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«Quella Messa è intrinsecamente divina»: messaggio di Monsignor Viganò sulla Messa antica

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Renovatio 21 pubblica questo messaggio di Monsignor Carlo Maria Viganò.

 

 

 

 

DILECTA MEA

 

Voi che vi permettete di proibire la Santa Messa apostolica, l’avete mai celebrata?

 

Voi che dall’alto delle vostre cattedre di liturgia sentenziate piccati sulla «vecchia Messa», avete mai meditato le sue preghiere, i suoi riti, i suoi gesti antichi e sacri?

 

Me lo sono chiesto più volte, in questi ultimi anni: perché io stesso, che pure questa Messa ho conosciuto sin da piccolo; che quando ancora portavo i calzoni corti avevo imparato a servirla e a rispondere al celebrante, l’avevo quasi dimenticata e perduta. Introibo ad altare Dei. In ginocchio sui gelidi gradini dell’altare, prima di andare a scuola, in inverno. A sudare sotto la veste di chierichetto, nella canicola di certe giornate estive.

 

Voi che vi permettete di proibire la Santa Messa apostolica, l’avete mai celebrata?

L’avevo dimenticata, quella Messa, che pure fu quella della mia Ordinazione, il 24 Marzo 1968: un’epoca in cui si percepivano già le avvisaglie di quella rivoluzione che di lì a breve avrebbe privato la Chiesa del suo tesoro più prezioso per imporre un rito contraffatto. 

 

Ebbene, quella Messa che la riforma conciliare ha cancellato e proibito nei miei primi anni di Sacerdozio, rimaneva come un remoto ricordo, come il sorriso di una persona cara lontana, lo sguardo di un parente scomparso, il suono di una domenica con le sue campane, le sue voci amiche. Ma era qualcosa che riguardava la nostalgia, la giovinezza, l’entusiasmo di un’epoca in cui gli impegni ecclesiastici erano ancora di là da venire, in cui tutti volevamo credere che il mondo potesse risollevarsi dal dopoguerra e dalla minaccia del Comunismo con un rinnovato slancio spirituale.

 

Volevamo pensare che il benessere economico potesse in qualche modo accompagnarsi ad una rinascita morale e religiosa del Paese. Nonostante il Sessantotto, le occupazioni, il terrorismo, le Brigate Rosse, la crisi del Medioriente. Così, tra i mille impegni ecclesiastici e diplomatici, si era cristallizzato nella mia memoria il ricordo di qualcosa che in realtà rimaneva irrisolto, messo «momentaneamente» da parte per decenni. Qualcosa che pazientemente attendeva, con l’indulgenza che solo Dio usa nei nostri riguardi.

 

 

La mia decisione di denunciare gli scandali dei Prelati americani e della Curia Romana fu l’occasione che mi riportò a considerare, sotto un’altra luce, non solo il mio ruolo di Arcivescovo e di Nunzio Apostolico, ma anche l’anima di quel Sacerdozio che il servizio in Vaticano prima e da ultimo negli Stati Uniti, avevano in qualche modo lasciato incompleto: più per il mio essere sacerdote che non per il Ministero.

 

E quello che sino ad allora non avevo ancora compreso, mi fu chiaro per una circostanza apparentemente inaspettata, quando la mia sicurezza personale sembrò in pericolo e mi trovai, mio malgrado, a dover vivere quasi nella clandestinità, lontano dai palazzi della Curia. Fu allora che quella benedetta segregazione, che oggi considero come una sorta di scelta monastica, mi portò a riscoprire la Santa Messa tridentina.

Voi che dall’alto delle vostre cattedre di liturgia sentenziate piccati sulla «vecchia Messa», avete mai meditato le sue preghiere, i suoi riti, i suoi gesti antichi e sacri?

 

Ricordo bene il giorno in cui al posto della casula indossai i paramenti tradizionali, con il cappino ambrosiano e il manipolo: ricordo il timore che provai nel pronunciare, dopo quasi cinquant’anni, quelle preghiere del Messale che riaffiorarono alla bocca come se le avessi recitate fino a poco prima. Confitemini Domino, quoniam bonus, al posto del Salmo Judica me, Deus del rito romano. Munda cor meum ac labia mea. Quelle parole non erano più quelle del chierichetto o del giovane seminarista, ma le parole del celebrante, di me che nuovamente, oserei dire per la prima volta, celebravo dinanzi alla Santissima Trinità.

 

Perché è pur vero che il Sacerdote è una persona che vive essenzialmente per gli altri – per Dio e per il prossimo – ma è altrettanto vero che se egli non ha la consapevolezza della propria identità e non coltiva la propria santità, il suo apostolato è sterile come il cembalo che tintinna. 

 

So bene che queste riflessioni possono lasciare impassibile, se non addirittura suscitare compatimento, in chi non ha mai avuto la grazia di celebrare la Messa di sempre. Ma accade la stessa cosa, immagino, per chi non si è mai innamorato e non comprende l’entusiasmo e il casto trasporto dell’amato verso l’amata, per chi non conosce la gioia del perdersi nei suoi occhi.

