Civiltà
Questa è la Terra desolata

Renovatio 21 pubblica questi estratti del capolavoro di Thomas Stearns Eliot, il poema La Terra desolata (1922). Il testo, composto dal poeta dopo un esaurimento nervoso, è da molti considerato una vetta della letteratura moderna, e al contempo un lucido simbolo dell’uomo del XX secolo annegato nel mondo moderno
Rileggendolo oggi, vediamo che tanti immagini evocate qui parlano anche all’uomo del XXI secolo, e all’esistenza ai tempi della Pandemia globale.
Il titolo originale, The Wasteland, rimanda al tema della «terra desolata» (la terre gaste) tipico della poesia epica medievali. Questa terra guasta è un territorio devastato, sterile e mortale che separa i cavalieri dal Santo Graal; lo stesso Eliot è stato fortemente influenzato dalla studiosa di folklore Jessie Weston, in particolare della sua Indagine sul Sacro Graal (From ritual to romance, 1920), dove ipotizzava che le avventure dei cavalieri in cerca della santa coppa fossero la riedizione di antichi culti di fecondità, cioè celebrazioni di un’umanità che cercava di riportare ordine e prosperità dinanzi ai ciclici sconvolgimenti dell’universo.
Il mondo moderno, quel XX secolo di cui il poeta aveva vissuto il primo ventennio, mostrava già i segni di una crisi che avrebbe portato a catastrofi ed ecatombi, e la Civiltà Occidentale già era sulla strada della desolazione, o, più propriamente, della sterilità.
Non sappiamo quale effetto provochi a chi ci segue la lettura di questi versi. Noi crediamo che solo chi ha ora il coraggio di affrontare la realtà della devastazione, e il suo ciclo eterno, possa avere le energie e la volontà di riportare l’equilibrio nell’universo.
Crediamo che la poesia aiuti, perché dobbiamo fortificare il «sangue che scuote i nostri cuori», cercare la salvezza materiale di cui hanno bisogno le nostre genti, vedere con certezza il deserto che ci si para dinanzi, e i demòni che ci sbarreranno la strada.
La terra desolata deve essere guarita. Siamo noi tutti a doverla attraversarla per ritrovare la fecondità della Vita.
I. La sepoltura dei morti
Aprile è il più crudele dei mesi
Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
(…)
Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono
Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,
Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto
E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L’arida pietra nessun suono d’acque.
C’è solo ombra sotto questa roccia rossa
Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,
E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L’arida pietra nessun suono d’acque.
C’è solo ombra sotto questa roccia rossa,
(Venite all’ombra di questa roccia rossa),
E io vi mostrerò qualcosa di diverso
Dall’ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi passi, o dall’ombra
Vostra che a sera incontro a voi si leva;
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura.
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura
(…)
Città irreale,
Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno,
Città irreale,
Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno,
Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta,
Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta.
(…)
II. Una partita a scacchi
(…)
Un bosco enorme sottomarino nutrito di rame
Bruciava verde e arancio, incorniciato dalla pietra colorata,
Nella cui luce mesta un delfino scolpito nuotava.
(…)
Forme attonite
Si affacciavano chine imponendo silenzio nella stanza chiusa.
E altri arbusti di tempo disseccati
Erano dispiegati sui muri a raccontare; forme attonite
Si affacciavano chine imponendo silenzio nella stanza chiusa.
Scalpicciavano passi sulla scala.
(…)
«Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa»
Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.
Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.
III. Il sermone del fuoco
La tenda del fiume è rotta: le ultime dita delle foglie
S’afferrano e affondano dentro la riva umida. Il vento
Incrocia non udito sulla terra bruna. Le ninfe son partite.
(…)
Dei bianchi corpi ignudi sul suolo molle e basso
E ossa, gettate in una piccola soffitta bassa e arida,
Smosse solo dal piede del topo, un anno dietro l’altro.
Ma alle mie spalle in una fredda raffica odo
Lo scricchiolo delle ossa, e il ghigno che fende da un orecchio all’altro.
