Politica
Nuovo speaker della Camera USA: è un trumpiano contrario agli aiuti all’Ucraina

Il repubblicano Mike Johnson, convinto sostenitore dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, è stato eletto presidente della Camera dei rappresentanti. Il risultato arriva dopo settimane di stallo al Congresso e segnala un notevole spostamento verso destra per il suo partito nella Camera bassa.
Un totale di 220 repubblicani alla Camera hanno espresso il loro sostegno a Johnson durante il voto di mercoledì pomeriggio in Aula. Nessun democratico ha appoggiato la sua candidatura.
La Camera era senza speaker dal 3 ottobre, quando un gruppo di ribelli repubblicani guidati dal deputato Matt Gaetz della Florida ha estromesso l’ex presidente Kevin McCarthy, citando il suo accordo segreto con la Casa Bianca per approvare un disegno di legge che inviava più soldi all’Ucraina.
I repubblicani, che hanno una risicata maggioranza alla Camera, da allora hanno lottato per nominare il sostituto di McCarthy, ostacolando qualsiasi attività legislativa nella Camera. Jim Jordan dell’Ohio e Tom Emmer del Minnesota non sono riusciti a ottenere abbastanza voti nella loro conferenza, e per un momento è sembrato addirittura che alcuni repubblicani potessero aiutare i democratici a eleggere un oratore di minoranza.
Johnson ha attirato critiche da parte dei sostenitori dell’Ucraina di entrambi i partiti per essere stato un critico costante dell’invio di denaro statunitense a Kiev.
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«Non dovremmo inviare altri 40 miliardi di dollari all’estero quando i nostri confini sono nel caos, le madri americane faticano a trovare il latte artificiale, i prezzi della benzina sono a livelli record e le famiglie americane faticano ad arrivare a fine mese, senza un controllo sufficiente su dove i soldi andranno», ha detto nel maggio 2022, come uno dei 57 membri della Camera a votare contro il disegno di legge sugli aiuti supplementari.
I democratici hanno anche criticato Johnson perché si è opposto alla certificazione dei risultati delle elezioni del 2020, in base alla quale il democratico Joe Biden ha ricevuto il maggior numero di voti nella storia degli Stati Uniti, e al numero esatto di voti del collegio elettorale che Trump ha vinto nel 2016 – un’elezione che i democratici hanno costantemente criticato come «rubata» e «truccato».
La Camera dovrà ora affrontare la richiesta di Biden di 104 miliardi di dollari in finanziamenti «di emergenza» per Israele, Ucraina, Taiwan e la politica di immigrazione. Johnson si è precedentemente opposto a tali progetti di legge «omnibus».
La base repubblicana era in subbuglio in questi giorni, con vari insulti al loro partito, dopo che era stata silurata la candidatura a speaker della Camera del trumpiano Jim Jordan, ed era stato proposto quindi il non-trumpiano Tom Emmer, noto per aver presieduto, secondo quanto riportato, ad iniziative dello speculatore miliardario George Soros.
Lo stesso Trump in un messaggio sul suo social Truth ha dichiarato che Emmer era un «RINO», «Republican in name only» (repubblicano solo di nome), ossia un agente della politica di Washington che, indifferentemente dal partito, agisce per gli «interessi speciali» dei donatori e non per quelli degli elettori.
A Washington il fenomeno del maneggio transpartitico, al servizio del sistema, ha preso il nome di «Uniparty», l’«unipartito», di fatto non diverso da quello che in Italia abbiamo chiamato «Stato-partito».
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Politica
Il passo indietro di Ishiba: nuovo capitolo nella lunga crisi del centro-destra giapponese

Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Il primo ministro giapponese ha annunciato ieri le dimissioni dopo settimane di tensioni con i membri del Partito Liberaldemocratico, in difficoltà di fronte alla perdita di consenso tra gli elettori conservatori. Diversi candidati si sono già fatti avanti segnalando la volontà di succedere a Ishiba nella presidenza del partito, ma resta il nodo della guida del governo senza la maggioranza in parlamento.
A meno di un anno dal suo insediamento, il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba ha annunciato ieri le dimissioni, aprendo una nuova fase di incertezza politica. La decisione è una conseguenza delle crescenti pressioni all’interno del suo stesso partito, il Partito Liberaldemocratico (LDP), che alle ultime elezioni ha subito significative sconfitte, arrivando a perdere la maggioranza in entrambe le Camere.