 

Il grigio liturgista romano, il Prelato con il suo clergyman sartoriale e la croce pettorale nel taschino, il consultore di Congregazione con l’ultima copia di Concilium o di Civiltà Cattolica in bella vista, guardano la Messa di San Pio V con gli occhi dell’entomologo (la scienza che studia gli insetti), scrutando quella pericope come un naturalista osserva le venature di una foglia o le ali di una farfalla. Anzi, talvolta mi chiedo se non lo facciano con l’asetticità del patologo che incide col bisturi un corpo vivente. Ma se un sacerdote con un minimo di vita interiore si accosta alla Messa antica, a prescindere dal fatto di averla mai conosciuta o di scoprirla per la prima volta, rimane profondamente scosso dalla composta maestà del rito, come se uscisse dal tempo ed entrasse nell’eternità di Dio. 

Quella Messa è intrinsecamente divina, perché vi si percepisce il sacro in un modo viscerale: si è letteralmente rapiti in cielo, al cospetto della Santissima Trinità e della Corte celeste, lontano dallo strepito del mondo

 

Quello che vorrei far comprendere ai miei Confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio è che quella Messa è intrinsecamente divina, perché vi si percepisce il sacro in un modo viscerale: si è letteralmente rapiti in cielo, al cospetto della Santissima Trinità e della Corte celeste, lontano dallo strepito del mondo.

 

È un canto d’amore, in cui la ripetizione dei segni, delle riverenze, delle parole sacre non ha nulla di inutile, proprio come la madre non si stanca mai di baciare il suo figlio, la sposa di ripetere «Ti amo» allo sposo.

 

Vi si dimentica tutto, perché tutto ciò che in essa si dice e si canta è eterno, tutti i gesti che vi si compiono sono perenni, al di fuori della storia, eppure immersi in un continuum che unisce il Cenacolo, il Calvario e l’altare sul quale si celebra.

 

Il celebrante non si rivolge all’assemblea, con la preoccupazione di essere comprensibile o di rendersi simpatico o di apparire à la page, ma a Dio: e dinanzi a Dio vi è solo il senso di infinita gratitudine per il privilegio di poter portare con sé le preghiere del popolo cristiano

Il celebrante non si rivolge all’assemblea, con la preoccupazione di essere comprensibile o di rendersi simpatico o di apparire à la page, ma a Dio: e dinanzi a Dio vi è solo il senso di infinita gratitudine per il privilegio di poter portare con sé le preghiere del popolo cristiano, le gioie e i dolori di tante anime, i peccati e le mancanze di chi implora perdono e misericordia, la riconoscenza per le grazie ricevute, i suffragi per i nostri cari defunti.

 

Si è soli, e allo stesso tempo ci si sente intimamente uniti ad una sterminata schiera di anime che attraversa il tempo e lo spazio. 

 

Quando celebro la Messa apostolica, penso che su quel medesimo altare, consacrato con le reliquie dei Martiri, hanno celebrato tanti Santi e migliaia di sacerdoti, usando le mie stesse parole, ripetendo gli stessi gesti, compiendo gli stessi inchini e le medesime genuflessioni, indossando gli stessi paramenti. Ma soprattutto, comunicandosi allo stesso Corpo e Sangue di Nostro Signore, al Quale tutti siamo stati assimilati nell’offerta del Santo Sacrificio.

 

Quando celebro la Messa di sempre, mi rendo conto nel modo più sublime e completo del vero significato di ciò che la dottrina ci insegna.

 

L’agire in persona Christi non è una ripetizione meccanica di una formula, ma la consapevolezza che la mia bocca profferisce le stesse parole che il Salvatore ha pronunciato sul pane e sul vino nel Cenacolo; che mentre elevo al Padre l’Ostia e il Calice ripeto l’immolazione che Cristo fece di Sé sulla Croce; che nel comunicarmi consumo la Vittima sacrificale e mi nutro di Dio, e non sto partecipando a un festino.

 

E con me c’è tutta la Chiesa: quella trionfante che si degna di unirsi alla mia preghiera implorante, quella sofferente che la attende per abbreviare il soggiorno delle anime in Purgatorio, quella militante che se ne rafforza nella quotidiana battaglia spirituale. Ma se davvero, come professiamo con fede, la nostra bocca è la bocca di Cristo, se davvero le nostre parole nella Consacrazione sono quelle di Cristo, se le mani con cui tocchiamo l’Ostia santa e il Calice sono le mani di Cristo, quale rispetto dovremo avere per il nostro corpo, conservandolo puro e incontaminato?

 

Quale migliore sprone per rimanere nella Grazia di Dio?

 

Mundamini, qui fertis vasa Domini. E con le parole del Messale: Aufer a nobis, quæsumus, Domine, iniquitates nostras: ut ad sancta sanctorum puris mereamur mentibus introire

 

Mentre la celebrazione della Messa tridentina è un costante richiamo ad una continuità ininterrotta dell’opera della Redenzione costellata di Santi e Beati, altrettanto non mi pare avvenga con il rito riformato

Il teologo mi dirà che questa è dottrina comune, e che la Messa è esattamente questo, a prescindere dal rito. Non lo nego, razionalmente. Ma mentre la celebrazione della Messa tridentina è un costante richiamo ad una continuità ininterrotta dell’opera della Redenzione costellata di Santi e Beati, altrettanto non mi pare avvenga con il rito riformato.

