Intelligence
Piazza Angleton. Ricordo del vero liberatore dell’Italia
L’anno scorso al 25 aprile vedemmo uno spettacolo indimenticabile. Alla marcia di Milano, quello in cui ogni sigla di sinistra possibile sfila da Piazzale Loreto – luogo del sacrifizio del cinghialone su cui si basa la Repubblica – ne accaddero di ogni.
Vedemmo, stropicciandoci molto gli occhi, comparire alla marcia… bandiere della NATO. Sì, proprio loro: e ci stavano pure delle persone, non dei robocani della Boston Dynamics, che le brandivano.
Spuntavano poi ovunque vessilli ucraini – si era a due mesi neanche dall’inizio dell’operazione militare speciale di Putin, che la sera prima aveva parlato dell’obiettivo, molto 25 aprile, di «denazificare» l’Ucraina.
Non sappiamo dire se a Milano sfilò anche qualcuno con i simboli del battaglione Azov, che all’epoca, prima del restyling con il quale si sono presentati pure a Washington, a Disneyland e a Tel Aviv, comprendevano una runa «dente di lupo» e un bel Sonnenrad, il «sole nero» della mistica SS.
C’è da dire che non tutti i presenti erano d’accordo. Ricordiamo con gusto il signore che apostrofava degli ucrainisti lì presenti dicendo loro «Azov dimmerda!!!».
Parimenti, gruppi di ragazzi di sinistra attaccavano l’allora segretario PD Letta accusandolo di essere «servo della NATO». I fanciulli goscisti, poverini, forse non sapevano che sia Letta che Renzi (tutti e due, poco tempo fa, capi di quello che fu il Partito Comunista) sono stati in lizza per il posto di Stoltenberg, cioè di segretario della NATO, vertice visibile del più grande e distruttivo patto militare della storia. Insomma, non esattamente «servi»: trovassero, i contestatori, un’altra definizione.
Tutto lo spettacolino, in fondo, era inevitabile, perché parlava dei nodi che, anche se a distanza di decenni, vengono al pettine. Chi ha liberato davvero l’Italia?
E poi: in Italia comanda chi l’ha liberata? Comanda chi l’ha liberata sulla carta, o chi l’ha liberata sul serio?
Tante foglie di fico, abbiamo visto, sono saltate. Quello che fu il partito comunista più grande d’Occidente ora difende l’americanismo più parossistico, il liberalismo più disperante, sostiene il regime di Kiev con le sue truppe di nazisti conclamati.
«Il 25 aprile si basa su un falso storico e cioè che siamo stati noi italiani a liberarci con le nostre stesse mani, mentre in realtà sono stati gli alleati angloamericani nelle cui file combattevano anche i razzisti sudafricani» ha dichiarato l’anziano giornalista, bastian contrario di professione, Massimo Fini in un’intervista all’Adnkronos. Non che siano partiti i dovuti 92 minuti di applausi di fantozziana memoria.
E allora, chi ha liberato l’Italia?
Beh, è facile dire che i partigiani hanno dato il cosiddetto «calcio dell’asino», che il grande lavoro lo hanno fatto le forze angloamericane.
E tale «lavoro», sappiamo bene cosa comprendeva: accordi con la mafia per lo sbarco in Sicilia, e poi bombardamenti a tappeto sulle nostre città, praticamente tutte, compresa Roma, fino a che, come non ne eravamo saturi. Saturation bombing, dicono, ma lo chiamano anche Strategic bombing, o meglio ancora, Terror bombing. Churchill ad un certo punto, dopo Dresda, lo ammise: era un «act of terror», era puro terrorismo. Dinanzi alle obiezioni del generale della RAF Arthur Harris, si rimangiò poi il commento.
L’Italia l’ha liberata «Pippo», in Italia lo chiamavano così, il bombardiere di cui mia nonna aveva ancora il terrore, perché quando arrivava doveva vestire i bambini che dormivano per trovare rifugio da qualche parte, e, mi raccontava, questi si riaddormentavano appena aveva finito di prepararli tutto.
