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Negli USA la guerra civile diventa inevitabile

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Ora il problema non è più sapere chi sia il presidente degli Stati Uniti legittimamente eletto, ma per quanto tempo potrà essere rinviata la guerra civile. Lungi dal ridursi a uno scontro tra un presentatore televisivo narcisista e un vegliardo senile, la divisione del Paese ha radici in una fondamentale questione culturale, latente dalla nascita.

 

 

Eccoci arrivati al nodo: si profila all’orizzonte una catastrofe prevedibile da trent’anni. Gli Stati Uniti s’avviano inesorabilmente verso la secessione e la guerra civile.

Si profila all’orizzonte una catastrofe prevedibile da trent’anni. Gli Stati Uniti s’avviano inesorabilmente verso la secessione e la guerra civile

 

Con il dissolvimento dell’URSS, l’«Impero americano» non ha più nemici che ne minaccino l’esistenza, quindi non ha più ragione di sussistere.

 

Il tentativo di George H. Bush (padre) e di Bill Clinton d’immettere nuova linfa nel Paese per mezzo della globalizzazione del commercio ha distrutto le classi medie, non solo negli Stati Uniti, ma anche in quasi tutto l’Occidente.

 

Il tentativo di George W. Bush (figlio) e di Barack Obama di organizzare il mondo mettendo a fulcro del sistema una nuova forma di capitalismo – stavolta finanziario – s’è impantanato nelle sabbie della Siria.

Il tentativo di George H. Bush (padre) e di Bill Clinton d’immettere nuova linfa nel Paese per mezzo della globalizzazione del commercio ha distrutto le classi medie, non solo negli Stati Uniti, ma anche in quasi tutto l’Occidente.

 

È troppo tardi per raddrizzare il timone. Il tentativo di Donald Trump di abbandonare l’impero americano e di concentrare gli sforzi sulla prosperità interna è stato sabotato dalle élite devote all’ideologia puritana dei Padri Pellegrini (Pilgrim Fathers). Di conseguenza, il momento tanto temuto da Richard Nixon e dal suo consigliere elettorale Kevin Philipps è arrivato: gli Stati Uniti sono sull’orlo della secessione e della guerra civile.

 

Quanto scrivo non è frutto di pura fantasia, ma dell’analisi di numerosi osservatori negli Stati Uniti e nel resto mondo. La Corte Suprema del Wisconsin ha sì respinto il ricorso di Trump contro le frodi elettorali, ma non per ragioni attinenti al diritto, bensì perché, così non facendo, «avrebbe aperto il vaso di Pandora».

 

Infatti, diversamente dalla dominante ingannevole interpretazione degli avvenimenti sulla stampa internazionale, ci sono soltanto due possibilità: o i ricorsi del presidente uscente sono valutati sul piano giuridico – e allora gli si deve dare ragione – oppure sono valutati secondo i dettami della politica, nel qual caso dargli ragione provocherebbe una guerra civile. Ma il conflitto è già in fase troppo avanzata.

Il momento tanto temuto da Richard Nixon e dal suo consigliere elettorale Kevin Philipps è arrivato: gli Stati Uniti sono sull’orlo della secessione e della guerra civile.

 

Il giudizio emesso a scapito del diritto, per ragioni politiche, non eviterà la guerra civile.

 

Bisogna finirla d’interpretare le elezioni presidenziali come una competizione tra Democratici e Repubblicani: Donald Trump non ha mai rivendicato l’appartenenza al Partito Repubblicano, che anzi ha preso d’assalto durante la campagna elettorale del 2016. Non è un illuminato: si richiama infatti al presidente Andrew Jackson (1829-1837), ossia a un presidente precursore ideologico dei «Sudisti» e dei «Confederati».

 

Bisogna smettere di sostenere che Trump non rappresenta la maggioranza degli statunitensi: è stato designato presidente nel 2016, nelle elezioni locali ha contribuito alla vittoria in suo nome di migliaia di candidati, e nel 2020 s’è accaparrato milioni di voti in più rispetto al 2016.

 

Nessuno in Europa sembra osare prendere atto di quanto tuttavia abbiamo sotto gli occhi. Tutti s’aggrappano all’idea degli Stati Uniti come modello di democrazia. Allora prendetevi la briga di leggere la Costituzione USA, vi basteranno pochi minuti. Essa riconosce la sovranità degli Stati Federati, non del Popolo. Il suo principale ideatore, Alexander Hamilton, l’ha sostenuto, nonché scritto nei Federalist Papers: la Costituzione ha lo scopo di instaurare un regime analogo alla monarchia britannica – senza però l’aristocrazia – non certo una democrazia.