 

Se guardo alla tavola versus populum, vi vedo l’altare luterano o la mensa protestante; se leggo le parole dell’Istituzione in forma di narrazione dell’Ultima Cena, vi sento le modifiche del Common Book of Prayer di Cranmer, e il servizio di Calvino; se scorro il calendario riformato vi trovo espunti gli stessi Santi che cancellarono gli eretici della Pseudoriforma.

 

E così per i canti, che farebbero inorridire un Cattolico inglese o tedesco: sentire sotto le volte di una chiesa i corali di chi martirizzava i nostri sacerdoti e calpestava il Santissimo Sacramento in spregio alla «superstizione papista» dovrebbe far comprendere l’abisso tra la Messa cattolica e la sua contraffazione conciliare. Senza parlare della lingua: i primi ad abolire il latino furono proprio gli eretici, in nome di una maggior comprensione dei riti per il popolo; un popolo che essi ingannavano, impugnando la Verità rivelata e propagando l’errore.

 

Tutto è profano, nel Novus Ordo. Tutto è momentaneo, tutto accidentale, tutto contingente, variabile, mutevole. Non c’è nulla di eterno, perché l’eternità è immutabile, come immutabile la Fede. Come immutabile è Dio

Tutto è profano, nel Novus Ordo. Tutto è momentaneo, tutto accidentale, tutto contingente, variabile, mutevole. Non c’è nulla di eterno, perché l’eternità è immutabile, come immutabile la Fede. Come immutabile è Dio.

 

Vi è un altro aspetto della Santa Messa tradizionale che mi preme sottolineare, e che ci unisce ai Santi e ai Martiri del passato.

 

Sin dai tempi delle catacombe e fino alle ultime persecuzioni, ovunque un sacerdote celebri il Santo Sacrificio, fosse anche in una soffitta o in una cantina, nella boscaglia, in un granaio o persino in un furgone, egli è misticamente in comunione con quella schiera di eroici testimoni della Fede, e su quell’altare improvvisato si posa lo sguardo della Santissima Trinità, dinanzi ad esso genuflettono adoranti tutte le schiere angeliche, ad esso guardano le anime purganti.

 

Ognuno di noi comprende come la Tradizione crei un legame indissolubile attraverso i secoli non solo nella gelosa custodia di quel tesoro, ma nell’affrontare le prove che essa comporta, fosse anche la morte. Dinanzi a questo pensiero, l’arroganza del tiranno presente, con i suoi deliranti decreti, ci deve rafforzare nella fedeltà a Cristo e farci sentire parte integrante della Chiesa di tutti i tempi

Anche in questo, soprattutto in questo, ognuno di noi comprende come la Tradizione crei un legame indissolubile attraverso i secoli non solo nella gelosa custodia di quel tesoro, ma nell’affrontare le prove che essa comporta, fosse anche la morte. Dinanzi a questo pensiero, l’arroganza del tiranno presente, con i suoi deliranti decreti, ci deve rafforzare nella fedeltà a Cristo e farci sentire parte integrante della Chiesa di tutti i tempi, perché non si conquista la palma della vittoria se non si è pronti a combattere il bonum certamen.

 

Vorrei che i miei Confratelli osassero l’inosabile: vorrei che si accostassero alla Santa Messa tridentina non per compiacersi del pizzo di un camice o del ricamo di una pianeta, o per una mera convinzione razionale sulla sua legittimità canonica o sul fatto che essa non sia mai stata abolita; ma con il timore reverenziale con cui Mosè si avvicinò al roveto ardente: sapendo che ciascuno di noi, al ridiscendere dall’altare dopo l’ultimo Vangelo, in qualche modo è interiormente trasfigurato perché vi ha incontrato il Santo dei Santi.

 

È solo lì, su quel mistico Sinai, che possiamo comprendere l’essenza stessa del nostro Sacerdozio, che è donazione di sé a Dio, anzitutto; oblazione di tutto se stesso assieme a Cristo Vittima, per la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime; sacrificio spirituale che dalla Messa trae forza e vigore; rinuncia di sé, per lasciar posto al Sommo Sacerdote; segno di vera umiltà, nell’annichilimento della propria volontà e nell’abbandono alla volontà del Padre, sull’esempio del Signore; gesto di autentica «comunione» con i Santi, nella condivisione della medesima professione di Fede e dello stesso rito.

 

E vorrei che questa «esperienza» la facessero non solo quanti da decenni celebrano il Novus Ordo, ma soprattutto i giovani sacerdoti e quanti svolgono il proprio Ministero in prima linea: la Messa di San Pio V è per spiriti indomiti, per anime generose ed eroiche, per cuori ardenti di Carità per Dio e per il prossimo. 

