Economia
Piccoli Soros crescono (e stanno con Renzi)
Non è la prima volta che finisce sui giornali internazionali, certo.
Tuttavia, suppongo che prima mai avesse avuto un profilo personale sul New York Times.
Davide Serra, uomo dietro all’hedge fund Algebris e controverso advisor e finanziatore di Matteo Renzi, non deve aver ispirato simpatia alla giornalista, che deve aver preso male una sua battuta («mai sposare una donna americana, è il mio consiglio agli amici») e che magari quindi ha detto la sua al photo editor, il quale ha impaginato un’immagine del nostro con gli occhi chiusi.
Del resto sono quegli occhi scurissimi e aggressivi – o, in fondo, spaventati? – che mi hanno sempre colpito, oltre che quel tic pe rcui il Gordon Gekko del PD si rumina costantemente le labbra.
«Non è uno che opina in modo gentile, o in modo particolarmente attento» morde la giornalista. e «esternare lo pone lontano dalla maggior parte dei manager di hedge fund, che tipicamente usano mezzi estensivi e costosi per non suscitare attenzione».
Sarebbe così se non si sapesse chi è il suo modello finanziario e strategico: George Soros.
Il quale, salta fuori, con probabilità ora è anche suo socio.
Bravado
Ai giornali piace il suo ruolo di garrulo battitore libero. Un altro personaggio così, in quel paludato mondo fatto di silenti squali cravattati (e cravattari) e di noiosi burocrati, proprio non c’è.
Quando il tesoro inglese aumentò una tassa bancaria, disse semplicente «è stupido», paventando una diminuzione del PIL londinese di 10 punti.
Le multe inflitte alle banche che avevano venduto impropriamente assicurazioni di protezione del pagamento sono per serra «estorsioni realizzate su un piano nazionale». «Non si lascia la propria banca in balìa degli sciacalli». Evidentemente, si ritiene di una razza carnivora diversa.
I giornali economici in fondo amano questo personaggio sbruffone e un po’ sprovveduto. Un giorno, entrò al 10 di Downing Street per incontrare Cameron. La cartella che teneva in mano – visibilissima ai fotografi piazzati perennemente là fuori – recava la sigla RBS: Royal Bank of Scotland. Parve dunque piuttosto chiaro di cosa andasse a parlare col premier britannico il raider italiano. «Avrei dovuto portare dentro una copia di Playboy», ringhiò beffardo.
In più, si deve aggiungere una feature senza precedenti: ha nel taschino – una consulenza gratuita e disinteressata, certo – il premier di una nazione del G7, che il nostro foraggiò lautamente da quando partì con la sua scalata fatta di Leopolde e altri attacchi.
Tuttavia, i suoi investimenti – nota il giornale americano – corrispondono al «bravado» del titolo NYT, cioè la sfrontata esibizione di questo falso coraggio. Fino al 31 maggio, il suo fondo di finanza globale stava a + 30%, mentre il suo credit fund segnava un +5.6%, più alto degli indicatori finanziari generali.
Il fondo Algebris, gestito da Londra dove il nostro risiede da più di vent’anni, gestisce oramai un patrimonio di 2,5 miliardi di euro, che investe in operazioni finanziarie in tutto il mondo.
Salvato da Soros
Tuttavia, la storia del fondo non è fatta di sole rose. Nel 2011, Serra scommise nella tenuta dell’Eurozona. Sbagliò la tempistica: più si aggravava la crisi UE, e più Algebris precipitava. Il suo fondo equity perse qualcosa come il 45%, mentre il credit fund affogò in un -17%. Gli investitori scapparono.
Qualcuno, invece, vide in questo ragazzo e nei suoi giochi un qualcosa in cui credere.
Entra in scena George Soros, che lo rifornisce di 500 milioni di dollari di capitale. Abbastanza per salvare la baracca, e continuare i suoi piani di conquista.
La rivelazione è di un anonimo investitore nel fondo di Serra, il quale fa sapere di non volere commentare questa voce.
