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Pensiero

Purgatori e le cospirazioni socialmente accettabili

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È morto Andrea Purgatori, giornalista d’inchiesta piuttosto noto tra TV e stampa mainstream. Aveva settant’anni, e praticamente mezzo secolo di reportage alle spalle.

 

Ora, che sia chiaro: non parleremo qui delle cause della morte, sulla quale si è scatenato, per usare le parole della testata Open lo «sciacallaggio no-vax»: insomma la solita ridda di commenti dopo i decessi repentini di gente famosa, con tanti che lanciano accuse nei confronti di determinati procedimenti medici, un fenomeno inevitabile del popolo non greenpassato che ora tante testate, Libero incluso, definiscono «orrore» – senza spiegare altro.

 

Per una volta, ci facciamo andare benissimo la formula che stiamo leggendo dappertutto: Purgatori è morto a causa di «una malattia fulminante». Sono le esatte parole ripetute nei loro articoli online il Corriere della Sera, il Messaggero, la Gazzetta dello Sport, il Riformista, La Stampa, Fanpage, Il Tempo, il Quotidiano Nazionale, l’Unità, il Sussidiario. Va bene così. Tanto più che ora ci sarebbero due indagati per omicidio colposo dopo la denuncia sporta dalla famiglia.

 

Renovatio 21 aveva parlato di Purgatori qualche mese fa. In una delle sue belle, lunghissime trasmissioni su La7, dove la nostalgia per i vecchi misteri italici si tagliava con il coltello per spalmarla su panini per over 50, aveva intercettato un piccolo grande scoop: la sorella di Mino Pecorelli – un uomo la cui morte è uno dei tanti enigmi dell’Italia repubblicana – aveva dichiarato che Papa Luciani sarebbe morto nel giorno in cui gli fu consegnata la lista dei cardinali massoni, la celeberrima, appunto, «lista Pecorelli».

 

Si tratta di una rivelazione immensa, che andrebbe tutta verificata, perché magari alcune date non coincidono, ma non importa: la fonte regge, il possibile disegno che vi sta dietro pure chiama l’attenzione.

 

Il sottobosco catto-conservatore non se ne accorse nemmeno: è fatto di una mistura di perdigiorno, imbecilli, ragazzini che si battono il petto gorillescamente, persone problematiche, più l’immancabile contorno di nerd liturgici. Purgatori, per l’informazione cattolica, aveva fatto più che tutto la rete del catto-universo con i suoi blog, newsletter e social (perché non bannano mai chi dice cose perfettamente inutili, cioè utili al mantenimento delle nicchie previste dall’establishment).

 

Diciamo pure che avevamo messo in cantiere, con qualche appunto critico, un articolo su un’altra mega-trasmissione di Purgatori delle scorse settimane, dove andava ad inoltrarsi nella notte più profonda (stricto sensu) parlando del Mostro di Firenze e l’eversione nera.

 

Era un volto TV a suo modo notissimo, finanche definibile «di culto»: infatti aveva partecipato, mettendoci la testa e anche la faccia, a opere di Corrado Guzzanti come Il caso Scafroglia, finendo quindi nello sketch, poi divenuto per qualche ragione film, Fascisti su Marte, dove interpretava il camerata Fecchia, giunto anch’egli sul «rosso pianeta bolscevico e traditor». I fan di Boris, altra serie di culto, lo ricordano in vari episodi.

 

La quantità di trasmissioni RAI da lui realizzate è impressionante, come pure la consistenza con cui ha fatto programmi per La7, comparendo infine anche sulla docu-serie Netflix Vatican Girl, su Manuela Orlandi. Tuttavia va ricordato anche per la carriera cinematografica: Purgatori è stato membro dell’Accademia del Cinema Italiano e dell’Accademia Europea del Cinema, posizione meritatasi probabilmente per i film con Marcello Avallone (come l’horror Spettri del 1986, dove la scoperta di una necropoli antica sotto Roma porta maledizioni a go-go), per il film di Michele Placido su Vallanzasca (dal quale, però, aveva tolto la firma) e soprattutto per Il Muro di Gomma (1991) di Marco Risi (figlio del leggendario Dino Risi e fratello del Claudio Risi de I ragazzi della Terza C) che in pratica racconta la sua vicenda di cronista del Corriere della Sera durante gli anni di indagini sul caso Ustica.