 

Lo so bene: la vita dei sacerdoti di oggi è fatta di mille prove, di stress, di sensazione di essere soli a combattere contro il mondo, nel disinteresse e nell’ostracismo dei Superiori, di un lento logorio che distrae dal raccoglimento, dalla vita interiore, dalla crescita spirituale. E so benissimo che questa sensazione di assedio, di trovarsi come un marinaio solo a dover governare una nave in tempesta, non è appannaggio dei tradizionalisti né dei progressisti, ma è destino comune di tutti coloro che hanno offerto la propria vita al Signore e alla Chiesa, ognuno con le proprie miserie, con i problemi economici, le incomprensioni con il Vescovo, le critiche dei confratelli, le richieste dei fedeli.

 

E quelle ore di solitudine, in cui la presenza di Dio e la compagnia della Vergine sembrano svanire, come nella notte oscura di San Giovanni della Croce. Quare me repulisti? Et quare tristis incedo, dum affligit me inimicus?

 

Quando il demonio serpeggia maligno tra internet e la televisione, quærens quem devoret, approfittando a tradimento della nostra stanchezza. In quei casi, che tutti noi affrontiamo come Nostro Signore nel Getsemani, è il nostro Sacerdozio che Satana vuole colpire, presentandosi suadente come Salomé dinanzi a Erode, chiedendoci in dono la testa del Battista. Ab homine iniquo, et doloso erue me. Nella prova, siamo tutti uguali: perché la vittoria che il Nemico vuole riportare non è solo sulla nostra povera anima di battezzati, ma su Cristo Sacerdote, del quale portiamo l’Unzione. 

 

Oggi più che mai, la Santa Messa tridentina è l’unica ancora di salvezza del Sacerdozio cattolico, perché in essa il sacerdote rinasce, tutti i giorni, in quel tempo privilegiato di intima unione con la Trinità beata

Per questo, oggi più che mai, la Santa Messa tridentina è l’unica ancora di salvezza del Sacerdozio cattolico, perché in essa il sacerdote rinasce, tutti i giorni, in quel tempo privilegiato di intima unione con la Trinità beata, e da essa trae le grazie indispensabili per non cadere nel peccato, per progredire sulla via della santità, per ritrovare il sano equilibrio con il quale affrontare il Ministero.

 

Credere che tutto ciò possa liquidarsi come una mera questione cerimoniale o estetica, significa non aver capito nulla della propria Vocazione. Perché la Santa Messa «di sempre» – e lo è davvero, come da sempre è avversata dall’Avversario – non è un’amante compiacente che si offre a chiunque, ma una sposa gelosa e casta, come geloso è il Signore. 

 

Volete piacere a Dio o a chi vi tiene lontani da Lui? La domanda, in fondo, è sempre questa: la scelta tra il soave giogo di Cristo e le catene della schiavitù dell’avversario. La risposta vi apparirà chiara e limpida nel momento in cui anche voi, stupendovi di questo incommensurabile tesoro che vi è stato tenuto nascosto, scoprirete cosa significhi celebrare il Santo Sacrificio non come patetici «presidenti dell’assemblea», ma come «ministri di Cristo e dispensatori dei Misteri di Dio» (ICor 4, 1). 

 

Prendete in mano il Messale, chiedete aiuto a un sacerdote amico, e salite sul monte della Trasfigurazione: Emitte lucem tuam et veritatem tuam: ipsa me deduxerunt, et adduxerunt in montem sanctum tuum, et in tabernacula tua. Come Pietro, Giacomo e Giovanni esclamerete: Domine, bonum est nos hic esse, «Signore, è bello per noi restare qui» (Mt 17, 4). O, con le parole del Salmista che il celebrante ripete all’Offertorio: Domine, dilexi decorem domus tuæ, et locum habitationis gloriæ tuæ.

 

Quando l’avrete scoperto, nessuno potrà più togliervi ciò per cui il Signore non vi chiama più servi, ma amici (Gv 15, 15).

 

Nessuno potrà mai convincervi a rinunziarvi, costringendovi ad accontentarvi della sua adulterazione partorita da menti ribelli.

 

Eratis enim aliquando tenebræ: nunc enim lux in Domino. Ut filii lucis ambulate. «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce» (Ef 5, 8).

 

Propter quod dicit: Surge qui dormis, et exsurge a mortuis, et illuminabit te Christus. «Perciò sta scritto: Risvegliati, o tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo risplenderà su di te» (Ef 5, 14).

 

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

2 Gennaio 2022

Sanctissimi Nominis JESU

 

 

 

 

 

Immagine di Jim The Photographer via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0); immagine modificata nel colore

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Pensiero

Miseria dell’ora legale, contro Dio e la legge naturale

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Ho un argomento molto metafisico, e al contempo concretissimo, per combattere l’abominio dell’ora legale. Un argomento che sono persino in grado di visualizzare.

 

Ci sono, certo i numeri: ci dicono che risparmieremo 300 gigawattora. Quando stanotte mi sono svegliato ad un orario innaturale, nella confusione inevitabile di non sapere se è troppo presto o troppo tardi, ho ripensato ad un altro dato: quante persone, in questi giorni, moriranno negli incidenti stradali dovuti ai colpi di sonno? Non credo che nessuno abbia mai fatto questo calcolo, che sarebbe più importante che qualsiasi discorso sparagnino.