Un topo si insinuò con lentezza fra la vegetazione
Strascicando il suo viscido ventre sulla riva
Mentre stavo pescando nel canale tetro
Una sera d’inverno dietro il gasometro
Meditando sul naufragio del re mio fratello
E sulla morte del re mio padre, prima di lui.
Dei bianchi corpi ignudi sul suolo molle e basso
E ossa, gettate in una piccola soffitta bassa e arida,
Smosse solo dal piede del topo, un anno dietro l’altro.
(…)
Città irreale
Sotto la nebbia bruna di un meriggio invernale
(…)
Il fiume trasuda
Olio e catrame
Le chiatte scivolano
Con la marea che si volge
Vele rosse
Ampie
Sottovento, ruotano su pesanti alberature.
Città irreale
Sotto la nebbia bruna di un meriggio invernale
(…)
Poi a Cartagine venni
Ardere ardere ardere ardere
O Signore Tu mi cogli
O Signore Tu cogli
bruciando
IV. La morte per acqua
Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
Dopo il silenzio gelido nei giardini
Dopo l’angoscia in luoghi petrosi
Le grida e i pianti
La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
Del tuono a primavera su monti lontani
Colui che era vivo ora è morto
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo
Con un po’ di pazienza
Phlebas il Fenicio, morto, da quindici giorni
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
E il profitto e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò l’ossa in sussurri. Come affiorava e affondava
Passò attraverso gli stadi della maturítà e della giovinezza
Procedendo nel vortice.
(…)
V. Ciò che disse il tuono
Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
Dopo il silenzio gelido nei giardini
Dopo l’angoscia in luoghi petrosi
Le grida e i pianti
La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
Del tuono a primavera su monti lontani
Colui che era vivo ora è morto
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo
Con un po’ di pazienza
Qui non c’è acqua ma soltanto roccia
Roccia e non acqua e la strada di sabbia
La strada che serpeggia lassù fra le montagne
Che sono montagne di roccia senz’acqua
Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
Vi fosse almeno acqua fra la roccia
Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia
Non c’è neppure solitudine fra i monti
Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
Da porte di case di fango screpolato
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia
Non c’è neppure solitudine fra i monti
Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
Da porte di case di fango screpolato
(…)
Cos’è quel suono alto nell’aria
Quel mormorio di lamento materno
Chi sono quelle orde incappucciate che sciamano
Su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata
Accerchiata soltanto dal piatto orizzonte
Qual è quella città sulle montagne
Che si spacca e si riforma e scoppia nell’aria violetta
Torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
Irreali
Torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
Irreali
Una donna distese i suoi capelli lunghi e neri
E sviolinò su quelle corde un bisbiglio di musica
E pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta
Squittivano, e battevano le ali
E strisciavano a capo all’ingiù lungo un muro annerito
E capovolte nell’aria c’erano torri
Squillanti di campane che rammentano, e segnavano le ore
E voci che cantano dalle cisterne vuote e dai pozzi ormai secchi.
E pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta
Squittivano, e battevano le ali
E strisciavano a capo all’ingiù lungo un muro annerito
E capovolte nell’aria c’erano torri
In questa desolata spelonca fra i monti
Nella fievole luce della luna, l’erba fruscia
Sulle tombe sommosse, attorno alla cappella
C’è la cappella vuota, dimora solo del vento.
Non ha finestre, la porta oscilla,
Aride ossa non fanno male ad alcuno.
(…)
Amico mio sangue che scuote il mio cuore
L’ardimento terribile di un attimo di resa
Nelle nostre stanze vuote
Che un’èra di prudenza non potrà mai ritrattare
Secondo questi dettami e per questo soltanto noi siamo esistiti, per questo
Che non si troverà nei nostri necrologi
O sulle scritte in memoria drappeggiate dal ragno benefico
O sotto i suggelli spezzati dal notaio scarno
Nelle nostre stanze vuote
(…)
C’è la cappella vuota, dimora solo del vento.
