fissazione pregiudiziale di ogni attitudine critica poteva darsi e deve continuare ad essere riposto in quella solida e interiorizzata formazione giuridica e culturale capace di orientare ogni decisione sui valori etici superiori che il diritto dovrebbe tutelare, in sintonia con una forte etica personale.
Ora, con l’avvento della riforma del processo penale e l’adozione di un sistema radicalmente diverso da quello preesistente, l’esigenza di liberare certe funzioni da schemi anche mentali precostituiti dovrebbe essersi soddisfatta naturalmente. Infatti, nonostante successivi interventi legislativi abbiano ampliato nel tempo i poteri del pubblico ministero, tanto da richiamare alla memoria il vecchio schema della istruzione sommaria nelle fasi preliminari, l’attuale sistema accusatorio lo vede comunque nella scena dibattimentale davanti al giudice quale coprotagonista alla pari con la difesa.. Un quadro che avvalora quella capacità di equidistanza e neutralità, richiesta alle parti pubbliche, e di comprensione reciproca che viene dalla formazione giuridica comune a tutti i protagonisti di questa sacra rappresentazione triadica.
Insomma, all’esigenza di assicurare l’esercizio oggettivo della funzione dialettica richiesta dal sistema, risponde proprio quella formazione culturale comune che se da un lato fornisce a difensore, accusatore e giudice un imprescindibile linguaggio tecnico, dall’altro impone ai due soggetti incardinati nella amministrazione pubblica, la visione più elevata dell’interesse superiore della giustizia al quale hanno giurato di volersi votare. E in questa chiave va considerata come una contraddizione e una perversione dei principi cardine del sistema, quella separazione delle carriere che viene sostenuta con argomenti di lana caprina e della limpidezza delle cui finalità è legittimo dubitare.
Anzitutto proprio la auspicata costituzione di un corpo separato quasi in forma corporativa porterebbe di certo a ricostituire quella figura quasi metafisica dello accusatore per antonomasia e a prescindere, che il sistema sembra aver voluto seppellire. Infatti sembra soprattutto tradire quella aspirazione alla oggettività dello accertamento del fatto penalmente rilevante che il sistema accusatorio pretende di assicurare per quanto possibile.
Tanto più che si ventila già la prospettiva di concorsi i separati e di una formazione ad hoc. Cosicché quella base concettuale e quella identità e unità di linguaggio comune a tutti gli operatori giuridici verrebbe ad essere spezzato all’origine dallo scavo di un fossato pregiudiziale.
E a questo proposito si verifica un fenomeno abbastanza curioso: sono proprio i fautori della separazione delle carriere ad invocare, forse per una suggestione linguistica, il principio accusatorio come presupposto logico che imporrebbe quella separazione,.
Ma si tratta di una argomentazione senza fondamento razionale dal momento che quello cosiddetto «accusatorio», al di là delle assonanze che appunto sembrano suggestionare il presidente delle Camere Penali (come è risultato nel corso di una vivace polemica con un componente della Associazione Nazionale Magistrati), è un criterio di tecnica processuale che attiene alla formazione viva della prova davanti al giudice grazie allo scambio dialettico tra accusa e difesa.
Una tecnica che dovrebbe servire meglio all’ accertamento della verità nel processo e per questo non inchioda affatto il pubblico ministero ad una destinale missione accusatoria, volta ad ottenere ad ogni costo la condanna dell’imputato. Del resto, come dicevamo, la legge stessa prevede da molto tempo che la richiesta di assoluzione possa venire da parte del pubblico ministero sulla base di prove a favore.
Il procedimento si svolge per fasi separate, senza commistione di funzioni, e senza precostituzione di prove. Il principio «accusatorio» che domina la fase dibattimentale, quale tecnica per la formazione non precostituita della prova, non ha nulla a che fare con la supposta esigenza di separare le carriere e assicurare una maggiore indipendenza tra le diverse funzioni processuali attraverso un diverso incardinamento amministrativo dei rispettivi magistrati.
Anzi, proprio questo renderebbe non «neutrale» il magistrato che, incardinato in un organismo diverso da quello canonico, diverrebbe un «accusatore» precostituito. Non per nulla secondo Cassese sostenitore convinto della riforma, occorrerebbe «una preparazione diversificata che miri a formare attitudini diverse: una psicologia giudiziaria secondo capacità e competenze».
Insomma proprio il contrario di quello che serve per una oculata e distaccata ricerca della verità processuale, secondo le finalità proprie della tecnica dialogica del sistema «accusatorio».
Anche in questa figura ipostatizzata dell’accusatore preformato, torna prepotente il modello del processo americano che tanto ha suggestionato il pubblico italiano ai tempi delle serie televisive di Perry Mason. Come è noto la stessa riforma del 1989 ha tratto ispirazione dai modelli anglosassoni, per poi dovere fare i conti con la realtà della propria tradizione giuridica e di una diversa base socioculturale. Ma l’adozione acritica di modelli estranei non è mai senza innocue conseguenze.
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Sta di fatto che ora, come un tempo, la separazione delle carriere avrebbe lo scopo edificante di combattere il malcostume all’interno della amministrazione della giustizia, indotto dalle camarille interne o sul piano delle dipendenze politiche esterne.
Ma anche se questa riforma avesse veramente uno scopo moralizzatore e non, come appare probabile, quello esattamente contrario, di andare incontro ad un più esplicito condizionamento politico, resta il fatto che le leggi, come le famose gride manzoniane, di per sé non moralizzano un bel nulla ma e e quando servono da paravento al medesimo potere politico che le sciorina.
E uno degli indizi che si tratti di una riforma che va in senso contrario alle esigenze di indipendenza di un parte della magistratura e soprattutto a quelle di una corretta applicazione dei principi di garanzia di cui si è dotato il processo penale, è fornito dallo sdoppiamento degli organi di controllo previsto dalla riforma, che oltre a radicalizzare pericolosi antagonismi corporativi, rafforzerebbero le radicalizzazioni politiche e partitiche all’interno di una amministrazione della giustizia per la quale è prescritta in Costituzione la indipendenza politica.
Per la serenità e oculatezza dei giudizi, occorrono coscienze eticamente e culturalmente formate, libere da precondizionamenti e dai lacci di ruoli assegnati e da pregiudizi di sorta, dai nodi scorsoi delle «competenze» che, con buona pace di Cassese, oggi hanno assunto il senso profondo del vuoto a perdere.
Patrizia Fermani
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Immagine: Antonio Canova (1757–1822), La Giustizia (1792), Gallerie d’Italia, Milano
Immagine Fondazione Cariplo di via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported; immagine tagliata
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