 

Ma a chi importa? L’ora legale, teorizzata da Beniamino Franklin che, democraticamente, voleva piazzare un cannone in ogni via per svegliare la popolazione all’ora che diceva lui per risparmiare in candele, in Italia fu adottata nel 1916, in piena Prima Guerra Mondiale: i nostri ragazzi andavano verso l’inutile strage, il potere pensava a cambiargli l’orologio. Non sono in grado di calcolare l’effetto che l’ora legale può aver avuto sulle trincee, e non ho voglia nemmeno di chiedermelo.

 

Tuttavia non è questo pensiero di morte – diligente e terminale conseguenza dell’azione dello Stato moderno, che è macchina antiumana – che mi spinge a vedere nell’ora legale un’aberrazione satanica.

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Ho, negli occhi, e nel cuore, un’immagine invincibile, quella della chiesetta dove assisto alla Santa Messa, ovviamente in rito tridentino. Molti lettori già la conoscono, perché ho usato la sua foto in vari articoli.

 

Andò più o meno così: oramai sette anni fa, trovammo questa chiesetta – dell’estrema nobiltà della proprietà che ce la concesse parlerò altrove. Si tratta di un oratorio che risale al XII secolo, ma notizie certe in merito non si hanno, e mi piace pensare che vi sia davvero un millennio di storia lì.

 

La chiesa sta fuori dalla città, sopra un borghetto che sa ancora di medioevo, su una collina di boschi e pareti di roccia. L’oratorio stesso sembra posato su un’enorme roccia, anzi sembra esservi stato scolpito, sottratto una scalpellata dopo l’altra da quantità di mani laboriose e fedeli vissute in secoli dimenticati.

 

Arrivati al nostro secolo, arrivati a noi, c’era pronto tutto quello che serviva: il luogo era stato restaurato, nessuno vi aveva introdotto il tavolone-alare conciliare, a poca distanza c’era tanto parcheggio… per i tanti che, non solo dalla provincia, finalmente potevano avere a portata la Messa in latino.

 

Iniziarono così le celebrazioni del rito antico, tuttavia ottenemmo dai sacerdoti, impegnati a dire Messe in tanta parte della regione ed oltre, un orario pre-serale, alle 18.

 

D’inverno, a quell’ora è il buio. Nella scala di pietra mettevamo delle candeline, e lo facciamo ancora oggi in caso di celebrazione notturna. L’effetto è abbastanza magico, tuttavia nulla ha a che fare con quanto avremmo scoperto più avanti.

 

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Anni dopo, a fronte di una comunità di fedeli sempre più vasta e persistente (unita davvero, come dimostrò la solidarietà in pandemia…) aumentarono il numero di Sante Messe, e fu concessa quindi una celebrazione la domenica mattina, alle 11:00.

 

Saltò così fuori il fenomeno che ancora mi stupisce, mi commuove. Ci accorgemmo che, precisamente a mezzogiorno – ora nella quale si ha, con la messa iniziata alle 11, la consacrazione eucaristica, un raggio di luce entra dalla finestra a lato e colpisce esattamente il centro dell’altare, dove è posato il tabernacolo.

 

L’incenso aiuta a vederlo, tuttavia a volte può capitare di notarlo anche in assenza di fumo. È impressionante. Tendo a sospettare di quanti vedono questa cosa e non restano sbalorditi. Le immagini che vedete qui sotto non sono ritoccate in nessun modo. Anzi, ad occhio nudo l’effetto è ancora più forte.

 

 

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È interessante notare che lo abbiamo riscoperto noi a Messa, ma da qualche parte l’eco di questo miracolo luminoso risuonava ancora. Una signora della Pro Loco, che ha stampato un libro sulla chiesetta, mi aveva domandato se mai fosse vera una leggenda locale secondo cui nel giorno del Santo patrono dell’oratorio un raggio di luce colpisce l’altare. Ho risposto invitandola a Messa la domenica successiva, dove ha fatto tante foto con il telefonino, e compreso che la leggenda conteneva una realtà ancora più stupefacente: quel raggio si produce ogni giorno.

 

Il fenomeno impone tanti pensieri. Il primo, è che le mani che hanno eretto questa chiesa sapevano fare cose che i moderno non sono in grado di fare. Di più: chi l’ha costruita, l’ha basata su principi che sono sconosciuti all’architettura moderna. Per fare una chiesa, bisogna orientarla, cioè l’abside deve dare ad orientem (come il sacerdote prima del Concilio), ma non solo.

 

Ho l’idea che chi ha costruito la chiesetta lo abbia fatto proprio a partire da quel raggio, alla faccia di quanti ne osservino gli elementi (scala esterna, portone, altare) e li considerino disallineati. Ossia, l’intera chiesa è concepita a partire dal rapporto del Cielo con la Terra, cioè di Dio con l’uomo – questo è un senso ultimo della religione cristiana, quella della divinità che si fa essere umano, del Dio del Cielo che scende sulla Terra, del Cielo che nutre la Terra con la sua luce, il suo calore la sua grazia.