Soros ci vede giusto: con il progredire dei giorni, la situazione finanziaria europea riassesta alcune sue parti, e Serra torna con il 100% di ambo i rami del suo business.
Serra salvato da George Soros. Come il lettore può capire, considerando la discussa vicinanza di Serra a «demolition man» (come il New Yorker ha recentemente apostrofato Renzi), la cosa non è priva di importanti risvolti politici, geopolitici. E non solo.
La scommessa di Serra, oggi, è la stessa di quattro anni fa: l’Europa recupererà, grazie ad un quantitative easing che durerà un lustro. In pratica, una scommessa contro la catastrofe rappresentata dal Grexit o un’alzata troppo rapida dei tassi da parte di USA e UK.
Allo stesso tempo però, sta scommettendo contro i bond di Spagna e Portogallo.
«Ho imparato molto nel 2011. Le persone non sempre vogliono la cosa più razionale» racconta.
A Londra non tutti lo amano. Una fonte anonima racconta di una barzelletta a base di prostitute che gelò un pubblico di americani. Una specie di Berlusconi – figura che asserisce di disprezzare profondamente – che epperò non ha né la simpatia né il calore umano – o forse, quel che manca al nostro Soros in erba, è l’empatia.
Speculare sulla crisi
Tutto ciò non gli preclude di avere uno stuolo di contatti invidiabile.
La prossima mossa, pare che sarà la creazione di un fondo private equity che investa nella crescita dell’Italia. Di certo, a Roma il nostro ha le porte spalancate. Matteo Renzi – cui offre in apparenza consigli gratuiti, come a Cameron e perfino alle banche Centrali che cercano le sue analisi – è «l’unico politico che valga la pena di finanziare negli ultimi 20 o 30 anni». «È l’ultima speranza dell’Italia». In realtà, nel 2012 tradì brevemente il giovane fiorentino con il governo tecno-golpista del suo ex-preside bocconiano Mario Monti e Corrado Passera: «sono gli uomini giusti per il lavoro – dichiarò – sono il dream team». Nel 2013, con Matteo trombato alle primarie, dichiarò di votare Scelta Civica. Con Passera – ora con il partito sintetico «Italia Unica» ultroneo pretendente politico all’affiancamento di Renzi (per curare gli interessi della superborghesia meneghina e di qualche vescovo) – vi è epperò un rapporto particolare: il banchiere di Intesa San Paolo lo conobbe quando Serra lavorava per Morgan Stanley. «Persona di grande qualità» esclama l’ex-ministro quando il Serra incontrò lo scandalo della vecchia guardia PD che lo definì, parole di Bersani, «bandito delle Cayman».
Tuttavia, la creazione di un fondo legato alla crescita e alle imprese potrebbe essere una mossa simil-cosmetica. L’autunno scorso, infatti, emerse la manovra di Serra sui non-performing loans, «prestiti non performanti». Un prodotto finanziario particolarmente sinistro.
Si tratta né più né meno dei crediti deteriorati delle banche, mutui di disoccupati, prestiti che le aziende piegate dal crunch economico atlantico non sanno come ripagare a breve termine. Serra li acquista e poi riscuote dai debitori, che in molti casi si vedono arrivare l’ufficiale giudiziario a casa, con lo scopo, ovviamente, di portargliela via. Algebris investe nel processo 400 milioni di euro, e spera di guadagnare un margine del 15% annuo – il tutto sulla pelle di chi non riesca a pagare il mutuo.
Il fondo varato da Serra per la bisogna – Algebris npl fund 1- ha fatto incetta presso le banche italiane, concentrandosi sull’immobiliare abitativo.
Scoperto il giochetto, un giornalista de La7 intercetta il finanziere all’ultima Leopolda, dove il Davide va ad arringare le folle renziane. La reazione del trader è tragicamente inadeguata.
In un crescendo del suo tic labiale, incespica, si imbarazza, diviene aggresivo, prova a dire che la speculazione la sta facendo solo su immobili di lusso, poi gli scappa perfino una sbruffonata da arricchito («ho comperato ieri una villa a Portofino»), se ne va improvvisamente via masticando amaro. Impresentabile.