«Pippo», mi disse mio zio, che era uno di quei bimbi, era ovunque, in una visione che non può dimenticare: «Pippo» copriva il cielo intero, c’erano così tanti aerei americani che era impossibile contarli, si poteva solo aspettare che finissero, che il cielo tornasse ad essere fatto di nuvole, e non di macchine di morte.
Sì: vogliono raccontarci che l’Italia è stata liberata da una gioventù comunista – scopertasi tale in pochi giorni – e non dall’immensa potenza cinetica dell’apparato di morte americano, quello che di lì a poco avrebbe spazzato via due intere città giapponesi con la potenza ultradistruttrice dell’atomo.
Torniamo a dire: semplice pensarla così. Semplice dire che è stata la forza degli angloidi a vincere la guerra e a denazificare l’Italia. In realtà in questo articolo, vorremmo fare un’altra cosa. Vorremmo fare qualche nome.
Ci sono figure con nome e cognome che, dietro le quinte, molto dietro le quinte, praticamente invisibili e misconosciuti ai più, hanno creato l’attuale Stato italiano. Ci sono agenti segreti, operativi sul terreno. Poi, più in su, vi sono menti decisive altissime, di quelle di cui non si sente parlare, anche perché parte del loro lavoro è fare in modo che non si parli di loro, e la Storia sembri qualcosa di lineare, naturale, progressiva, e non qualcosa di scelto da un potere terreno superiore.
Tra gli operativi sul campo da qualche anno si è cominciato a parlare di Richard «Dick» Mallaby (1919-1981), britannico cresciuto tra i campi da the dello Sri Lanka e le colline toscane. Divenuto spia dello Special Operations Executive (SOE) durante la guerra, fu utilizzato da Londra per favorire l’armistizio con gli angloamericani. Di fatto, dopo la proclamazione dell’armistizio del 1943, Mallaby viaggiò incorporato alla corte del Re e del Badoglio da Roma a Brindisi: una figura segretamente fondamentale in quella che si chiama «la resa degli ottocentomila». Successivamente Mallaby lavorò alla NATO, fino al 1981, quando morì a Verona. Al suo funerale era presente il generale Dozier, quello rapito dalle Brigate Rosse. Attualmente, tra film e teatri, circola la nipote Elettra, attrice di fascino magnetico, che come nonno materno ha Giussy Farina, il presidente che ha venduto il Milan a Berlusconi.
Se passiamo alle menti che davvero conquistarono l’Italia, il nome da fare è quello di James Jesus Angleton (1917-1987).
Pochissimi sanno di chi si tratta. La storiografia italiana, quella fatta di tanti comunisti inutili attaccati alle varie greppie accademico-editoriale che elargiscono stipendi e pubblicazione di libri inutili, lo ignora da sempre – nonostante i segni della sua importanza siano autoevidenti. Così come sono lampanti i tratti di grande dramma, di tragedia, di poesia, l’arco esistenziale romantico (diciamo così) che promana dalla sua figura.
Angleton era nato a Boise, in Idaho, da un ufficiale di cavalleria statunitense ed una messicana. Passò la gioventù a Milano, perché al padre era stato affidato il ramo italiano della NCR, una ditta di registratori di cassa. Studiò brevemente in Inghilterra per poi laurearsi a Yale. La sua materia era la poesia, in particolare quella modernista, astratta ad ermetica (William Carlos Williams, e. e. Cummings, Thomas S. Eliot, soprattutto Ezra Pound, con cui corrispondeva, anche quando nel dopoguerra lo teneva al gabbio) del periodo tra le due guerre. Poeta lui stesso, era redattore della rivista studentesca di poesia Furioso.
Mel 1943 fu arruolato dall’esercito, anche se in realtà lavoro immediatamente per l’OSS, l’agenzia di spionaggio antesignana della CIA, per dirigerne la branca italiana. Mandato a Londra, divenne amico di Kim Philby, che poi si rivelerà essere un agente doppio di Stalin. Nel 1944 fu trasferito in Italia come comandate dell’unità Z della SCI (Secret CounterIntellingence), dove usa informazioni che venivano dal programma britannico di decrittazione dei segnali tedeschi chiamato Ultra, quello che decifrò le macchine Enigma grazie al genio del matematico Alan Turing.