Girare nella porta una volta e girare una volta soltanto
Noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
Pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione
Solo al momento in cui la notte cade, rumori eterei
Noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
Pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione
(…)
Lietamente alla mano esperta con la vela e con il remo
Il mare era calmo, anche il tuo cuore avrebbe corrisposto
Lietamente, invitato, battendo obbediente
Alle mani che controllano.
Lietamente, invitato, battendo obbediente
Alle mani che controllano.
(…)
T.S. Eliot
Per questo collage di versi abbiamo utilizzato questa traduzione del poema reperibile in rete. Per chi può leggere nella lingua inglese, che a nostro giudizio rende mille volte di più il fascino rapinoso di questo componimento, il testo originale è possibile trovarlo qui.
Civiltà
La Civiltà è amare i nostri nonni

Francesco Rondolini è collaboratore e «complice» di Renovatio 21 da tantissimi anni. Francesco in questi giorni ha perso la nonna – a lui vanno le nostre più sentite condoglianze. Ci ha mandato questo testo sull’importanza dei nostri vecchi. Lo ripubblichiamo pensando a quanto sia vero, e giusto: il valore dei nonni – loro che hanno curato noi, noi che ora curiamo loro – non va dimenticato. Mai. Perché la Civiltà stessa dipende dall’amore che abbiamo per loro, e loro per noi.
Da sempre ho vissuto con i nonni e i genitori accompagnandoli fino all’ultimo giorno nelle loro rispettive sofferenze. Oggi siamo rimasti io e mia mamma.
Mia nonna, ultima rimasta, all’alba dei quasi cento anni se n’è andata serenamente. D’ora in poi mancherà quella routine giornaliera fatta di faccende domestiche in compagnia dei miei cari fino all’ultimo dei loro giorni, di concerto con il mio lavoro. Accudire e coccolare una persona anziana e bisognosa, è stato un privilegio raro che mi obbliga a ringraziare Dio ogni giorno per il miracolo che mi ha concesso di poterci convivere per oltre quarant’anni.
Un tempo speso per accumulare tradizione, sapienza, affetto, amore, coccole, gioie, ma anche dolori e difficoltà. La missione che mi sono trovato è stata senza apparente scelta: rimanere al fianco delle persone a me più care.
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Dopo la perdita di mia nonna, molte cose sono cambiate in un attimo, primo fra tutte, la fine di un’era della vita. Gli scherzi, i dialoghi mattutini dicendosi sempre le stesse cose, il prendersi cura, l’affetto reciproco, davano quello che è l’essenza stessa della vita, ossia la vicinanza sentimentale, la presenza, la condivisione di un qualcosa che con altri è impossibile condividere.
Una ricorrenza edificata dagli stessi gesti che dettano le giornate e danno un senso profondo alla quotidianità. Il valore prezioso dei nonni, tanto più se vivono nella stessa casa, è incommensurabile. La crescita, l’educazione impartita, in taluni casi persino il lavoro in condivisione, sono tasselli che si aggiungono ad una crescita formativa e spirituale.
In una società utilitaristica come quella in cui viviamo, troppe volte gli anziani appaiono come un peso, un ostacolo ai nostri desideri, un impiccio alla soddisfazione dei nostri effimeri egoismi. L’egoismo come ragion d’essere; «io voglio vivere la mia vita», «pretendo di vivere la mia vita», oscurati da qualsiasi afflato di bontà e carità verso il prossimo.
La disumanità che ci vede lasciare «i fragili» abbandonati a loro stessi, senza una telefonata, senza una visita, senza una carezza, senza una parola di conforto. Tutto questo in una società «moderna e inclusiva» è del tutto inaccettabile, ma evidentemente l’inclusività non deve ledere la mia libertà personale, le mie abitudini, la mia palestra, i miei aperitivi, le mie notti in discoteca, perché «ho bisogno dei miei spazi e devo godermi la vita».
L’effimero che sovrasta il sacrificio della sostanza, un vizio perverso di questo secolo.
Nella «demenza pandemica» dei distanziamenti sociali ci hanno detto che per preservare i nostri nonni dovevamo stargli lontano, isolarli, come dichiarò il capo della sanità dello Stato australiano del Queensland ha detto ai nonni di «non avvicinarsi ai propri nipoti».