Ma è davvero così intelligente?
Può davvero considerarsi un erede della volpe Soros?
Mastro Soros
La volontà sembrerebbe essere quella. Leggendo il giornale dei bocconiani Tra i leoni, apprendiamo che Serra ha tenuto nella sua università un corso, al termine del quale regalò agli studenti un libro di George Soros, La teoria della riflessività. Si tratta del pensiero su cui si base la manipolazione del mercato ad opera di Soros: lungi dalla teoria economica della concorrenza perfetta, Soros sostiente che vi sia nei mercati una componente umana che genera indeterminatezza.
Si tratta della non corrispondenza tra le aspettative dei partecipanti e lo stato della situazione; «La riflessività può essere interpretata come un fenomeno circolare, o un circuito di retroazione a doppio senso, tra le opinioni dei partecipanti e il reale stato». In breve, controllando le idee di coloro che partecipano al gioco economico – cioè, quello che fanno gli enti messi in piedi da Soros (con l’ausilio quasi certo della CIA) come Open Sociey Foundation – si può controllare il mercato, che nulla ha di oggettivo, è una giungla di ombre, di riflessi.
I mercati azionari, ci par dunque di capire, si basano su umori non-economici.
Di qui, la necessità, per il vero dominus finanziario, di controllare i processi della politica e della società.
Soros ha con grande probabilità stipulato un qualche patto con i servizi americani, per conto dei quali, da decenni, opera in vari Paesi (specialmente ex-sovietici) con organizzazioni che fungono da «solvente» politico e sociale; quando il popolo è distratto – droga libero, sesso pornografia, aborto, tutto l’armamentario dei «diritti individuali» – e la politica è implosa e corruttibile, ecco che plana Soros a finanziarizzare le imprese collassate, ricavbandovi guadagni miliardari.
Davide Serra non segue uno schema tanto differente. Specula sulla crisi dei mutui, e coltiva subito i rapporti con forze di rottura – come il «rottamatore» Renzi – che promettono, coperti dallo sparigliare le carte, di fare qualche favore anche alla finanza internazionale.
Il modello Soros per Serra è talmente forte da divenire forse un impulso inconscio, pavloviano.
Ad un forum di investitori britannici, alla domanda «Perché Londra è un luogo così adatto agli investimenti», il nostro risponde con tranquillo candore: «perché ha una società aperta».
Società aperta. Cioè, Open Society, il nome della creatura principale di Soros. Un product placement – non si sa quanto involontario – dell’ente che procede alla costante erosione dello stato nazionale: abbiamo sotto gli occhi quello che sta avvenendo in Ucraina, ma lo stesso ruolino lo si vide nei primi anni Novanta in Polonia, in Iugoslavia, in Russia – dove però gli anticorpi reagirono.
E poi, vien da dire, le Cayman. Altro tocco degno del maestro Soros.
Quando scoppia la polemica nel PD, con Bersani che accusa Renzi di cattive frequentazioni e la base ex-comunista che vuole vederci chiaro sui finanziamenti alle Leopolde dell’allora sindaco di Firenze, emerge questa storia delle isole caraibiche, dove il Fondo Algebris avrebbe sede. Serra smentisce, di ce di pagare le tasse a Londra, dove vive e lavora. Eppure, molti giornali mainstream sono d’accordo nel supporre che il controllo sul mega-fondo sia affidato ad una società con base nel Mar delle Antille.« La decisione di affidarsi alla permissiva legislazione della Cayman Islands – scrive il Corriere nel 2007, quando Algebris e The Children’s Fund (domiciliati nello stesso edificio…) tentano l’inedita scalata alla banca olandese ABN AMRO (1) – non ha poi solo motivi di carattere fiscale, per non pagare cioè troppe tasse sulle commissioni incassate (circa l’ 1,5% sui fondi presi in gestione e il 13-16% sulle plusvalenze realizzate). Ma consente anche di alzare un muro insormontabile su finanziatori, proprietari e accordi di partnership».