Da qui Angleton diresse praticamente ogni sviluppo del nostro Paese. Si racconta che fu lui a gestire i rapporti con la mafia, che permisero agli Alleati di sbarcare in Sicilia (si dice, tra i canti della popolazione: «Viva l’America! Viva la mafia!»).
Fu in contatto con l’allora sostituto Segretario di Stato Vaticano Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI – il quale, come raccontato da Renovatio 21, ha avuto un ruolo nel bloccare le richieste di armistizio con gli americani che i giapponesi avevano mandato attraverso la Santa Sede, cagionando quindi la distruzione atomica di Hiroshima e Nagasaki.
Angleton favorì quindi la costituzione di un partito maggioritario non-comunista che dovesse ereditare il potere centrale: ecco la Democrazia Cristiana, la cui ideologia, va ricordato, ha pure una base di università americana: Jacques Maritain, l’ideologo del cattodemocratismo il cui libro Umanesimo Integrale i futuri capi della DC leggevano e discutevano durante la guerra, era un francese riparato negli USA dove era stato accolto dal sistema dell’accademia statunitense e dai suoi sponsor, economici e settari, che avevano bisogno di una forma di cattolicesimo compatibile con la democrazia liberale da impartire alle popolazioni europee «liberate».
Non solo bisogna calcolare l’influenza di Angleton sulla creazione della DC, ma anche sulla sua vittoria contro il PCI alle elezioni del 1948. Parimenti, un pensiero andrebbe fatto anche sulla sua influenza nel referendum monarchia/repubblica del 1946.
In pratica, è l’uomo che organizzò e vinse la lotta ideale e materiale al nazisfascismo, e poi plasmò il Paese sia nella sua forma visibile (la politica, il parlamento) che nel suo strato invisibile (i servizi segreti, la mafia). E non vogliamo nemmeno immaginare il suo ruolo riguardo la stesura della Costituzione. Angleton è un vero padre della patria.
La storiografia italiana, cioè quella dei professorini occhialuti forforosi panzoni mantenuti con i loro truogoli statal-partitici editoriali di cui si parlava prima, lo ricorda appena per la questione di Junio Valerio Borghese, il capo della Decima MAS cui Angleton riuscì ad evitare l’esecuzione portandolo da Milano a Roma vestito da ufficiale americano.
In seguito, sarebbe divenuto la «madre della CIA» (il padre dell’agenzia è considerato da taluni l’ammiraglio Donovan, che lo aveva reclutato). Pur mantenendo sempre spie in Italia che riportavano direttamente a lui, si occupò di quantità di operazioni mondiali (si dice che aiutò il programma nucleare israeliano), per poi concentrarsi nel controspionaggio interno americano, dove le talpe di Stalin abbondavano, e la rivelazione che il suo amico Philby era un traditore comunista lo sconvolse.
Il controspionaggio gli distrusse la mente, e qualcuno ha detto che questo fu il risultato di un programma esplicito del KGB, che gli faceva arrivare informazioni contrastanti e falsi disertori per confonderlo e farlo diventare paranoico. I suoi sospetti divennero incontrollabili. Diresse l’Operazione CHAOS con la quale spiava cittadini americani. Disse che il segretario di Stato Henry Kissinger era sotto l’influenza del KGB. Informò due volte la polizia canadese che il prima ministro di Ottawa Lester Pearson e il suo successore Pierre Trudeau (il padre dell’attuale premier Justin, che qualcuno ritiene però figlio biologico di Fidel Castro) erano agenti KGB, così come erano asset dei servizi sovietici il primo ministro svedese Olof Palme (poi trucidato a Stoccolma in un caso ancora irrisolto) e il cancelliere della Germania Ovest Willy Brandt (famoso per la sua Ostpolitick, politica di apertura verso oriente).
Angleton sospettava di chiunque. Era finito in quello che lui stesso chiamava, con l’estrema poesia di Thomas Eliot, «wilderness of the mirrors», il deserto degli specchi. Mondi fatti di riflessi, di ombre, di informazione, controinformazione, dove la propria lucidità è l’arma da cui si procede alla salvezza della propria parte, ma niente è come sembra, niente è davvero reale.
Nel 1974, in seguito ad un articolo di Seymour Hersh sul New York Times sullo stato del controspionaggio americano, Angleton si dimise. Era la viglia di Natale.