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Ishiba si è assunto la responsabilità per i pessimi risultati dell’LDP alle elezioni della Camera dei Consiglieri a luglio e ha sottolineato che le sue dimissioni servono a prevenire un’ulteriore spaccatura all’interno del partito. Già a luglio, il quotidiano giapponese Mainichi aveva per primo riportato che Ishiba si sarebbe dimesso, basandosi su informazioni raccolte tra il premier e i suoi più stretti collaboratori.
Le prime indiscrezioni indicavano che i preparativi per la corsa alla presidenza dell’LDP sarebbero iniziati entro agosto. Ishiba, tuttavia, aveva pubblicamente smentito queste notizie e nelle sue affermazioni aveva sottolineato l’importanza di portare a termine le trattative sui dazi con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che aveva imposto il primo agosto come scadenza ultima.
Nel suo discorso di ieri, Ishiba ha spiegato che l’annuncio delle dimissioni a luglio avrebbe indebolito la posizione del Giappone: «chi negozierebbe seriamente con un governo che dice “ci dimettiamo”?», ha detto.
Ishiba ha poi cercato di placare le pressioni interne all’LDP minacciando di sciogliere la Camera dei Rappresentanti e indire elezioni anticipate, una mossa che ha esacerbato le divisioni e spinto il principale partner di coalizione, il partito Komeito, a ritenere inaccettabile la decisione. Secondo l’agenzia di stampa Kyodo, l’ex primo ministro Yoshihide Suga e il ministro dell’Agricoltura Shinjiro Koizumi entrambi tenuto colloqui con il premier sabato, evitando una scissione all’interno del partito e aprendo la strada all’annuncio delle dimissioni di ieri.
Ora l’attenzione si sposta sulla scelta del prossimo leader dell’LDP, che potrebbe assumere anche la carica di primo ministro se ci fosse una qualche forma di sostegno o di accordo anche con le opposizioni. Tra i principali contendenti ci sono membri del partito che avevano già sfidato Ishiba in passato, tra cui Sanae Takaichi, ex ministra per la sicurezza economica, che ha ricevuto il 23% dei consensi in un recente sondaggio di Nikkei. Takaichi fa parte dell’ala conservatrice e ha una forte base di sostegno tra i fedelissimi dell’ex primo ministro Shinzo Abe, di cui è considerata l’erede, soprattutto per quanto riguarda le politiche economiche, che potrebbero favorire una ripresa dei mercati azionari. Takaichi ha inoltre la reputazione di andare d’accordo con il presidente Donald Trump.
Anche Shinjiro Koizumi, attuale ministro dell’Agricoltura e figlio dell’ex leader Junichiro Koizumi, è un altro papabile candidato, dopo essere riuscito ad abbassare i prezzi del riso appena entrato in carica. Il sondaggio di Nikkei ha registrato un 22% dei consensi nei suoi confronti.
Altri membri del partito hanno segnalato la volontà di candidarsi, tra cui Yoshimasa Hayashi, attuale segretario capo del Gabinetto e portavoce principale del governo Ishiba, che si è classificato quarto nella corsa per la leadership del partito del 2024. Tra gli altri contendenti figurano Takayuki Kobayashi, un altro ex ministro per la sicurezza economica che gode di un maggiore sostegno all’interno dell’ala centrista, e Toshimitsu Motegi, ex segretario generale dell’LDP e il più anziano tra i candidati con i suoi 69 anni.
L’LDP oggi si trova in una posizione di forte debolezza. Molti elettori conservatori alle ultime elezioni hanno preferito il partito di estrema destra Sanseito anche a causa dell’allontanamento di Ishiba dall’ala conservatrice.
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Secondo un sondaggio di Kyodo, condotto prima che fossero riportate le dimissioni di Ishiba, l’83% degli intervistati ha dichiarato che un chiarimento pubblico del partito sulle ultime sconfitte non avrebbe comunque aumentato la fiducia degli elettori. È chiaro, quindi, che il compito del prossimo presidente di partito sarà quello di ripristinare la credibilità del centrodestra.
Chiunque verrà scelto si troverà davanti a un’importante decisione: se indire elezioni anticipate per cercare di riconquistare la maggioranza alla Camera bassa o rischiare di perdere il potere del tutto. Quest’ultima scelta rischierebbe di aprire una nuova fase di instabilità politica senza precedenti, che richiederebbe la ricerca di sostegno anche tra i partiti dell’opposizione per approvare le leggi e i bilanci.
Secondo diversi commentatori, il prossimo leader dovrà prima di tutto godere di una genuina popolarità sia all’interno che all’esterno del partito per affrontare sfide come l’invecchiamento della società, la forza lavoro in calo, l’inflazione e i timori che gli Stati Uniti possano abbandonare il loro ruolo di garanti della sicurezza nella regione asiatica.
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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.
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