Esattamente quello che fece, ancora negli anni Settata, il furbo Soros, che piazzò gli uffici del suo leggendario Quantum Fund presso le Antille Olandesi. Per evitare qualsivoglia intromissione da parte dell’FBI, il Quantum Fund mai e poi mai assunse personale con cittadinanza americana. Soros quindi operò legibus solutus da un paradiso fiscale totale, dove poteva schermare con tranquillità l’origine dei fondi che raccoglieva. Oltre alla presenza dei Rothschild, non sono pochi coloro che pensano che tra i sottoscrittori del fondo vi fossero con probabilità i cartelli della droga dei vicini paesi sudamericani (cfr. l’articolo di EFFEDIEFFE «Narcos-Soros»). La cosa non deve stupire: anche il grande fondo Bain Capital, guidato ai suoi albori dal candidato presidenziale mormone Mitt Romney, pare abbia di capitali parimenti provenienti dalla galassia della coca di Colombia, Bolivia e compagnia.
Rossa marmellata toscana
I giornali riportano che da quando è considerato intimo del premier i sottoscrittori del fondo sono aumentati.
Facile intuire che sia perché questo stancante lavoro di advisor – che per l’ufficialità risulta gratuito, ça va sans dire – in qualche modo è ripagato dal fortunato leader fiorentino.
Le mani di Serra sono ben sporche di marmellata toscana. Sporchissime, in realtà: e della confettura più rossa che c’è – il Monte dei Paschi di Siena, un crack da miliardi (subito riforniti, via IMU, dal suo ex-preside Monti divenuto premier) che tra i misteri conta pure un morto, in teoria suicida.
Serra, scriveva il sito comunista fiorentino Senzasoste, è «l’uomo che ha guadagnato (come da posizione ribassista rilevata dalla CONSOB) dal crollo è anche il grande sponsor di Renzi. Presidente del consiglio che si è badato bene dal rilasciare dichiarazioni in grado di alzare il titolo MPS. E anche di investire pubblicamente, con qualche richiesta di informativa resa pubblica, proprio la CONSOB del problema del titolo MPS. A fare da complice alla coppia Serra-Renzi il comune amico Lorenzo Bini Smaghi, banchiere fiorentino già membro del board della BCE, che va a giro per i talk-show a dichiarare, per depistare sulle emergenze nazionali, che non sono le banche il vero problema per l’Italia. Di sicuro le banche non sono un problema per i tre amici che, dalla crisi del sistema bancario nazionale, ci guadagnano e non poco sia pure a diverso titolo». Bini Smaghi, assieme a Serra, è fotografato raggiante lo scorso settembre – grazie, Dagospia – al matrimonio di Marco Carrai, il Gianni Letta di Renzi. Vicino a CL, ex Forza Italia, immanicato negli affari toscani prima e ora internazionali come pochi altri coetanei, Carrai è il vero tramite tra Renzi e il potentato che – disse rabbioso il cassiere PD dalemiano Ugo Sposetti – sostiene davvero l’attuale premier: «Israele e la destra americana». Due realtà incarnate da un’unica figura, quella di Michael Ledeen, che Carrai frequenta, e che fu perfino messo – lui, accusato di ogni sorta di nefandezza terroristica da generali dei servizi – tra i consigliori diplomatici del governo Renzi. Ledeen, per chiudere questa foto di gruppo, era anch’egli al matriomonio di Carrai con Bini Smaghi, Renzi e Serra.
«Insomma che cosa è Palazzo Chigi oggi? – si chiedono sconsolati i nostalgici marxisti fiorentini – E’ il più gigantesco covo di insider trading del paese. Un covo dove si detengono informazioni riservate, ad esempio, su MPS e, guarda te il caso, dove gli amici del presidente del consiglio su MPS finiscono per guadagnarci. Una volta poi smantellato il sistema locale del credito in Toscana poi qualcuno paghera’: contribuenti e rispamiatori ad esempio».