 

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Quel raggio, che casca durante la Santa Messa esattamente nel momento più alto, significa in maniera incontrovertibile l’armonia tra il Cielo e la Terra. L’accordo, nella bellezza, accordato all’uomo da un Dio buono, un Dio che è luce, che è amore.

 

Questo è l’ordine celeste, infinito, stupendo. Questo è il logos. Questo è il cosmos.

 

Non ci sono voluti tanti mesi per capire che, a parte il cattivo tempo, c’era solo una cosa in grado di distruggere il nostro raggio divino: l’ora legale. Come a marzo si cambia l’ora, quella luce svanisce, si fa più tenue, fino a sparire, facendo capolino, forse, solo dopo la Messa, quando qualcuno si attarda ad una confessione fuori tempo ed altri (io) rassettano prima di chiudere.

 

Di fatto, poi, il fascio luminoso scompare del tutto, dalla vista come dai cuori. Fine della magia, per ordine dello Stato moderno.

 

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Ho sempre preso questo fatto come la prova definitiva della nequizia dell’ora legale – del suo essere un invento contronatura, e quindi contro Dio.

 

Solo il mondo moderno poteva pensare di alterare persino il tempo: l’uomo si sente in grado di modificare l’immutabile, l’uomo introduce il suo artificio in un sistema la cui complessità ha milioni di anni. Non è diverso per tante altre questioni: ad esempio, i vaccini, la fecondazione in vitro, la bioingegneria…

 

L’uomo-dio crede di poter mettere mano su qualsiasi cosa, devastando le leggi stesse della creazione, disintegrando quindi l’equilibrio del Cielo e della Terra – una realtà conosciuta dalla saggezza cinese: «l’uomo si conforma alla Terra / La Terra si conforma al Cielo / il Cielo si conforma al Tao» (Tao Te King, XXV). Era chiaro, agli antichi cinesi, che il Cielo è legato alla morale: «Sotto il cielo tutti / sanno che il bello è bello, / di qui il brutto, sanno che il bene è bene, / di qui il male» (Tao Te King, II).

 

Ora, nel Cristianesimo l’armonia tra la Terra e il Cielo è in realtà una vera alleanze tra persone, cioè tra gli uomini e Dio – e questa nuova alleanza è il Cristo risorto.

 

Alterare il tempo significa frantumare la relazione naturale con il Cielo. Adulterare la luce del sole significa quindi andare contro il divino, contro la legge naturale, contro Dio.

 

Non poteva essere altrimenti: il mondo moderno odia, più ancora dell’uomo, Nostro Signore, che vuole sostituire con l’essere umano ubriacato di hybris satanica, l’umanità onnipotente che, apoteosi del non serviam, si crede capace di cambiare le leggi del cosmo.

 

Ecco perché combatto l’ora legale: perché, ve ne rendiate conto o no, fa parte della macchina in atto per distruggere la presenza di Dio sulla Terra.

 

E quel raggio magnifico me lo ha ricordato anche domenica scorsa: sì, tornata l’ora del Sole, l’ora vera, è tornato. E con lui è venuta ancora da noi questa immagine potente di reincanto del mondo, di bellezza divina, di armonia cosmica, questa visione sacra che vale più di qualsiasi risparmio.

 

Vale tutto. Vale il senso vero dell’esistenza e dell’universo.

 

Roberto Dal Bosco

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Cristo Re, il cosmo divino contro il caos infernale. Omelia di Mons. Viganò

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Renovatio 21 pubblica l’omelia nella festa di Cristo Re dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò.      

Israël es tu Rex

Omelia nella festa di Cristo Re

     

Israël es tu Rex, davidis et inclyta proles; nomine qui in Domini, Rex benedicte, venis.

D’Israele Tu sei il Re, di David la nobile prole; Tu che vieni, Re benedetto, nel Nome del Signore.

Teodolfo di Orléans, Inno Gloria laus et honor.

 

Gloria, laus et honor tibi sit, Rex Christe Redemptor. Al canto di questo inno antichissimo, intonato nella Domenica delle Palme dinanzi alle porte serrate della chiesa, la processione del clero e dei fedeli entra solennemente nella nuova Gerusalemme, spalancandone i robusti battenti con il triplice colpo della Croce astile.

 

La suggestiva cerimonia della seconda Domenica di Passione rievoca l’ingresso trionfale di Nostro Signore nella Città santa, di cui era figura l’ingresso di Salomone (1Re 1, 32-40). Essa ha dunque un’indole eminentemente regale, perché con questa presa di possesso del Tempio, Egli è riconosciuto e osannato come Dio, come Messia e come Re dei Giudei: il Cristo, Χριστός, l’Unto del Signore. La Sua divina Regalità era già stata testimoniata e onorata dai Magi, nella grotta di Betlemme: con l’oro al Re dei Re, l’incenso al Dio Vivo e Vero, la mirra al Sacerdote e Vittima.