Come aveva riportato questo sito, in Giappone uno studio accademico aveva registrato un omicidio ogni otto giorni, spesso accompagnato dal suicidio dal coniuge o del figlio che forniva assistenza domiciliare all’anziano. L’isolamento da COVID portò all’esplosione del problema. Il nodo della carenza di personale qualificato in grado di offrire sostegno, ha sottolineato la difficoltà nel reperire badanti o personale disposto ad aiutarci nella gestione dei nostri cari.
Mi aveva impressionato, sempre su Renovatio 21, la storia di Yusuke Narita, assistente professore di economia a Yale , che ha lanciato una sua proposta per risolvere il problema dell’invecchiamento della popolazione giapponese: bassissimo tasso di nascite (come l’Italia) e il più alto debito pubblico nel mondo sviluppato portano il Paese alla prospettiva di non poter reggere il peso delle pensioni. «Sento che l’unica soluzione è abbastanza chiara. Alla fine, non può essere il suicidio di massa e il seppuku di massa degli anziani?»
Il Seppuku è un atto di sventramento rituale che era un codice tra i samurai disonorati nel XIX secolo. Per qualche ragione, in occidente lo chiamiamo harakiri, parola che è scritta con gli stessi ideogrammi ma è di letta in altro modo: il significato è lo stesso, il taglio della pancia, l’autosbudellamento rituale, quello che un po’ in tutto il mondo si conosce come peculiarità del Giappone con i suoi infiniti sensi del dovere.
Sempre qui abbiamo parlato degli abusi e delle violenze tanto che secondo una ricerca dell’Australian Institute of Family Studies (AIFS), quasi un anziano australiano su sei (14,8%) riferisce di aver subito abusi negli ultimi 12 mesi e solo circa un terzo di loro ha cercato aiuto.
L’utilitarismo nel tempo pandemico è arrivato al punto da sostenere che a fronte di un lieve aumento dei casi COVID, in Svizzera – in cui il suicidio assistito è cosa possibile – si tornò a parlare del protocollo medico per affrontare un eventuale sovraffollamento delle terapie intensive. Tale procedura avrebbe provveduto, in caso di scarsità di posti letto, che il medico competente poteva decidere di non accogliere «persone che avevano un’età superiore agli 85 anni» e persone con un’età superiore ai 75 anni che presentavano una di queste patologie: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica al 3º stadio, insufficienza cardiaca di classe NYHA superiore a 1 e un tempo di sopravvivenza stimato meno di 24 mesi.
La solitudine e l’abbandono degli anziani è un altro annoso problema. I dati ufficiali del governo canadese mostrano che circa la metà delle persone che non sono malati terminali, desideravano porre fine alla propria vita tramite il suicidio assistito di Stato.
L’Europa, l’ex culla della civiltà e della cristianità, per bocca del presidente del più grande fondo sanitario belga, Christian Mutualities (CM), ha chiesto una soluzione radicale al problema dell’invecchiamento della popolazione. Il politico Luc Van Gorp dichiarò ai media belgi che alle persone stanche della vita dovrebbe essere permesso di porvi fine.
La chiesa, la quale dovrebbe difendere e diffondere certi valori che inneggiano alla vita, spesso è assente e conforme allo spirito del tempo, anzi, a volte pare complice di certe «pratiche necroculturali» tanto che il Vaticano sembra aver spalancato definitivamente le porte all’eutanasia.
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Fortunatamente non tutti i porporati sono silenti su tali argomenti. L’arcivescovo Nikola Eterovic, nunzio apostolico in Germania, ha messo in guardia dal «suicidio» dell’Europa dovuto alla promozione dell’aborto, dell’eutanasia e dell’ideologia di genere. Monsignor Eterovic ha lanciato l’allarme durante un sermone nel suo paese d’origine, la Croazia, in merito alla grave crisi demografica che sta attraversando la civiltà occidentale, aggiungendo che l’Europa è afflitta da una «Cultura della morte» dovuta all’aborto e all’eutanasia. Vede il crollo demografico nella maggior parte dei paesi europei come un «segno di suicidio».