Qualcuno pagherà, il popolo. Qualcuno incasserà, gli amici di Renzi.
Dietro al lavoretto governativo sulle Popolari, e allo strano balzo di valore della Banca Etruria.
La puzza della manovra è fortissima. Serra emana senza pudore.
Il raider genovese si presenta alla CONSOB in stampelle – un brutto incidente sciistico, dove ha casa, e non solo – per discolparsi: «Serra, che attraverso il fondo Algebris era uscito allo scoperto dichiarando di aver operato sulle popolari, ma prima che venisse annunciato il decreto, nelle scorse settimane si è anche fatto avanti con una proposta per la Popolare dell’Etruria, finita nel mirino sia per il maxirialzo di Borsa sia perchè il vicepresidente è Pierluigi Boschi, il padre del ministro delle Riforme, Maria Elena».
Insomma, nelle strani gonfiori intorno alla Banca che foraggia la famiglia della popputa quanto vacua ministra, c’è Algebris. Insider Trading di stato.
Solo pochi giorni prima, il nome di Serra spuntava nella lista Falciani: anche lui tra i 7.500 correntisti ginevrini della HSBC, la banca inglese che nell’Ottocento lucrava sull’oppio cinese e ora implicata nel riciclaggio dei narco-cartelli messicani.
L’Italia premia i devastatori della sua economia
George Soros nel 1992 demolì la lira con una macchinazione monetaria transnazionale che passò alla storia della mega-pirateria finaziaria.
Ne ottenne, come rammentato più volte in questo sito, non solo un lauto compenso, ma anche gli onori da parte della politica: mentre in Indonesia lo squalo ungherese è condannato a morte in contumacia per speculazioni sulla rupia, Romano Prodi nel 1997 gli procurerà una laurea honoris causa nella sua Bologna. Un discreto nugolo di figure italiche implicate nella catastrofe finanziaria progettata da Soros faranno una carriera clamorosa: Prodi diventa Primo Ministro, Ciampi Presidente della Repubblica, Draghi assurge ai vertici della BCE.
Parallelamente, non possiamo dire che – nonostante le resistenze ostinate della povera sinistra PD – la politica e lo Stato italiano in generale stiano ponendo grosse barriere alla penetrazione del renziano allievo di Soros.
Così lo scorso maggio Serra viene fatto «Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana». La massima onoreficenza che può distribuire il Presidente della Repubblica. È la prima volta che viene data ad un italiano che vive e lavora all’estero.
Serra invia agli amici una email emozionata, con tanto di link alla pagina di wikipedia che riporta il titolo ottenuto (non sapeva neanche cosa fosse, prima). Si rivela entusiasta, ma l’acredine al personaggio non manca mai: «Volevo condividerlo con voi, i miei amici di Londra più stretti che sanno del mio impegno per l’Italia da Londra, i miei colleghi e i miei parenti che spesso non capiscono perché mi presto a insulti dai media (corrotti) italianiper il mio impegno civile.»
A premiarlo è Mattarella (il Capo di Stato con il carisma di un frigorifero), tuttavia si tratta di una sorta di «commendatore dell’oblò». L’ordine è infatti firmato, ben cinque mesi prima, dal Presidente Napolitano.
Esattamente lo stesso Napolitano che pochi giorni fa è stato premiato a Berlino dalla Henry Kissinger Academy, creatura del decano del mondialismo più assassino, che lo chiamava «il mio comunista preferito».
Che volete farci, è un mondo impazzito: l’ultimo gesto di un presidente che inneggiava ai carri sovietici di Budapest, è premiare un vampiro della più forsennata speculazione capitalista.
Il suo maestro Soros, che da Budapest era scappato, l’anno passato è divenuto socio della Coop. Serra, ai tempi dei guai di Ligresti, faceva un tifo sfrenato per l’acquisizione di Fonsai da parte di UNIPOL, il gruppo assicurativo del fu Partito Comunista Italiano.