Diversamente dalla dominante ingannevole interpretazione degli avvenimenti sulla stampa internazionale, ci sono soltanto due possibilità: o i ricorsi del presidente uscente sono valutati sul piano giuridico – e allora gli si deve dare ragione – oppure sono valutati secondo i dettami della politica, nel qual caso dargli ragione provocherebbe una guerra civile

 

Questa Costituzione ha resistito due secoli solo grazie al compromesso dei primi Dieci Emendamenti (Bill of Rights). Ma nell’era della mondializzazione dell’informazione, tutti possono rendersi conto che la partita è truccata.

 

Si tratta di un sistema tollerante, ma pur sempre oligarchico.

 

Negli Stati Uniti la pressoché totalità delle leggi è redatta da gruppi di pressione, organizzati indipendentemente da chi siano gli eletti al Congresso e alla Casa Bianca. I politici sono una facciata che nasconde il vero Potere. Del resto, questi gruppi valutano ogni decisione di ciascun politico e annualmente pubblicano un annuario ove ciascuno viene soppesato per la propria docilità.

 

Gli europei, attaccati all’immagine degli Stati Uniti come nazione democratica, insistono ad affermare che l’elezione del presidente spetta [al popolo ma] attraverso i grandi elettori. Ciò è assolutamente falso.

 

Il giudizio emesso a scapito del diritto, per ragioni politiche, non eviterà la guerra civile

La Costituzione non prevede l’elezione del presidente da parte del popolo per delega, ma da parte di un collegio elettorale designato dai governatori.

 

Col tempo questi ultimi hanno finito con l’organizzare votazioni nel proprio Stato federale prima di scegliere i membri del Collegio Elettorale. Alcuni hanno inscritto il principio nella Costituzione locale, ma non tutti.

 

In ultima analisi, la Corte Suprema Federale non c’entra, come s’è visto vent’anni fa nella contesa fra George W. Bush e Al Gore, quando dichiarò esplicitamente che le eventuali truffe elettorali avvenute in Florida non erano di sua propria competenza.

Negli Stati Uniti la pressoché totalità delle leggi è redatta da gruppi di pressione, organizzati indipendentemente da chi siano gli eletti al Congresso e alla Casa Bianca. I politici sono una facciata che nasconde il vero Potere

 

In questo contesto, se gli Stati Uniti fossero una democrazia, Trump avrebbe probabilmente vinto le elezioni del 2020; invece ha perso perché sono un Paese oligarchico con una classe politica che non vuole saperne di lui.

 

I jacksoniani, fautori della democrazia, per far trionfare la propria causa non hanno altra scelta che prendere le armi, come prevede espressamente il secondo emendamento alla Costituzione. All’origine, questo emendamento voleva riconoscere a tutti i cittadini il diritto di acquistare e portare ogni tipo di arma da guerra per potersi ribellare a un governo tirannico, come accadde con la monarchia britannica. Questo è il significato del compromesso del 1789, che la maggior parte degli statunitensi considera superato.

 

Il generale Michael Flynn, effimero consigliere di Trump per la sicurezza nazionale, ha recentemente esortato a sospendere la Costituzione e a istituire la legge marziale per prevenire la guerra civile. Il Pentagono – la cui cuspide è stata sostituita dal presidente uscente a vantaggio degli amici del generale – si tiene pronto.

 

Se gli Stati Uniti fossero una democrazia, Trump avrebbe probabilmente vinto le elezioni del 2020; invece ha perso perché sono un Paese oligarchico con una classe politica che non vuole saperne di lui

Dal canto suo Trump ha annunciato che si presenterà al tribunale texano deputato a decidere sulle frodi elettorali locali.

 

Il Texas è uno dei due Stati federati che prima dell’adesione agli Stati Uniti fondarono una Repubblica indipendente e poi si riservò il diritto di recessione. Il governatore in carica nel 2009 minacciò la secessione. Un’idea che da allora ha continuato a farsi strada, tant’è che ora il Congresso locale è chiamato a decidere sulla proposta di referendum per l’indipendenza avanzata dal rappresentante Kyle Biedermann.