«La morte, preceduta dai dolori della malattia e dagli spasimi dell’agonia, è la separazione dell’anima dal corpo. Con la morte cessa il tempo della prova e comincia l’eternità», ci ricorda il bellissimo catechismo di San Pio X.
La vita è anche sofferenza e dolore. Non lasciamo i nostri anziani nel dolore dell’animo e della solitudine, non macchiamoci del peccato dell’indifferenza e dell’abbandono.
Io, con la mia nonna, ho fatto quanto dovevo – e non è stato nemmeno un sacrificio. Perché, in ultima, è facile capirlo: la civiltà si fonda davvero sull’amore. Anche quello per i nostri nonni.
Francesco Rondolini
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Civiltà
Professore universitario mette in guardia dall’«imperialismo cristiano europeo» nello spazio

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Civiltà
L’anarco-tirannia uccide: ieri ad Udine, domani sotto casa vostra

È morto Shinpei Tominaga, l’imprenditore giapponese – ma italiano d’adozione – colpito da un pugno a Udine mentre tentava di sedare una rissa.
L’uomo è mancato in ospedale dove era tenuto in vita dalle macchine. Il giapponese, che tentava di mettere fine ad un pestaggio che si stava consumando davanti ai suoi occhi, sarebbe stato colpito da un pugno sferrato da un 19enne veneto. Secondo quanto riportato, il ragazzo avrebbe confessato.
Il giovane veneto si sarebbe accompagnato da due amici, uno con un nome apparentemente nordafricano, un altro con un cognome che pare ghanese. Si tratta, secondo una TV locale, di una «banda ben nota», che «all’inizio era una baby gang che ora non è più così baby, anzi, ed è di una grande pericolosità per tutti i cittadini». Il trio si sarebbe scontrato «con due ucraini residenti a Pescara, in città per lavoro in un cantiere edile».
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Secondo RaiNews, il GIP «ha convalidato l’arresto per rissa aggravata di tutti e cinque i partecipanti».
La dinamica dei fatti sarebbe stata ricostruita dalla Questura «grazie ai testimoni e alle telecamere, pubbliche e private», scrive il sito della radiotelevisione pubblica italiana.
«Poco dopo le 3, due dei ragazzi veneti fumano per strada, conversando tranquillamente con i due ucraini. Sopraggiunge il terzo amico e cerca subito uno scontro fisico. Seguono degli spintoni». Uno degli ucraini «viene colpito con un pugno, rovina a terra, dove viene picchiato con pugni, calci e con la sedia di un bar».
«Uno dei tre corre a prendere un coltello da cucina nel bed and breakfast in cui alloggiavano, poco distante».
«Interviene una donna di passaggio, termina la prima fase dell’aggressione. I due ucraini si rifugiano nel vicino ristorante kebab. Vengono inseguiti dai tre ventenni».
È qui che avviene l’incontro fatale con l’imprenditore giapponese.
«Tominaga chiede loro di stare tranquilli, lasciar perdere. Un pugno al volto, e il 56enne cade per terra e sbatte violentemente la testa, finendo in arresto cardiaco». Non basta: sarebbero stati «aggrediti – anche con uno sgabello – i due amici che erano con Tominaga».
«I tre avevano già precedenti, a vario titolo, per rapina, lesioni e minacce».
Per quanto riguarda invece gli ucraini, «niente misura cautelare in carcere. Per uno di loro disposto il divieto di dimora in Friuli Venezia Giulia».
A parte il ragazzo che avrebbe sferrato il cazzotto fatale, parrebbe quindi una rissa tra immigrati. Una delle tante che si consumano, finendo al massimo in un trafiletto di cronaca locale (ma spesso neanche quello), in aree urbane oramai divenute preda della prepotenza dei «migranti» – le zone, in cui, generalmente, abbondano di kebabbari.
