Politica
Obbligo vaccinale e Recovery Fund, la mossa del sindacato
Si è concluso senza firma l’incontro di ieri tra i tecnici del ministero dell’Istruzione con i sindacati della scuola sul protocollo sulla sicurezza in vista dell’inizio dell’anno scolastico.
«Quello di ieri con il capo dipartimento del ministero Jacopo Greco era il primo incontro dall’entrata in vigore dell’obbligo di certificazione verde per i docenti e tutto il personale della scuola con sanzioni fino alla sospensione dallo stipendio per chi non presenta un tampone negativo o il certificato di avvenuta vaccinazione. I 6 sindacati di categoria – CGIL, CISL, UIL, SNALS, GILDA, ANIEF – non hanno voluto firmare il protocollo con tutte le misure per il ritorno in classe il prossimo settembre. Il sindacato ANIEF, ad esempio, ha raccolto 100 mila firme contro il green pass». Ne scrivono Gianna Fregonara e Claudia Voltattorni sul Corriere della Sera.
Il segretario della CGIL scrive una lettera a La Repubblica, dove sembra sfidare il Governo ad introdurre una legge su l’obbligo vaccinale.
«La CGIL, diversamente da altri, non ha mai posto questioni di principio sullo strumento del Green Pass, pur in presenza di raccomandazioni europee a non adottare norme discriminatorie. Diciamo una cosa molto semplice: se il governo ritiene che il vaccino debba essere obbligatorio per tutti, proponga subito al Parlamento una legge. Noi non siamo contrari. La nostra Costituzione indica questa soluzione per tenere insieme i diritti inviolabili delle persone e la necessità di garantire e tutelare la salute pubblica, l’interesse e la sicurezza della collettività. Perché il governo non lo fa?».
I sindacati sanno bene che, senza il loro consenso, il green pass non ha futuro, ma sanno altrettanto bene che una legge sull’obbligo vaccinale farebbe saltare in aria il Parlamento
Ora, i sindacati sanno bene che, senza il loro consenso, il green pass non ha futuro.
Ma i sindacati sanno altrettanto bene che una legge sull’obbligo vaccinale farebbe saltare in aria il Parlamento.
Siamo appena entrati nel semestre bianco (il semestre in cui il Presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere in attesa della nuova elezione) e su un tema come questo si andrebbe a creare un Vietnam senza nemmeno più il freno dell’attaccamento alle poltrone (garantite per qualche mese).
Inoltre, nessun partito avrebbe interesse a trovarsi in un contesto conflittuale di questa portata perché rischierebbe di destabilizzare l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica a proprio svantaggio.
Sarebbe addirittura a rischio la stessa sopravvivenza di diversi partiti politici, a cominciare dalla Lega, un partito che ha già dimostrato di avere una forte ala vaccinista, da Zaia a Fedriga, passando per Giorgetti.
Un partito, la Lega, riuscito a mantenersi ambiguamente su una posizione cerchiobottista tra un selfie con la crema spalmabile e qualche mugugno sui danni ai ristoratori.
Nessun partito avrebbe interesse a trovarsi in un contesto conflittuale di questa portata perché rischierebbe di destabilizzare l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica a proprio svantaggio
Dunque, la richiesta dei sindacati è irrealizzabile e ne sono consapevoli.
Ci domandiamo, quindi: i sindacati vogliono affondare il green pass?
Improbabile; più verosimilmente potrebbero voler riprendere peso nella gestione del Recovery Fund (240 miliardi), dove hanno nei mesi passati lamentato di essere stati relegati a ruolo marginale.
La minaccia di far saltare i green pass potrebbe essere soltanto il mezzo per sedersi al tavolo dei grandi per gestire il PNRR nei prossimi anni.
Visto il ruolo centrale che i sindacati hanno sulla road map dell’obbligo vaccinale, a posteriori non sembra nemmeno un caso che la stampa allineata abbia tenuto vivo da mesi l’argomento della sicurezza sul lavoro, un tema retorico per dare modo ai sindacati di non perdere troppo smalto agli occhi dei lavoratori sui quali incombe lo sblocco dei licenziamenti. Evidentemente non è sufficiente.