 

Il processo di dissolvimento degli Stati Uniti potrebbe essere più rapido di quello dell’URSS. All’epoca lo studiò a Mosca il professor Igor Panarin. Colin Woodward ne ha aggiornato l’analisi tenendo conto dell’evoluzione dei dati demografici: il Paese sarebbe scisso in 11 Stati, che si distinguono su base culturale.

 

A questi problemi s’aggiungono i ricorsi contro le legislature di una ventina di Stati, che a causa della pandemia hanno adottato leggi elettorali che contravvengono alla propria Costituzione. Se questi ricorsi, giuridicamente fondati, venissero accolti, in questi Stati si dovrebbero annullare non soltanto le elezioni presidenziali, ma anche quelle locali (parlamenti, sceriffi, procuratori e altre cariche).

Il Pentagono – la cui cuspide è stata sostituita dal presidente uscente a vantaggio degli amici del generale Flynn – si tiene pronto

 

Non sarà possibile esaminare prima della riunione del Consiglio Elettorale Federale le ragioni addotte in Texas e altrove. Il Texas e gli altri Stati dove sono in fase di esame analoghi ricorsi, nonché gli Stati che potrebbero dover annullare il voto, non potranno perciò partecipare alla designazione del nuovo presidente degli Stati Uniti.

 

In questo caso, spetta al nuovo Congresso, dove i Puritani sono minoranza e i Jacksoniani maggioranza, indicare una procedura sostitutiva.

 

 

Thierry Meyssan

Il processo di dissolvimento degli Stati Uniti potrebbe essere più rapido di quello dell’URSS

 

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

Fonte: «Negli USA la guerra civile diventa inevitabile», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 15 dicembre 2020

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

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Orban dice che l’UE potrebbe andare al «collasso» e chiede accordi con Mosca

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L’UE è sull’orlo del collasso e non sopravvivrà oltre il prossimo decennio senza una «revisione strutturale fondamentale» e un distacco dal conflitto ucraino, ha avvertito il primo ministro ungherese Viktor Orban.

 

Intervenendo domenica al picnic civico annuale a Kotcse, Orban ha affermato che l’UE non è riuscita a realizzare la sua ambizione fondante di diventare una potenza globale e non è in grado di gestire le sfide attuali a causa dell’assenza di una politica fiscale comune. Ha descritto l’Unione come entrata in una fase di «disintegrazione caotica e costosa» e ha avvertito che il bilancio UE 2028-2035 «potrebbe essere l’ultimo se non cambia nulla».

 

«L’UE è attualmente sull’orlo del collasso ed è entrata in uno stato di frammentazione. E se continua così… passerà alla storia come il deprimente risultato finale di un esperimento un tempo nobile», ha dichiarato Orban, proponendo di trasformare l’UE in «cerchi concentrici».

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L’anello esterno includerebbe i paesi che cooperano in materia di sicurezza militare ed energetica, il secondo cerchio comprenderebbe i membri del mercato comune, il terzo quelli che condividono una moneta, mentre il più interno includerebbe i membri che cercano un allineamento politico più profondo. Secondo Orbán, questo amplierebbe la cooperazione senza limitare lo sviluppo.

 

«Ciò significa che siamo sulla stessa macchina, abbiamo un cambio, ma vogliamo muoverci a ritmi diversi… Se riusciamo a passare a questo sistema, la grande idea della cooperazione europea… potrebbe sopravvivere», ha affermato.

 

Orban ha accusato Brusselle di fare eccessivo affidamento sul debito comune e di usare il conflitto in Ucraina come pretesto per proseguire con questa politica. Finché durerà il conflitto, l’UE rimarrà una «anatra zoppa», dipendente dagli Stati Uniti per la sicurezza e incapace di agire in modo indipendente in ambito economico, ha affermato.

 

Il premier magiaro ha anche suggerito che, invece di «fare lobbying a Washington», l’UE dovrebbe «andare a Mosca» per perseguire un accordo di sicurezza con la Russia, seguito da un accordo economico.