 

Poco meno di cent’anni fa, l’11 Dicembre 1925, il grande Pontefice lombardo Pio XI promulgò l’immortale Enciclica Quas primas, nella quale è definita la dottrina della universale Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo: Egli è Re in quanto Dio, in quanto discendente della stirpe regale della tribù di Davide e per diritto di conquista mediante la Redenzione.

 

L’istituzione di questa festa non ha in verità introdotto nulla di nuovo. Essa è stata voluta da Pio XI per contrastare e combattere la peste del liberalismo laicista, il massonico Libera Chiesa in libero Stato e la folle presunzione di estromettere Gesù Cristo dalla società civile. Pio XI non fu il solo a ribadire solennemente la dottrina cattolica: prima di lui Clemente XII, Benedetto XIV, Clemente XIII, Pio VI, Pio VII, Leone XII, Pio VIII, Gregorio XIV, Pio IX, Leone XIII e San Pio X avevano severamente condannato le logge segrete, la carboneria, la Massoneria e tutti gli errori che i nemici di Cristo avevano sparso e alimentato nel corso degli ultimi due secoli.

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Dopo la grande frattura del Protestantesimo nel Cinquecento, i tre secoli successivi hanno visto affrontarsi in una serie di terribili battaglie la Chiesa Cattolica e l’Antichiesa, cioè la Massoneria: da una parte, il Principe della Pace e le Sue schiere angeliche e terrene; dall’altra, la scelesta turba, la folla sciagurata, aizzata dai mercanti asserviti a Lucifero.

 

Il mito del «popolo sovrano» ha sepolto sotto le rovine della Rivoluzione secoli di civiltà cristiana, mostrando sino a quali aberrazioni l’uomo potesse giungere. I Martiri di questi secoli di violenze inaudite e di eccidi ancora impuniti ci guardano dai loro scranni in cielo, chiedendo giustizia per il sangue che essi hanno versato, e con il loro silenzio – quasi di notte oscura per la Chiesa, alla vigilia della sua passione – essi osservano increduli i papi di questi ultimi decenni deporre le armi spirituali e cooperare con i nemici di Cristo.

 

Da quegli scranni ci guardano anche i Pontefici guerrieri che – anche a costo della propria vita, come Pio VI, imprigionato da Napoleone e morto di stenti in carcere – seppero affrontare a testa alta i più feroci attacchi contro Dio, contro il Papato, contro la Gerarchia Cattolica, contro i fedeli. Se la Storia non fosse stata falsificata dai momentanei vincitori di questa guerra – come avviene ancora oggi – nelle scuole i nostri figli studierebbero non la presa della Bastiglia, non le menzogne dell’epopea del Risorgimento, non le gesta di mercenari cospiratori o di ministri corrotti, ma le fasi del genocidio contro i Cattolici delle Nazioni un tempo cristiane.

 

Quando venne istituita la festa di Cristo Re, la Chiesa Cattolica non poteva più avvalersi della cooperazione dei Sovrani cattolici, che nelle leggi civili e penali avevano fatto osservare i principi del Vangelo e della Legge naturale. La prima autorità dell’ancien régime a cadere fu infatti la Monarchia di diritto divino, che attinge alla Regalità di Cristo la potestà vicaria nelle cose temporali.

 

La seconda autorità cadde pochi decenni dopo, e fu quella dei pontefici asserviti alla Rivoluzione. Con la deposizione della tiara papale, Paolo VI suggellò l’abdicazione della potestà di Cristo nelle cose spirituali e la resa alle ideologie anticristiche e anticattoliche della Sinagoga di Satana. «Anche noi, più di ogni altro abbiamo il culto dell’uomo», disse Montini alla chiusura del Vaticano II (1). E sotto le volte della Basilica Vaticana echeggiarono queste parole: «La Chiesa si è quasi dichiarata l’ancella dell’umanità», parole che solo pochi anni prima avrebbero scandalizzato qualsiasi Cattolico.

 

Paolo VI – e con lui il predecessore Giovanni XXIII – furono gli iniziatori del processo di liquidazione della Chiesa di Cristo e su di essi incombe la responsabilità di aver disarmato la Cittadella e averne spalancate le porte per meglio farvi entrare il nemico, salvo poi ipocritamente denunciare che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio» (2). E nulla si salvò da quell’operazione di disarmo: né la dottrina, né la morale, né la liturgia, né la disciplina.

 

Così venne sfigurata anche la festa di Cristo Re, la cui data fu spostata alla fine dell’anno liturgico, assumendo una valenza escatologica: Cristo Re del mondo a venire, non delle società terrene. Perché la Signoria del Verbo Incarnato non doveva rappresentare un ostacolo al dialogo con «l’uomo contemporaneo» e con l’idolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

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I fautori di questo smantellamento suicida ebbero a rallegrarsi che finalmente si fosse posto fine al trionfalismo postridentino di una Chiesa che voleva convertire il mondo a Cristo, e non adattare la divina Rivelazione all’antievangelo dell’Antichiesa; di una Chiesa che onorava il proprio Signore come Re universale e a Lui voleva condurre tutte le anime, perché nel regnum Christi esse potessero vivere nella pax Christi.