 

Piccola digressione biografica, forse necessaria: ricordo bene, nei primissimi anni del liceo, che ci portarono a vederlo: tutta la scuola, nel cinema accanto, che era un vero teatro, una sala ancora grandissima, ancora non colpita dalla fissione multisala. Ricordo che del film non ricordo nulla: un protagonista giovane con il capello fastidioso che andava forte in certi filmetti impegnatini di quegli anni (l’attore e cineasta Corso Salani, 1967-2010) e basta. Mi sembra di rammentare ad un certo passai al bagno, dove con un gruppetto interclasse si fumava e si parlava, si sparlava, con estrema probabilità di ragazze.

 

(Mi sento ingrato rispetto al dono che il mondo trenta anni fa poteva farmi: un film, in pellicola 35 millimetri, su un grande teatro, insieme a quasi un migliaio di compagni – ognuno di questi elementi oggi è una rarità infinita, di cui scrivendo sento di avere nostalgia).

 

Il fatto è che il film su Ustica, per qualche motivo, anche agli adolescenti semplici, come lo ero io (abbastanza), pareva qualcosa di imposto, di inflitto. Di Ustica avevo sentito parlare infinite volte dai Telegiornali delle otto (magari con la voce bassa e suadente dell’indimenticato Paolo Frajese, lo zio del medico idolo no-vaxo) e, sì, mi ero fatto l’idea che si trattava di un mistero di cui non se ne veniva a capo – era l’ennesimo che la mia mente, pur in apparenza disinteressata, annotava. Ho iniziato a leggere i giornali molto precocemente, e la lista di enigmi di sangue alla quale ero sottoposto ancora minorenne – bombe nelle piazze, nelle stazioni, serial killer anche dietro casa (letteralmente), terrorismo, incidenti di navi, aerei, treni – già intasava tanti cassetti dentro di me, spesso senza che lo sapessi.

 

Più avanti, avrei realizzato che forse era proprio quello il fine: sovraccaricarmi, di modo da sfibrare la mia morale e mollare, qualora ne avessi, ogni ambizione di comprensione della realtà: dedicati ad altro, alle sigarette e alle ragazze, appunto – magari ad attendere il sabato sera con i primi festini alcolici. Bacci, Tabacci venerisque. È la saggezza antica, tutta romana, di chi mi stava narcotizzando offrendomi in orario di scuola dell’obbligo pure panem et cinemam. E potevo pure rifiutare, infilandomi in bagno con il gruppetto dei discoli, bastava che pensassi ad altro.

 

Sono passate decadi, e dopo aver scritto tre o quattro libri e messo in piedi Renovatio 21 (con la quantità di conferenza in giro per l’Italia degli anni prepandemici),  non posso dire che in seguito io non mi sia interessato di misteri e trame oscure.

 

Tuttavia, l’effetto che mi fa tutto il film su Ustica di Purgatori, e tutta la narrazione intorno è lo stesso: un senso automatico di rifiuto.

 

C’è da chiedersi perché: in fondo, il giornalismo d’inchiesta, ritengo, è una delle cose più belle del mondo. E qualcuno che si inoltra nel mistero, nella terra incognita, nell’avventura extra-ordinaria, è, per definizione congiunta di Carl Gustav Jung e Joseph Campbell, un «eroe».

 

E allora perché non provo passione?

 

Leggo Wikipedia: Purgatori, che aveva il tesserino di giornalista professionista a poco più di vent’anni e pure un Master alla Columbia University di Nuova York (Ivy League…), si occupava di terrorismo nazionale ed internazionale, di stragismo vario, del caso Moro, dei delitti della mafia, veniva inviato in guerra in Libano, in Iraq-Iran, in Palestina, in Tunisia, in Algeria. Tutti temi che mi interessano grandemente. Eppure non ricordo niente di quello che ha scritto in merito.

 

In una delle sue ultime trasmissioni, quella su Pecorelli e papa Luciani, l’ho sentito raccontare una cosa illuminante: diceva che quando stava al Corriere della Sera (poco più che ventenne!) e il giovedì arrivava OP, la rivista di Pecorelli strapiena di informazioni incredibili pescate chissà come, lo sentiva come un colpo. In pratica, anche il giovane giornalista che si occupa di piste oscure comprendeva che c’era un livello che il suo lavoro avrebbe dovuto raccontare ma al quale lui non poteva attingere. Ad inizio della puntata, raccontava, come rivendicando una qualche prossimità con il centro della storia, che la sera che ammazzarono Pecorelli lui, per un caso della vita, stava in una pizzeria lì vicino.

 

È possibile, mi chiedo, comprendere la realtà se si appartiene all’establishment? È possibile scavare fino alla verità se si lavora per un grande giornale? Quando Purgatori ci lavorava, il Corriere della Sera era lì lì per esplodere a causa delle infiltrazioni massoniche ai vertici – la P2 di Licio Gelli, forse l’unica Loggia che davvero è emersa e ha pagato (lo ricordava lo stesso Purgatori con Padellaro in una delle sue ultime trasmissioni).