Deve essere la fase terminale e umoristica della social-democrazia, dissolte beotamente nel gioco distruttore del grande capitale internazionale, inghiottita da ladri devastatori a cui si è prostituita per due Leopolde. La fase Parvus, dal nome del dissoluto finanziere che preparò, tra orge e affari, la Rivoluzione Russa: e proprio Parvus, ironia, è il nome di un hedge fund civetta partecipato anche da Serra.
Anche queste sono storie degne del deserto politico ed ideale che stiamo attraversando.
Tra pupazzi e vermi di ogni sorta, parassiti e profittatori si fanno largo con prepotenza, e con sempre meno pudore.
A spese di tutti noi.
NOTE
(1) Nel 2007, dopo aver tentato con boria mai vista una scalata contro la Generali del gerontocratico Antoine Bernheim (quello il cui figlio, pure banchiere, scrive saggi sul cannibalismo), Serra e il suo socio Halet guidano un tentativo capovolgere ABN AMRO attaccando il presidente Rijkman Groenink . Lo fanno assieme al fondo The Children’s Fund (TCI) di Chris Hohn, figlio di un metalmeccanico giamaicano che dice di regalare il 90% dei guadagni alle organizzazioni di charity.
Continua il Corriere: «Non è comunque un mistero, se ne trova traccia nei rari documenti ufficiali disponibili, che il TCI di Hohn sia anche il perno di un incrocio azionario con altri hedge fund. Come Parvus, creato dall’ ex Merrill Lynch Edoardo Mercadante, di cui possiede il 18%, il KDA Capital dell’ ex Fidelity David Baverez e, appunto, l’ Algebris di Serra. Negli ultimi due risulta presente con l’ 1% dei diritti di voto». La scalata venne poi portata da Royal Bank of Scotland, Santander e la seconda banca del Benelux Fortis.
Parvus – nome dell’indimenticato Izrail Lazervich Helfland, ricco rivoluzionario socialista odessita che lavorava con la Nestle e indulgeva in orge sfrenate mentre progettava l’appoggio tedesco a Lenin – è certamente un bel nome per un consorzio della crapula mondialista.
Roberto Dal Bosco
Articolo precedentemente pubblicato da EFFEDIEFFE.COM
Immagine di World Economic Forum via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-NC-SA 2.0)
Economia
Trump grazia l’ex CEO del gigante delle cripto Binance
Il presidente statunitense Donald Trump ha concesso la grazia presidenziale a Changpeng Zhao, noto come «CZ», fondatore ed ex amministratore delegato di Binance, la principale piattaforma di scambio di criptovalute a livello globale. Lo riporta il Wall Street Journal.
L’annuncio, proveniente dalla Casa Bianca, giunge dopo mesi di vigorose attività di lobbying e rappresenta un cambiamento significativo nella politica americana verso il settore delle criptovalute, con chiare ripercussioni sugli interessi familiari di Trump.
La grazia corona una serie di iniziative prolungate da parte di Zhao e della sua azienda per ottenere indulgenza, tra cui il sostegno attivo a World Liberty Financial, la piattaforma crypto associata alla famiglia Trump. Questa iniziativa, promossa dai figli del presidente Eric e Donald Jr., ha registrato un’impennata di valore – valutata in oltre 5 miliardi di dollari di ricchezza teorica – grazie a collaborazioni con entità legate a Binance, come un’intesa da 2 miliardi di dollari con un fondo degli Emirati Arabi Uniti che ha impiegato lo stablecoin USD1 di World Liberty per investimenti azionari.
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Zhao, un tempo tra i leader più influenti nel panorama degli asset digitali, era stato condannato nell’aprile 2024 a quattro mesi di detenzione dopo un accordo con il Dipartimento di Giustizia statunitense nel 2023. L’intesa prevedeva un’ammissione di responsabilità per violazioni antiriciclaggio, una sanzione record di 4,3 miliardi di dollari per Binance e una multa personale di 50 milioni per CZ, che aveva lasciato la carica di CEO.