Stavolta però la notizia sta avendo eco nazionale, perché c’è scappato il morto, sul quale vogliamo dire due parole.
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Con Shinpei – che i giornali chiamano Shimpei, con la «m»: nella lingua giapponese il suono «mp» non esiste, ma non è escluso che se lo fosse italianizzato lui stesso – il nostro Paese non perde poco.
Innanzitutto, ricordiamo il suo lavoro: export di mobili verso il Giappone. Il mobile, in particolare la sedia, trova in Friuli un distretto di eccellenza, distrutto negli ultimi due decenni dalla concorrenza cinese. Tuttavia chi cerca la qualità della manifattura non si può far incantare dalla merce a buon mercato dei mandarini: il popolo del Sol Levante è noto per la sua appassionata pignoleria, da cui proviene il suo rispetto per l’Italia.
Shinpei, quindi, per l’Italia faceva un lavoro inestimabile: teneva in vita l’economia del prodotto di qualità, di per sé una vera resistenza alla globalizzazione, cioè alla cinesizzazione, che ha devastato la piccola e media impresa dell”Alta Italia consegnandoci all’incubo di disintegrazione della classe media e di deindustrializzante che stiamo vivendo.
Di più: Shinpei, che aveva la famiglia in Giappone, in realtà l’Italia la conosceva bene, e con probabilità l’amava davvero. Era cresciuto a Roma, dove il padre Kenichi Tominaga commercializzava i cartoni giapponesi divenuti centrali per l’infanzia di tanti italiani: con Orlando Corradi aveva fondato una casa di distribuzione chiamata Doro TV Merchandising, la cui sigla con il cagnolino è nei ricordi di moltissimi, che vendeva gli anime ai network televisivi pubblici e privati italiani. Goldrake e Conan li ha portati da noi il babbo di Shinpei.
Pezzi di storia, pezzi di relazioni vere, e profonde, tra due Paesi sviluppati, l’Italia e il Giappone, terminati dalla barbarie presente, che ora tocca senza problemi anche le città di provincia.
No, non si è al sicuro anche nella tranquilla cittadina a statuto speciale, nemmeno se sei con tre amici per strada, nemmeno se ti offri di aiutare un ragazzo insanguinato. Quello che ti aspetta, uscito di casa nell’Italia contemporanea, è la morte – un sacrificio gratuito sorto dalla fine della civiltà in Europa.
Su Renovatio 21 abbiamo adottato il concetto, introdotto nei primi anni Duemila dallo scrittore statunitense Samuel Todd Francis (1947-2005), chiamato «anarco-tirannia», cioè quella sorta di sintesi hegeliana in cui lo Stato moderno regola tirannicamente o oppressivamente la vita dei cittadini – tasse, multe, burocrazia – ma non è in grado, o non è disposto, a far rispettare le leggi fondamentali a protezione degli stessi. La rivolta etnica delle banlieue francesi della scorsa estate ne sono l’esempio lampante, lo è anche, se vogliamo, il grottesco e drammatico video in cui il poliziotto tedesco attacca il connazionale che stava tentando di contrastare un immigrato armato di coltello, il quale per ringraziamento pugnala e uccide lo stesso poliziotto.
C’èst à dire: nella condizione anarco-tirannica, il fisco ti insegue ovunque, la giustizia ti trascina in tribunale perché non portavi la mascherina o perché hai espresso idee dissonanti, ma se si tratta di fermare il ladro, il rapinatore, etc., non sembra che nessuno, viste le percentuali di reati rimasti impuniti, faccia davvero qualcosa. E qualora prenda il criminale, ben poco viene fatto perché il crimine non sia ripetuto. Nel caso presente, i tre fermati, ribadiamo, «avevano già precedenti, a vario titolo, per rapina, lesioni e minacce».
La legge, le forze dell’ordine, lo Stato non sembrano aver fatto moltissimo per fermare il crimine, e convertire il criminale, che prosegue ad agire come in assenza di un potere superiore a lui – appunto, l’anarchia. Anarchia per i criminali, tirannide per i cittadini comuni, incensurati, onesti, contribuenti. Va così.