 

All’epoca chi voleva andare a fondo delle questioni e delineare il quadro generale sottostante alla realtà repubblicana, con i suoi mandanti democratici, cristiani, comunisti, nazionali ed internazionali, non veniva chiamato «complottista», ma, nel gergo dei giornali di quel tempo, «pistarolo».

 

Immagino che anche per i più aperti ai pistaroli sarebbe stato difficile sentirsi dire da uno: sai, c’è un tizio che vende materassi fuori Roma, è a capo di una setta segreta che conta i vertici della Repubblica, 119 alti ufficiali tra esercito, Guardia di Finanza, Arma dei carabinieri, 22 dirigenti di Polizia, 59 parlamentari, un giudice costituzionale, 8 direttori di giornali, 4 editori, 22 giornalisti imprenditori, l’imitatore più famoso, il principe erede al trono d’Italia, direttori di giornali, eroi della Resistenza, un cantante celeberrimo, banchieri, medici, faccendieri, editori, tutti i capi dei servizi segreti italiani… E questo signore dei materassi parrebbe avere un potere che va al di là della semplice influenza anche in Sudamerica, in Argentina, in Uruguay, in Brasile… e pensati che per i suoi complotti incontra i suoi iniziati in Autogrill, dove tra un panino «fattoria» e una spremuta decide le sorti delle nostra Nazione e pure di altre (questa dell’Autogrill l’ho letta nel libro di Gianfranco Piazzesi Gelli la carriera di un eroe di questa Italia, 1983).

 

Ecco, il Gelli i tanti giornalisti d’inchiesta di quegli anni non l’hanno visto arrivare (o forse, qualcosa sapevano, ma non potevano dire nulla, perché lo stipendio, perché la carriera). Nessuno, quanto pare, capiva il potere della massoneria sulla società italiana.

 

Nessuno, a meno che non avesse letto Il problema dell’ora presente di monsignor Henri De Lassus. Un testo di più di un secolo fa, dove però, come in tanti libri della tradizione cattolica, le cose erano raccontate con precisione profetica. L’infiltrazione della massoneria nella società, il suo vero scopo, i contenuti delle sue azioni… sono cose che non sorprendono il tradizionista, quello combattuto dal mainstream anche oggi come bigotto, razzista, omofobo, «complottista» – insomma uno da escludere dalla vita sociale e pure da quella social.

 

Sto cercando di dire: ci sono cospirazioni sul quale hanno lasciato, in apparenza la briglia sciolta. Ustica, Piazza Fontana, Agca, Emanuela Orlandi, il Mostro di Firenze, Ilaria Alpi… ettolitri di inchiostro spalmati in oltre mezzo secolo, servizi TV, libri, pellicole cinematografiche (magari realizzate con il contributo finanziario dello Stato), fiction per il pubblico bovino delle prime serate del catodo generalista.

 

Sono cospirazioni che ci hanno lasciato liberi di credere, di intraprendere in discorsi pure pubblici. Sono le cospirazioni socialmente accettabili.

 

Nessuna di queste cospirazioni ha trovato davvero conclusione, giornalistica o giudiziaria – e forse anche questo non è troppo casuale. Godono di un lasciapassare immenso: se ti ci dedichi non vieni bollato come «complottista» – nemmeno se capita di dire cose che sono apertamente «complottiste» (abbiamo tanti esempi).

 

Le cospirazioni socialmente accettabili producono diacronicamente quantità di materiale impressionante, al punto che c’è da pensare che la nostra psiche, la nostra concezione della storia e della cittadinanza, sia in certa parte dovuta al fatto che gli oceani di parole sulle «cospirazioni socialmente accettabili» in verità ci tengono tutti a bagnomaria.

 

Non voglio qui sembrare ingiusto con il defunto Purgatori – non sto parlando espressamente di lui. Anzi di lui vorrei ricordare un’incursione proprio in uno di quegli ambiti toccato molto, molto raramente nella storia del nostro Paese (e anche quando è emerso il sangue, subito la ferità è stata ricucita, ricoperta, e non se ne è saputo più nulla: non fatemi parlare troppo).

 

Stiamo parlando della Sanità. Purgatori ebbe il coraggio di parlare di uno dei personaggi fondamentali del comparto, il cardinale Fiorenzo Angelini.

 

Il giovane reporter lo incontrò nel 1976 in Uganda. «Allora solo vescovo, ma già eminenza grigia della sanità cattolica con le mani in pasta in cinque ospedali di Roma, quattrocento immobili e ottomila ettari di tenute agricole intorno alla capitale. Il Giulio Andreotti del Vaticano, di cui era amico fraterno» scrive Purgatori (che si definiva credente non praticante).