Gli inquirenti federali avevano imputato alla piattaforma di aver favorito operazioni illecite con soggetti sanzionati, inclusi gruppi terroristici, e di non aver adottato misure sufficienti contro il riciclaggio di denaro. Il procedimento contro Zhao è stato uno dei casi più rappresentativi della campagna dell’amministrazione Biden contro le grandi exchange crypto, vista da molti come un’eccessiva stretta repressiva.
Completata la pena in una prigione federale a bassa sicurezza in California e poi in un centro di reinserimento, Zhao era stato liberato nel settembre 2024. Ci sono voluti quasi dodici mesi di sforzi per ottenere la grazia: all’inizio del 2025, l’azienda ha assunto il lobbista Ches McDowell, legato a Donald Trump Jr., per influenzare i decisori a Washington.
Fonti informate indicano che il team di Trump ha colto nel caso di Zhao l’occasione per avviare una «nuova era» nelle normative sulle criptovalute, favorendo l’innovazione anziché la repressione. Numerosi collaboratori del presidente considerano le imputazioni come motivazioni politiche, tipiche della più ampia «guerra alle crypto» promossa da Biden.
La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha giustificato la scelta con toni decisi: «il presidente Trump ha esercitato il suo potere costituzionale concedendo la grazia al signor Zhao, perseguitato dall’amministrazione Biden nella sua guerra alle criptovalute». E ha proseguito: «la guerra dell’amministrazione Biden contro le criptovalute è terminata». Interrogato dalla stampa, Trump ha sminuito l’importanza: «Molte persone sostengono che non avesse commesso alcun illecito. L’ho graziato su indicazione di persone affidabili, pur non conoscendolo di persona».
La decisione non manca di polemiche. Critici come la senatrice democratica Elizabeth Warren l’hanno bollata come un «evidente conflitto di interessi»: «Prima CZ si dichiara colpevole di riciclaggio, poi sostiene un’impresa crypto di Trump e fa lobbying per la grazia. Oggi Trump ricambia il favore».
Binance, che aveva visto prelievi per un miliardo dopo che CZ si era dichiarato colpevole, ha accolto la notizia come «incredibile» e ha espresso gratitudine a Trump per il suo impegno a trasformare gli Stati Uniti nella «capitale mondiale delle crypto».
Zhao, azionista di maggioranza di Binance fondata nel 2017, ha scritto sui social: «Profondamente grato per la grazia di oggi e al presidente Trump per aver difeso equità, innovazione e giustizia. Ci impegneremo al massimo per fare dell’America la capitale delle crypto».
Questa grazia non è solo una rivalsa personale per CZ, che ora potrebbe riprendere il controllo attivo di Binance, ma un segnale politico netto: l’amministrazione Trump mira a favorire il settore del Bitcoin e delle criptovalute, dissipando le ombre del passato.
In un contesto in cui Trump ha già graziato figure come Ross Ulbricht (come aveva promesso in campagna elettorale), ideatore della piattaforma di scambio del dark web Silk Road, il messaggio è inequivocabile: Washington è disposta a puntare sulle criptovalutea anche a costo di controversie.
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Come riportato da Renovatio 21, tre mesi fa la società Trump Media aveva investito 2 miliardi in bitcoini. Il bitcoin in quelle settimane toccava il record di 120.000 dollari.
In primavera i figli di Trump con il vicepresidente USA JD Vance avevano presenziato alla conferenza Bitcoin di Las Vegas esaltano le criptovalute. Eric Trump, figlio di Donald, ha avuto a dichiarare che con cripto e blockchain in dieci anni potremmo assistere all’estinzione degli istituti bancari.
Trump – che ha nominato le criptovalute come riserva strategica nazionale – aveva ospitato, sotto gli auspici del suo zar per l’AI e le crypto Davis Sacks, un grande evento per le monete elettroniche alla Casa Bianca praticamente appena insediatosi. Tra i primi decreti esecutivi firmati da Trump vi è quello che vieta le CBDC, cioè le valute digitali delle Banche centrali.