La minaccia di far saltare i green pass potrebbe essere soltanto il mezzo per sedersi al tavolo dei grandi per gestire il PNRR nei prossimi anni
D’altra parte Maurizio Landini lo aveva già detto a Massimo Giannini su La Stampa nel mese di giugno, in previsione della fine dell’estate:
«Draghi ci coinvolga o sarà rottura sociale».
E, come dice il poeta, l’estate sta finendo.
Gian Battista Airaghi
Politica
I detenuti minacciano Sarkozy e giurano vendetta vera per Gheddafi
Un video girato con un cellulare nella prigione parigina La Santé sembra mostrare che i detenuti hanno minacciato l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy di vendicare la morte del defunto leader libico Muammar Gheddafi.
Sarkozy, 70 anni, ha iniziato a scontare la sua condanna a cinque anni martedì, dopo che un tribunale di Parigi lo ha dichiarato colpevole di associazione a delinquere finalizzata a finanziare la sua campagna presidenziale del 2007 con denaro di Gheddafi, contro il quale in seguito guidò un’operazione di cambio di regime sostenuta dalla NATO che distrusse la Libia e portò alla morte di Gheddafi.
Martedì hanno iniziato a circolare video ripresi da La Sante, in cui presunti detenuti minacciavano e insultavano Sarkozy, che sta scontando la sua pena nell’ala di isolamento del carcere.
«Vendicheremo Gheddafi! Sappiamo tutto, Sarko! Restituisci i miliardi di dollari!», ha gridato un uomo in un video pubblicato sui social media. «È tutto solo nella sua cella. È appena arrivato… se la passerà brutta».
A viral video shows a prisoner confronting Nicolas Sarkozy, saying, “We’ll avenge Gaddafi. Give back the billions.” The former French president, jailed for conspiracy, is accused of taking Libyan money before leading NATO’s 2011 war that killed Gaddafi. pic.twitter.com/KlAISnFVSX
— comra (@comrawire) October 22, 2025
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Il ministro degli Interni francese Laurent Nunez ha sottolineato che, a causa del pericolo, due agenti di polizia della scorta di sicurezza assegnata agli ex presidenti saranno di stanza in modo permanente nelle celle adiacenti a quella di Sarkozy.
«L’ex presidente della Repubblica ha diritto alla protezione in virtù del suo status. È evidente che sussiste una minaccia nei suoi confronti, e questa protezione viene mantenuta durante la sua detenzione», ha dichiarato Nunez mercoledì alla radio Europe 1.
Sarkozy, che ha guidato la Francia tra il 2007 e il 2012, ha negato tutte le accuse a suo carico, sostenendo che siano di matrice politica. Il suo team legale ha presentato una richiesta di scarcerazione anticipata, in attesa del procedimento di appello.
L’inchiesta su Sarkozy è iniziata nel 2013, in seguito alle affermazioni del figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, secondo cui suo padre aveva fornito alla campagna dell’ex presidente circa 50 milioni di euro.
A dicembre 2024, la Corte Suprema francese ha confermato una condanna del 2021 per corruzione e traffico di influenze, imponendo a Sarkozy un dispositivo elettronico per un anno. È stato anche condannato per finanziamento illecito della campagna per la rielezione fallita del 2012, scontando la pena agli arresti domiciliari.
Nel 2011, Sarkozy ha avuto un ruolo di primo piano nell’intervento della coalizione NATO che ha portato alla cacciata e alla morte di Gheddafi, facendo sprofondare la Libia in un caos dal quale non si è più risollevata.
Come riportato da Renovatio 21, all’inizio del 2025 gli era stata revocata la Legion d’Onore. In Italia alcuni hanno scherzato dicendo che ora «Sarkozy non ride più», un diretto riferimento a quando una sua risata fatta con sguardo complice ad Angela Merkel precedette le dimissioni del premier Silvio Berlusconi nel 2011 e l’installazione in Italia (sotto la ridicola minaccia dello «spread») dell’eurotecnocrate bocconiano Mario Monti.