Quando morì di cancro del 1987 la sua famiglia era entrata in gruppi religiosi sikh, con l’influenza specifica del guru Harbhajan Singh Khalsa, detto Yogi Bhajan, santone dello yoga accusato poi di molestie sessuali da centinaia di donne sue seguaci.
Su Angleton vi sono due opere ragguardevoli – ma, bizzarramente, parliamo di film hollywoodiani e non di libri. Una è la miniserie The Company (2007), una storia della CIA basata sul romanzo di Robert Littel, dove Angleton è interpretato dal luciferino Michael Keaton. L’altra è la pellicola di Robert De Niro (che oltre ad essere uno dei più grandi attori della storia è un regista enorme) The Good Shepherd (2006), con Matt Damon e Angelina Jolie. Il film di De Niro, che non nomina direttamente Angleton ma se ne ispira dettagliosamente, pone con determinazione questioni sulle quali gli storici ancora cincischiano, come il rapporto tra CIA e mafia, continuato intensamente anche dopo la guerra, e soprattutto quello della CIA come sorta di società iniziatica nata dalla setta universitaria di Yale Skull and Bones (non nominata direttamente, ma rappresentata in modo egregio nei suoi riti di iniziazione umilianti).
Ma al di là di film, che peraltro nessuno ricorda, niente di niente. Sulla sua figura, così rilevante per la struttura stessa del nostro Paese, non c’è nulla, nessuno che lo voglia non dico celebrare, ma anche solo mandargli un pensiero grato. Tanti poteri che hanno prosperato dopo la liberazione dovrebbero ringraziarlo, invece niente. Magari lui non si offende: del resto era pagato per rimanere nell’ombra, e ci è voluto mezzo secolo prima che ci facessero sopra, timidamente, un film.
Di qui la proposta di Renovatio 21 per il prossimo 25 aprile: si faccia entrare Angleton nella toponomastica italiana. Via Angleton. Corso Angleton. Piazza Angleton.
Abbiamo nelle nostre città quantità di luoghi che portano il nome del satanico terrorista massonico Giuseppe Mazzini, che è morto in esilio come un Bin Laden qualunque. Immaginiamo che la superfetazione di vie mazziniane in Italia sia dovuta, oltre all’influenza di quelli col grembiule, che non manca mai, anche al fatto che si ritiene che il Giuseppe abbia contribuito alla forma dell’Italia attuale (compresa la strana mancanza di appetito del personaggio per territori italofoni come Malta, dove in effetti ci stavano gli inglesi etc.)
Quindi, a coloro che hanno nei decenni e nei secoli definito la forma del Bel Paese, perché non tributare il giusto?
È possibile pensare che, con tutto il rispetto per il nome della località del grande santuario mariano, si possa ribattezzare Piazzale Loreto come Piazza Angleton?
Sarebbe d’uopo. Se da Piazza Angleton poi partissero tutte le comitive del 25 aprile, NATO e ucraini inclusi, sarebbe un grado di onestà intellettuale per tutti.
Liberazione dalle menzogne e dall’ingratitudine, innanzitutto. No?
Roberto Dal Bosco
Intelligence
Generale Flynn: valutazione strategica della rivoluzione colorata in America
Renovatio 21 pubblica questo scritto apparso su Substack del generale Michael Flynn.
Il popolo americano ha appena tirato il primo respiro dopo essere sopravvissuto a un tentativo di soffocare la Repubblica attraverso una campagna culturale di ispirazione marxista, condotta in gran parte attraverso l’amministrazione statale, i media, il mondo accademico e gli elementi politicizzati della burocrazia della sicurezza nazionale. La maggior parte dei cittadini non se ne è resa conto appieno mentre accadeva. Molti membri della comunità dell’Intelligence l’hanno accettato passivamente o l’hanno promosso attivamente. Gli architetti di questo progetto non hanno ancora finito, ma il loro impegno è stato danneggiato e ritardato. È solo per grazia di Dio che il Paese è arrivato fino a questo punto.