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Economia
Picco del prezzo del petrolio dopo le sanzioni statunitensi alla Russia
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Economia
La Volkswagen affronta la crisi dei chip dopo chel’Olanda ha sequestrato la fabbrica cinese
La principale casa automobilistica tedesca, Volkswagen, rischia di sospendere la produzione in un importante stabilimento a causa della carenza di semiconduttori, provocata dal sequestro di un produttore di chip di proprietà cinese da parte dei Paesi Bassi. Lo riporta il tabloide tedesco Bild, citando fonti anonime.
A fine settembre, il governo olandese ha preso il controllo dello stabilimento Nexperia di Nimega, adducendo problemi legati alla proprietà intellettuale e alla sicurezza. La settimana scorsa, il New York Times, dopo aver esaminato documenti di un tribunale di Amsterdam, ha rivelato che la decisione è stata influenzata dalle pressioni di funzionari statunitensi.
Wingtech, la società madre di Nexperia, è stata inserita nella lista nera di Washington nel 2024, nell’ambito della guerra commerciale con la Cina.
All’inizio di ottobre, Pechino ha reagito vietando a Nexperia l’esportazione di chip finiti dalla Cina, componenti essenziali per le centraline elettroniche dei veicoli Volkswagen.
Mercoledì la Bild ha riferito che Volkswagen, proprietaria anche di Skoda, Seat, Audi, Porsche, Lamborghini e Bentley, non sembra avere attualmente alternative ai chip di Nexperia. Fonti interne hanno indicato che, a causa della carenza di semiconduttori, la produzione nello stabilimento di Volsburgo potrebbe essere interrotta a partire da mercoledì prossimo, iniziando con la Volkswagen Golf e poi estendendosi ad altri modelli.
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Se la situazione non dovesse migliorare, la sospensione della produzione potrebbe riguardare anche gli stabilimenti di Emden, Hannover, Zwickau e altri, secondo una fonte informata.
Secondo il rapporto, Volkswagen ha avviato negoziati con le autorità tedesche per un programma di riduzione dell’orario di lavoro, sostenuto dallo Stato, per decine di migliaia di dipendenti.
Bild ha avvertito che la crisi dei chip potrebbe colpire anche altre case automobilistiche tedesche. Rappresentanti di BMW e Mercedes hanno dichiarato al giornale di stare monitorando la situazione. L’industria automobilistica tedesca è già in difficoltà a causa degli elevati costi energetici, legati alle sanzioni dell’UE contro la Russia per il conflitto in Ucraina, e all’aumento dei dazi americani.
Un portavoce dello stabilimento Volkswagen di Zwickau ha definito «errato» il rapporto di Bild, secondo quanto riferito all’agenzia AFP. Tuttavia, una lettera interna visionata dalla stampa ha ammesso che «non si possono escludere ripercussioni sulla produzione a breve termine» a causa della carenza di semiconduttori.
La tensione nelle relazioni Washington-Pechino, in ispecie con riguardo i microchip – che costituiscono, almeno per il momento, lo «scudo» contro l’invasione di Taiwan da parte dell’Esercito di Liberazione del Popolo della Repubblica Popolare Cinese – tocca sempre più apertamente non solo Cina e USA, ma l’intera economia mondiale, con effetti devastanti sull’Europa, che non è riuscita, nonostante i tentativi, di crearsi una sua autonomia sovrana sulla produzione di questo componente essenziale.
Come riportato da Renovatio 21, l’anno scorso era emerso che le fabbriche di semiconduttori con tecnologia avanzata olandese presenti a Taiwan potrebbero essere spente da remoto nel caso di invasione dell’isola da parte di Pechino. In particolare si tratterebbe delle fabbriche del colosso Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), che impiega tecnologie ultraviolette di estrema precisione (chiamate in gergo EUV) fornite da un’azienda olandese, la ASML. Tali macchine, grandi come un autobus e dal costo di circa 217 milioni di dollari cadauna, utilizzano onde luminose ad alta frequenza per stampare i chip più avanzati al mondo.
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Immagine di Michael Barera via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
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