Al di là dell’amarezza, è il caso di comprendere cosa significa materialmente – cioè, biologicamente – l’avvio dell’anarco-tirannia per le vostre vite. L’anarco-tirannide produce giocoforza la vostra insicurezza, perché minaccia direttamente i vostri corpi. Lo stato di anarchia è quello in cui, non valendo alcuna autorità, la violenza non può essere fermata.
Se ci fate caso, in tanti teorici dell’anarchia spunta ad un certo punto quest’idea del mondo che va portato verso il baccanale dionisiaco, con l’orgia e la violenza come grottesco strumento per testimoniare la supposta libertà dell’essere umano, slegato da ogni legge anche morale. Non è il caso che gli scritti di uno massimi teorici dell’anarchismo odierno, siano stati accusati di essere pedofili.
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E quindi, uscire di casa, per un bicchiere con gli amici, è di per sé un’azione pericolosa. La strada, la vita quotidiana stessa, diventa una minaccia. È già così in tante aree cittadini: circolarvi di notte è qualcosa di pericoloso. Ecco la formazione delle no-go zones, che sono – se mai ce n’era ulteriore bisogno – la dimostrazione fisica della possibilità di lasciare che si neghi la Costituzione, la nel suo articolo 16 prevede la libera circolazione dei cittadini su tutto il suolo nazionale.
Qui, nel contesto di aggressioni continue e randomatiche, non vi è solo la vostra incolumità fisica, in gioco: c’è la vostra natura morale ad essere pervertita, perché – come nella tragedia di Udine – le virtù cristiane, come tentare di terminare un conflitto o aiutare qualcuno in difficoltà, viene punita con il sangue.
È la fine dello stato di diritto, e al contempo della legge naturale, della fibra morale che unisce la società. È l’instaurazione del regime del più forte, trionfo ideale del nazismo, dove il debole deve accettare di essere sacrificato dall’aggressore vittorioso. È un’espressione che forse avete sentito dire a qualche bullo delle medie quando, oltre che l’obbiettivo, finiva per picchiare qualcun altro: «si è messo in mezzo».
Nel mondo nuovo, decristianizzato dall’immigrazione, dallo Stato e dal papato stesso, chi fa da paciere può finire ucciso. Quindi, meglio farsi gli affari propri, non intromettersi…
«Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinunzino all’azione», è un aforisma falsamente attribuito al filosofo settecentesco Edmund Burke, che tuttavia contiene una verità incontrovertibile. In una situazione di rischio fatale, chi mai ha voglia di fare la cosa giusta, e aiutare il prossimo?
Ecco raggiunto il vero scopo del processo dell’anarco-tirannide. Una società atomizzata, dove la paura costante del prossimo, dove l’ansia primaria per la sopravvivenza previene la possibilità della coesione sociale, così da lasciar liberi i padroni del vapore di far quel che vogliono senza timore di resistenza popolare.
Una società divenuta preda del malvagio è una società che può essere manipolata a piacimento. Nessun gruppo umano si oppone ai comandi del vertice, per quanto soverchianti e contraddittori: e lo abbiamo visto in pandemia. Quindi l’anarco-tirannia è, diciamo, una fase del Regno Sociale di Satana.
E quindi, cosa dobbiamo fare?
Quale politica per prevenire che le nostre vite divengano incubi?
Facciamo qualche semplice proposta.
Innanzitutto, si deve andare oltre al rifiuto più assoluto l’immigrazione: si deve chiedere, secondo una parola sempre più usata nel mondo germanofono, la remigrazione. Milioni e milioni di migranti, portati qui per infliggerci questa ingegneria sociale del male, vanno espulsi dal Paese, e questo a costo di svuotare interni quartieri.