La versione americana della Rivoluzione Culturale è distinta dal modello maoista che devastò la Cina nel XX secolo. Non si coalizzò attorno a una singola figura rivoluzionaria carismatica. Si diffuse invece lungo le arterie della burocrazia, dell’istruzione superiore, delle strutture aziendali e delle reti di attivisti. La lunga marcia attraverso le istituzioni, come descritta da Antonio Gramsci, divenne il modello operativo. Invece di Guardie Rosse che riempivano le strade agli ordini di un leader supremo identificabile, gli Stati Uniti hanno sperimentato una convergenza coordinata di agenzie, ONG, fondazioni, organi di stampa e fronti di attivisti, tutti promotori dello stesso progetto ideologico sotto etichette diverse.
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Poiché le agenzie federali differiscono notevolmente per dimensioni, missione, cultura e resistenza interna, questa rivoluzione si è sviluppata in modo disomogeneo. Non ha mai raggiunto il dominio totale in un unico colpo decisivo. Al contrario, ha progredito con conquiste frammentarie e ha subito sconfitte frammentarie.
Ovunque il progetto ideologico conquistasse un dipartimento delle risorse umane, un percorso di formazione, un sistema scolastico pubblico o una piattaforma mediatica centrale, incontrava resistenza nei governi statali, nei media indipendenti, nei singoli tribunali e nelle reti di cittadini che si rifiutavano di conformarsi. Questa frammentarietà nell’attuazione ha rallentato il collasso e ha dato al popolo americano il tempo di rendersi conto di cosa stava accadendo e di reagire.
Anche mentre queste battaglie si svolgevano pubblicamente, correnti più oscure si muovevano sotto la superficie. Ora valutiamo che migliaia di dipendenti federali religiosi e conservatori siano stati identificati in modo discreto e indirizzati a un’entità federale poco nota, la Pre-Trial Services Agency. I resoconti e la documentazione iniziale indicano che questa agenzia potrebbe essere stata utilizzata per catalogare individui esclusivamente sulla base di ideologia e convinzioni religiose, con il pretesto del 6 gennaio e della non conformità alle vaccinazioni. L’intenzione sembra essere stata non solo la rimozione amministrativa, ma anche la potenziale criminalizzazione. Questa questione richiede un’indagine immediata e trasparente da parte di qualsiasi futura amministrazione che affermi di prendere sul serio lo stato di diritto.
Per comprendere il contesto più ampio, è necessario definire cosa intendiamo con il concetto di stato sociale. Non ci limitiamo a descrivere i programmi sociali tradizionali. Ci riferiamo invece a una costellazione di gruppi di attivisti professionisti completamente finanziati che si presentano come cause separate ma in realtà formano un unico blocco rivoluzionario. Nell’ultimo decennio, le organizzazioni sotto le insegne dell’antifascismo, della giustizia razziale, del femminismo radicale, dell’aborto su richiesta, di alcune fazioni LGBTQ+, dell’estremismo ambientalista e della difesa del controllo delle armi hanno mostrato una notevole coesione. Condividono donatori, personale, strutture narrative e tattiche di strada. I loro membri si sovrappongono. I loro messaggi sono sincronizzati. Si sostengono rapidamente a vicenda nelle campagne e nelle proteste.
Questi gruppi si presentano come movimenti di base. In realtà, funzionano molto più come una casta rivoluzionaria professionalizzata. Il loro nucleo non è composto da cittadini comuni, ma da attivisti qualificati che considerano l’agitazione un’occupazione a tempo pieno. Sono finanziati da un mix di fondazioni private, ricchi donatori e, in alcuni casi, risorse federali e statali. Fungono da braccio operativo e digitale di un progetto ideologico più ampio il cui obiettivo non è la riforma, ma la trasformazione. Sono uniti da una visione del mondo esplicitamente rivoluzionaria e implicitamente marxista, anche se molti dei loro militanti non usano questo linguaggio.
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All’interno di questa struttura, Diversità, Equità e Inclusione svolgono un ruolo centrale. La DEI non è una moda aziendale innocua. È un sistema di armi culturali e psicologiche. In pratica, la formazione e l’applicazione della DEI operano come un meccanismo di condizionamento comportamentale, utilizzando sensi di colpa, sessioni di lotta e la costante minaccia di punizioni sociali o professionali per riportare gli individui alla normalità. Il linguaggio delle microaggressioni, dei privilegi e dei pregiudizi sistemici funziona come una forma blanda di controllo ideologico. Costringe le persone a monitorare il proprio linguaggio, a mettere in discussione i propri istinti e a sottomettersi a un insieme in continua espansione di parole proibite e rituali obbligatori.