Nell’affaire Gheddafi finì accusata di «falsificazione di testimonianze» e «associazione a delinquere allo scopo di preparare una frode processuale e corruzione del personale giudiziario» anche la moglie del Sarkozy, l’algida ex modella torinese Carla Bruni, la quale, presentatole il presidente dall’amico comune Jacques Séguela (pubblicitario autore delle campagne di Mitterand e Eltsin) secondo la leggenda avrebbe confidato «voglio un uomo dotato della bomba atomica».
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Politica
Il Giappone elegge una donna conservatrice come primo ministro
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Politica
Elezioni in Bolivia, il Paese si sposta a destra
Domenica si è svolto in Bolivia il ballottaggio per le elezioni presidenziali, che ha visto contrapporsi due candidati di destra: il senatore centrista Rodrigo Paz Pereira e l’ex presidente conservatore Jorge Quiroga.
I risultati preliminari indicano che Paz ha ottenuto il 54,6% dei voti, mentre Quiroga si è fermato al 45,4%. Sebbene sia prevista un’analisi manuale delle schede, è improbabile che il risultato definitivo differisca significativamente dal conteggio iniziale, basato sul 97% delle schede scrutinate.
Le elezioni segnano la fine del ventennale dominio del partito di sinistra Movimiento al Socialismo (MAS), che ha subito una pesante sconfitta nelle elezioni di fine agosto. Il presidente uscente Luis Arce – che ha recentemente accusato gli USA di controllare l’America latina sotto la maschera della «guerra alla droga» – non si è ricandidato, e il candidato del MAS, il ministro degli Interni Eduardo del Castillo, ha raccolto solo il 3,16% dei voti, superando di poco la soglia necessaria per mantenere lo status legale del partito.
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Nel primo turno, la destra ha dominato: Paz ha ottenuto il 32,1% dei voti e Quiroga il 26,8%. Il magnate di centro-destra Samuel Doria Medina, a lungo favorito nei sondaggi, si è classificato terzo con il 19,9% e ha subito appoggiato Paz per il ballottaggio.
Entrambi i candidati hanno basato la loro campagna sullo smantellamento dell’eredità del MAS, differendo però nei metodi. Paz ha promesso riforme graduali, mentre Quiroga ha sostenuto cambiamenti rapidi, proponendo severe misure di austerità per affrontare la crisi.
Il MAS non si è mai ripreso dai disordini del 2019, quando l’ex presidente Evo Morales fu deposto da un colpo di Stato subito dopo aver ottenuto un controverso quarto mandato. In precedenza, Morales aveva perso di misura un referendum per modificare la norma costituzionale che limita a due i mandati presidenziali e vicepresidenziali. Più di recente, Morales ha accusato tentativi di assassinarlo ed è entrato in sciopero della fame, mentre i suoi sostenitori hanno dato vita ad una ribellione. Il Morales, recentemente accusato anche di stupro (accuse che lui definisce «politiche»), in una lunga intervista aveva detto che dietro il suo rovesciamento nel 2019 vi erano «la politica dell’impero, la cultura della morte» degli angloamericani.
Il colpo di Stato portò al potere la politica di destra Jeanine Áñez, seconda vicepresidente del Senato. Tuttavia, il MAS riconquistò terreno nelle elezioni anticipate dell’ottobre 2020, mentre Áñez fu incarcerata per i crimini commessi durante la repressione delle proteste seguite al golpe.
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Il passaggio storico è stato definito da alcuni come la prima «guerra del litio», essendo il Paese ricco, come gli altri Stati limitrofi, della sostanza che rende possibile la tecnologia di computer, telefonini ed auto elettriche.
Come riportato da Renovatio 21, un tentato colpo di Stato vi fu anche l’anno scorso quando la polizia militare e veicoli blindati hanno circondato il palazzo del governo nella capitale La Paz.
Sotto il presidente Arce la Bolivia si era avvicinata ai BRICS e aveva iniziato a commerciare in yuan allontanandosi dal dollaro.
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