Secondo: si deve istituire una forma di punizione dura al punto da essere considerata un vero deterrente: la galera, al momento, non lo è. Ricordiamo che, per quanto possano aver detto preti e papi postconciliari, la pena di morte non è contraria alla dottrina cattolica. E ricordiamo che i lavori forzati, che aiuterebbero economicamente il Paese, darebbero finalmente un senso all’esistenza dei carcerati: in passato si è detto che non è possibile farli lavorare davvero perché nella Costituzione, segnata dalla mentalità sovietica dei padri costituenti PCI permessa dai padri costituenti DC – c’è scritto che il lavoro va retribuito. Noi qui rammentiamo che anche quel tabù lo abbiamo perso: la Costituzione, negli ultimi anni, è stata violata in ogni modo.
Terzo: è necessario che qualcuno si intesti davvero il discorso politico sul porto d’armi inteso come nel concetto americano di carry: vi sono stati americani in cui si ha l’open carry, ossia la possibilità di circolare per strada visibilmente armati, in altri si ha il concealed carry, dove l’arma può essere portata seco quando nascosta. È inutile evitare il pensiero, nella giungla anarco-tirannica, l’unica deterrenza, e oltre l’unica forma di difesa, potrebbe divenire l’essere armati sempre ed ovunque – cosa triste ed orrenda, forse, ma anche qui, va così.
Purtroppo, causa di recenti incresciosi episodi consumatisi nel capodanno di parlamentari di Fratelli d’Italia, è difficile che il governo Meloni voglia avventurarsi in questa direzione, che pure dovrebbe essere la sua. C’è da ringraziare chi, secondo quanto ricostruito, avrebbe avuto l’idea geniale di tirare fuori una pistola in pubblico…
Quanto ai tempi che ci aspettano, abbiamo iniziato a scriverne un paio di anni fa. Quando terminerà la guerra ucraina, una quantità di veterani di Kiev, tra cui i molti tatuati neonazisti, potrebbero finire da noi. Forse esiliati, forse solo in tour a trovare la mamma, la zia, la sorella badante. Difficile che, a questo punto, quei ragazzi non si raggrupperanno in bande amalgamate da lingua, storia, esperienza (chi ha fatto la guerra insieme, non si molla mai) e credenza fanatico-religiosa nell’ideale ucronazista.
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C’è da dire che forse arriveranno anche armati, perché la quantità di armi inviate da USA e Paesi NATO – già finite a mafie in Finlandia, in Spagna, ai narcos in Messico, ai terroristi in Siria – è talmente vasta che qualcosa resterà con loro. A differenza del tranquillo contribuente italiano, la futura banda post-bellica – fenomeno cui abbiamo assistito negli anni Novanta con i gruppi di veterani della guerra di Bosnia che assaltavano le ville – sarà armata fino ai denti.
La situazione che si ingenererà per la giungla fuori da casa vostra ha un nome: gli strateghi dell’ISIS, nel loro mirabile manuale, la chiamavano Idarat at-Tawahhus, cioè «gestione della barbarie», o «gestione della ferocia».
I jihadisti teorici dello Stato Islamico concepivano il crollo di uno Stato come l’apertura di possibilità immani: dopo una prima fase che definivano «vessazione e potenziamento» – dove si estenua la popolazione di un territorio con estrema violenza e paura – si fa partire una seconda fase, dove, sulla scia del crollo dell’ordine dello Stato e l’instaurazione di una «legge della giungla» sempre più belluina, prevale tra i sopravvissuti pronti ad «accettare qualsiasi organizzazione, indipendentemente dal fatto che sia composta da persone buone o cattive».
Appunto: «fatti gli affari tuoi». «Non ti immischiare».
Siamo davvero disposti ad accettare la trasformazione della società in un incubo satanico?
Davvero vogliamo assistere alla fine della civiltà guardando inani dalla finestra, e pregando che il caos non arrivi a trucidare anche noi ed i nostri cari?
Quali gruppi umani possono davvero opporsi a questo processo di morte e distruzione?
Domande a cui bisogna rispondere quanto prima. Nel frattempo, le brave persone, gli innocenti, i virtuosi, vengono ammazzati, sacrificati all’altare dell’anarco-tirannide progettata per sottomettervi.
Roberto Dal Bosco
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Immagine d’archivio generata artificialmente
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