Questa non è inclusione. È conformismo forzato mascherato da virtù. I risultati all’interno delle istituzioni sono paura, silenzio e autocensura. Le persone imparano rapidamente che non si possono porre domande specifiche, affermare certi fatti e riconoscere certe prospettive senza mettere a repentaglio la propria carriera. Questo non è un effetto collaterale accidentale. È il punto. Se riesci a costringere le persone a mentire pubblicamente su realtà evidenti, le possiedi. La DEI è quindi meglio intesa come un’applicazione interna della rieducazione politica, in linea con gli approcci marxisti e neomarxisti al cambiamento culturale.
Redwashing è il termine che usiamo per la cancellazione sistematica di materiale che espone la storia, le tattiche e le conseguenze del marxismo. Quando l’educazione civica e la storia tradizionale americana vengono rimosse dai programmi scolastici e sostituite da narrazioni di risentimento, si prepara il terreno per una nuova ideologia. Quando la storia delle atrocità socialiste viene sepolta o ignorata, intere generazioni perdono la capacità di riconoscere modelli che i loro nonni avrebbero visto immediatamente. Questo non è accaduto per caso. L’istruzione superiore, i media e l’intrattenimento sono diventati i principali obiettivi di questa riscrittura della memoria.
Nel 2020, gli Stati Uniti erano stati sottoposti a decenni di questo rimodellamento culturale. Il Paese era arrivato quell’anno già indebolito e diviso. L’impatto combinato di una pandemia globale, di una campagna d’informazione del Partito Comunista Cinese e di disordini civili senza precedenti aveva portato il Paese a uno stato di esaurimento. Le forze dell’ordine erano sotto organico e demoralizzate. Il sistema sanitario era al limite delle sue capacità. Le scuole di ogni ordine e grado erano chiuse o ridotte a schermi. Le funzioni basilari che contraddistinguono una nazione del primo mondo erano state messe sotto assedio.
Queste condizioni erano ideali per gli attori rivoluzionari che comprendevano il concetto bolscevico della scintilla. Nella Cina di Mao, le brigate giovanili divennero strumenti di caos una volta che l’autorità della polizia fu smantellata e le strutture tradizionali indebolite. Negli Stati Uniti, le politiche che prevedevano il definanziamento e la delegittimazione della polizia, combinate con la protezione politica dei rivoltosi, produssero qualcosa di simile nello spirito. Le rivolte a catena del 2020 non furono un’eruzione spontanea. Furono una fase di condizionamento, progettata per minare la fiducia dell’opinione pubblica, normalizzare la violenza politica da sinistra e preparare il terreno emotivo per una crisi più mirata.
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Quella crisi è scoppiata il 6 gennaio. In questo caso, è essenziale comprendere la dottrina della violenza moderata. Questa tattica cerca di provocare un avversario in un atto disperato o imprudente che può poi essere utilizzato come arma per giustificare una repressione. Per un anno, gli americani hanno visto le loro città bruciare e si sono sentiti dire che si trattava di un evento per lo più pacifico. Poi, in un solo giorno, una protesta sul terreno del Campidoglio è stata presentata come un’insurrezione, una minaccia esistenziale alla «democrazia» e il fondamento morale per una campagna di arresti, sorveglianza e persecuzioni durata anni. Le rivolte della sinistra si sono fermate all’istante. La narrazione è cambiata da un giorno all’altro. Questo brusco cambiamento rivela un disegno, non una coincidenza.
Il 6 gennaio fu il punto di svolta pianificato che permise all’alleanza tra burocrazia e attivisti di dichiarare aperta la caccia agli americani conservatori e religiosi. Divenne la lente attraverso cui ogni dissenso poteva essere etichettato come pericoloso e sleale. Le persone che entrarono al Campidoglio quel giorno, molte delle quali pacifiche e sconcertate, divennero il pretesto per un progetto più ampio volto a rimodellare l’apparato di sicurezza nazionale dall’interno.