 

Scelesta turba clamitat: regnare Christum nolumus (3) – cantiamo nel magnifico inno della festa odierna – La folla scellerata schiamazza: Non vogliamo che Cristo regni! Questa bestemmia è il grido di battaglia delle orde di Lucifero, dei figli delle tenebre; lo stesso grido che risuonò quando lo spirito ribelle e orgoglioso di Satana vomitò il suo Non serviam. Un grido che sovverte il κόσμος divino, fondato in Nostro Signore Gesù Cristo, nel Dio incarnato per obbedienza all’Eterno Padre, e per obbedienza morto sulla Croce propter nos homines et propter nostram salutem.

 

Alla fine dei tempi, ormai prossima, l’Anticristo contenderà a Cristo proprio la Sua universale Signoria, cercando di sedurre i popoli con prodigi e falsi miracoli, addirittura simulando la propria resurrezione. Affascinante, seducente, simulatore, orgoglioso, pieno di sé, l’Anticristo combatterà la Santa Chiesa senza esclusione di colpi, ne perseguiterà i Ministri e i fedeli, ne adultererà la dottrina, ne corromperà i chierici facendone dei propri servi.

 

Quello che vediamo accadere nella sfera civile e religiosa da almeno da due secoli, in un continuo crescendo, è la preparazione di questo piano infernale, volto a spodestare Nostro Signore, a rifiutarLo come Dio, come Re e come Sommo Sacerdote, a calpestare empiamente l’Incarnazione e l’opera della Redenzione.

 

Con la festa di Cristo Re noi cooperiamo al ripristino dell’ordine, del κόσμος divino contro il χαός infernale. Restituiamo a Cristo la corona che già Gli appartiene, lo scettro che Gli ha strappato la Rivoluzione. Non perché stia a noi rendere possibile la restaurazione dell’ordine, di cui sarà artefice unico Nostro Signore, ma perché non è possibile prendere parte a questa restaurazione senza che noi vi contribuiamo.

 

Ai tempi della prima Venuta del Salvatore, il regno di Israele e il tempio non avevano né un Re legittimo, né legittimi Sommi Sacerdoti: l’autorità civile e religiosa era ricoperta da personaggi di nomina imperiale. Nella seconda Venuta alla fine del mondo questa vacanza dell’autorità sarà ancora più evidente, perché Nostro Signore ricomporrà in Sé tutte le cose – Instaurare omnia in Christo (Ef 1, 10) – in un momento storico in cui sarà il Male a dominare in tutti gli ambiti della vita quotidiana, in tutte le istituzioni, in tutte le società.

 

E sarà una vittoria trionfale, schiacciante, totale, inesorabile, su tutte le menzogne e i crimini dell’Anticristo e della Sinagoga di Satana.

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Facciamo nostra la preghiera dell’inno Te sæculorum Principem:

 

O Christe, Princeps Pacifer, Mentes rebelles subjice: Tuoque amore devios, Ovile in unum congrega.

 

O Cristo, Principe che porti la vera Pace: sottometti le menti ribelli e riunisci in un solo ovile quanti si sono allontanati dal Tuo amore. E così sia.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

26 Ottobre MMXXV D.N.J.C. Regis Dominica XX post Pent., ultima Octobris

    NOTE 1) Cfr. Discorso di Paolo VI alla IX Sessione Pubblica del Concilio Vaticano II, 7 Dicembre 1965. 2) Paolo VI, Omelia nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, 29 giugno 1972. 3) Inno Te sæculorum Principem nella festa di Cristo Re.

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Spirito

Fraternità San Pio X: ingressi al Seminario 2025

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L’ingresso al seminario della Fraternità inizia a settembre nell’emisfero settentrionale, mentre nell’emisfero meridionale, presso il Seminario Nuestra Señora Corredentora situato a La Reja, in Argentina, ha luogo all’inizio di marzo. Un articolo recente è già stato dedicato all’ingresso a Flavigny.

 

Il Seminario Herz Jesu – Seminario del Sacro Cuore – è lieto di accogliere nove nuovi seminaristi. Dopo aver trascorso una settimana a Jaidhof, in Austria, per il ritiro di rientro, i seminaristi sono finalmente arrivati. Sono stati accolti con la celebrazione della Solennità di San Pio X, come ogni anno.

 

Per quanto riguarda la provenienza dei nuovi arrivati, i paesi di lingua tedesca possono rallegrarsi. Mentre l’anno scorso a Zaitzkofen non erano arrivati ​​tedeschi, quest’anno ce ne sono quattro. Con due svizzeri, il seminario ha di nuovo tra le sue fila dei cittadini della Confederazione. Due polacchi e uno sloveno completano questo nuovo anno di spiritualità.

 

All’inizio di quest’anno accademico, il seminario conta un totale di 54 seminaristi, superando di uno il record dell’anno scorso. Con un’età media di soli 21,9 anni, il primo anno contribuirà a un notevole ringiovanimento della comunità seminaristica.

 

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