 

«Sbucò tra le bouganville di un lodge con una camicia, un paio di bermuda color kaki e una cinepresa in mano. Fate conto Alberto Sordi in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa. Preciso» continua il giornalista descrivendo il futuro cardinale. «E dopo essersi presentato, chiese due informazioni: dove convenisse fare un buon cambio al mercato nero e se l’avorio di contrabbando a trentamila lire al chilo fosse un prezzo accettabile. Sembrava uno scherzo».

 

«Nel pomeriggio di quel giorno, incontrai un missionario italiano che viveva lì da dieci anni e lo trovai coi capelli dritti in testa, sconvolto. Mi raccontò che il monsignore gli aveva chiesto di battezzare un bambino nero, così, per fare un filmino ricordo insieme ai suoi amici. Allargando le braccia, il missionario gli aveva detto che non c’erano bambini da battezzare. Ma lui non aveva fratto una piega: Embé? Ne ribattezziamo uno già battezzato, magari ci diventa santo».

 

Angelini, ricordiamo, era detto «Sua sanità». Qualcuno preferiva chiamarlo «il Richelieu delle medicine». Il Fatto nel 2014 riportava un virgolettato di Duilio Poggiolini, «che fu direttore generale del servizio farmaceutico nazionale del ministero della Sanità, coinvolto nell’inchiesta “Mani pulite” e additato come membro della loggia massonica P2», proprio riguardo al porporato incontrato da Purgatori nel Continente Nero: «tutti avevano paura di monsignor Angelini, del suo potere immenso. Raccomandava i suoi, segnalava certi imprenditori farmaceutici, pretendeva per loro un trattamento di riguardo, condizionava, dettava legge, lo faceva attraverso i suoi referenti, nella CUF, la Commissione unica del farmaco, e nel CIP farmaci».

 

Purgatori lo aveva visto, pure nella sua incarnazione afro-turistica stile Alberto Sordi episcopale. Sapeva del suo potere nel mondo dei farmaci, di cui si poteva intuire l’intima natura. E quindi, ci chiediamo, come mai in questi anni del mondo della farmaceutica, che ha preso decisamente il centro della scena, il giornalista non ha dubitato mai?

 

«Il vaccino è l’unico orizzonte» disse in TV durante la pandemia.

 

Aveva difeso lockdown, mascherine. Il vaccino ha dimostrato, dati alla mano, il numero delle persone che finiscono in ospedalizzazione e soprattutto in terapia intensiva» ribadiva in televisione anche con un certo pathos. «Il merito è del vaccino, non è delle cure, non è della Provvidenza, non è delle tante sciocchezze che si sentono, in difesa, di che cosa, del nulla!»

 

A Paolo Brosio che, bonario e medjugoriano, gli ricordava che questo vaccino non è come quello che «abbiamo fatto da piccoli» diceva infervorato «non mi devi interrompere», ricordando che la Gran Bretagna aveva imposto clausura e mascherine anche perché «avendo fatto la Brexit, aveva problemi sociali enormi».

 

Nessuna delle trame di cui abbiamo parlato in questo sito negli ultimi terribili anni pareva essere mai entrata nel radar del giornalista. Il laboratorio cinese finanziato dagli americani, Bill Gates, il Congresso americano che vota sull’mRNA poche settimane prima del COVID, le armi biologiche, i vaccini DARPA, le Olimpiadi militari di Wuhan, la geopolitica del siero, Anthony Fauci e il Gain of Function, Christian Drosten e i test PCR, le simulazioni Lockstep, Dark Winter, Clade X, il green pass come viatico alla piattaforma del danaro programmabile che sta per sottometterci.

 

Niente, quelle rimangono solo a noi, perché, a differenza dello IOR e del Mostro di Firenze, sono cospirazioni non socialmente accettabili.

 

Mettiamola così: le cospirazioni socialmente accettabili ti aiutano a passare il tempo, sono intrattenimento, sono armi di distrazione di massa. Sono, di fatto, vero gatekeeping. Sono mantenute, e forse pure create, dall’establishment, dal sistema che vuole narcotizzarvi, piegarvi, disintegrarvi.

 

Le cospirazioni socialmente inaccettabili, invece, possono colpirti fisicamente, farti ammalare, ucciderti.

 

Sarà che di cose da fare ne abbiamo, e per il tempo libero c’è tanta scelta, ma noi staremo sempre sulle seconde: stiamo sulle storie che riguardano da vicino le nostre esistenze biologiche e spirituali, e quindi il destino della vita e della civiltà terrestri.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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