Ciò che accadde in seguito andò oltre l’attivismo di strada o la cattura culturale. Entrò nel flusso sanguigno dello Stato di sicurezza nazionale. Le conseguenze del 6 gennaio, il crollo dell’Afghanistan e gli obblighi federali sui vaccini si combinarono in un tentativo senza precedenti di rimodellare la forza lavoro federale attraverso la coercizione, l’intimidazione e la purificazione ideologica. All’interno della CIA e in tutto l’apparato di sicurezza nazionale, la rivoluzione interna raggiunse il suo apice, per poi iniziare a frantumarsi a causa delle sue stesse contraddizioni.
Il collasso sociale non è mai un evento isolato. È un processo.
Michael T. Flynn
Ex generale statunitense, già consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente degli Stati Uniti
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Immagine di Mike Shaheen via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
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La CIA, il KGB e il mistero di Igor Orlov detto Sasha
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Il capo dell’Intelligence iraniana accusa Stati Uniti e Israele di complottare per assassinare Khamenei
Il capo dei servizi segreti iraniani ha accusato Stati Uniti e Israele di aver ordito un complotto per assassinare la Guida Suprema Ayatollah Ali Khamenei, al fine di destabilizzare l’Iran, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa ISNA.
Sabato il ministro dell’Intelligence Esmail Khatib ha dichiarato che «il nemico cerca di colpire il leader supremo, a volte con tentativi di omicidio, a volte con aggressioni ostili», alludendo esplicitamente a Washington e Tel Aviv. Non è chiaro se si riferisse a un piano specifico, ma tali accuse pubbliche su minacce alla vita di Khamenei erano rare prima della guerra di 12 giorni tra Israele e Iran di giugno.
In quel conflitto, i raid israeliani hanno eliminato diversi alti ufficiali e scienziati nucleari iraniani, culminando in un cessate il fuoco mediato dagli USA il 24 giugno. Il premier Benjamin Netanyahu ha rivendicato gli attacchi come necessari per impedire a Teheran di sviluppare armi nucleari – una linea condivisa da Washington, che il 22 giugno si era unita ai bombardamenti su impianti nucleari iraniani. L’Iran, che nega ambizioni nucleari militari, ha bollato le operazioni come ingiustificate.
Khatib ha ammonito che «chi agisce in questa direzione, consapevolmente o meno, è un agente infiltrato del nemico». Ha poi rivelato che Israele sta affrontando «un’epidemia di infiltrazioni e spionaggio a favore dell’Iran nelle sue istituzioni», citando l’arresto recente di un ufficiale dell’aeronautica israeliana accusato di tradimento per Teheran. Secondo il ministro, l’Iran ha acquisito documenti segreti su programmi nucleari e sicurezza israeliana.
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Per Khatib, questa falla nel controspionaggio israeliano, unita alla «ferma posizione» iraniana durante la guerra, segnala un mutamento negli equilibri di potere regionali.
All’inizio dell’anno Netanyahu aveva smentito voci su un veto opposto dal presidente Donald Trump a un piano israeliano per eliminare Khamenei durante il conflitto, aggiungendo tuttavia che un tale strike «avrebbe posto fine alla guerra». Trump aveva replicato con minacce, definendo Khamenei un «bersaglio facilissimo» e precisando che Washington non lo avrebbe «eliminato, almeno non ora»; in seguito, su Truth Social, ha vantato di aver risparmiato al leader iraniano «una morte molto brutta e ignominiosa».
Come riportato da Renovatio 21, la Guida Suprema della Rivoluzione rispose al presidente americano promettendo «danni irreparabili» agli USA e annunciando che la Repubblica Islamica non avrebbe accettato una pace imposta.
Più tardi sarebbe emerso che lo stesso Trump avrebbe posto un veto al piano israeliano di assassinare l’ayatollah.
Khamenei, 86 anni, guida suprema dell’Iran dal 1989, detiene l’autorità ultima su ogni aspetto dello Stato. A inizio anno aveva definito «né saggio, né intelligente, né onorevole» iniziare dei colloqui con il presidente statunitense.
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Immagine di Mehr News Agency via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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