 

Il primo ministro di Budapest non è il solo a nutrire queste preoccupazioni. Gli analisti del Fondo Monetario Internazionale e di altre istituzioni hanno lanciato l’allarme: l’UE rischia la stagnazione e persino il collasso a causa di sfide strutturali, crescita debole, scarsi investimenti, elevati costi energetici e tensioni geopolitiche.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

 

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Il passo indietro di Ishiba: nuovo capitolo nella lunga crisi del centro-destra giapponese

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Il primo ministro giapponese ha annunciato ieri le dimissioni dopo settimane di tensioni con i membri del Partito Liberaldemocratico, in difficoltà di fronte alla perdita di consenso tra gli elettori conservatori. Diversi candidati si sono già fatti avanti segnalando la volontà di succedere a Ishiba nella presidenza del partito, ma resta il nodo della guida del governo senza la maggioranza in parlamento.   A meno di un anno dal suo insediamento, il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba ha annunciato ieri le dimissioni, aprendo una nuova fase di incertezza politica. La decisione è una conseguenza delle crescenti pressioni all’interno del suo stesso partito, il Partito Liberaldemocratico (LDP), che alle ultime elezioni ha subito significative sconfitte, arrivando a perdere la maggioranza in entrambe le Camere.

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Ishiba si è assunto la responsabilità per i pessimi risultati dell’LDP alle elezioni della Camera dei Consiglieri a luglio e ha sottolineato che le sue dimissioni servono a prevenire un’ulteriore spaccatura all’interno del partito. Già a luglio, il quotidiano giapponese Mainichi aveva per primo riportato che Ishiba si sarebbe dimesso, basandosi su informazioni raccolte tra il premier e i suoi più stretti collaboratori.   Le prime indiscrezioni indicavano che i preparativi per la corsa alla presidenza dell’LDP sarebbero iniziati entro agosto. Ishiba, tuttavia, aveva pubblicamente smentito queste notizie e nelle sue affermazioni aveva sottolineato l’importanza di portare a termine le trattative sui dazi con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che aveva imposto il primo agosto come scadenza ultima.   Nel suo discorso di ieri, Ishiba ha spiegato che l’annuncio delle dimissioni a luglio avrebbe indebolito la posizione del Giappone: «chi negozierebbe seriamente con un governo che dice “ci dimettiamo”?», ha detto.   Ishiba ha poi cercato di placare le pressioni interne all’LDP minacciando di sciogliere la Camera dei Rappresentanti e indire elezioni anticipate, una mossa che ha esacerbato le divisioni e spinto il principale partner di coalizione, il partito Komeito, a ritenere inaccettabile la decisione. Secondo l’agenzia di stampa Kyodo, l’ex primo ministro Yoshihide Suga e il ministro dell’Agricoltura Shinjiro Koizumi entrambi tenuto colloqui con il premier sabato, evitando una scissione all’interno del partito e aprendo la strada all’annuncio delle dimissioni di ieri.   Ora l’attenzione si sposta sulla scelta del prossimo leader dell’LDP, che potrebbe assumere anche la carica di primo ministro se ci fosse una qualche forma di sostegno o di accordo anche con le opposizioni. Tra i principali contendenti ci sono membri del partito che avevano già sfidato Ishiba in passato, tra cui Sanae Takaichi, ex ministra per la sicurezza economica, che ha ricevuto il 23% dei consensi in un recente sondaggio di Nikkei. Takaichi fa parte dell’ala conservatrice e ha una forte base di sostegno tra i fedelissimi dell’ex primo ministro Shinzo Abe, di cui è considerata l’erede, soprattutto per quanto riguarda le politiche economiche, che potrebbero favorire una ripresa dei mercati azionari. Takaichi ha inoltre la reputazione di andare d’accordo con il presidente Donald Trump.   Anche Shinjiro Koizumi, attuale ministro dell’Agricoltura e figlio dell’ex leader Junichiro Koizumi, è un altro papabile candidato, dopo essere riuscito ad abbassare i prezzi del riso appena entrato in carica. Il sondaggio di Nikkei ha registrato un 22% dei consensi nei suoi confronti.   Altri membri del partito hanno segnalato la volontà di candidarsi, tra cui Yoshimasa Hayashi, attuale segretario capo del Gabinetto e portavoce principale del governo Ishiba, che si è classificato quarto nella corsa per la leadership del partito del 2024. Tra gli altri contendenti figurano Takayuki Kobayashi, un altro ex ministro per la sicurezza economica che gode di un maggiore sostegno all’interno dell’ala centrista, e Toshimitsu Motegi, ex segretario generale dell’LDP e il più anziano tra i candidati con i suoi 69 anni.   L’LDP oggi si trova in una posizione di forte debolezza. Molti elettori conservatori alle ultime elezioni hanno preferito il partito di estrema destra Sanseito anche a causa dell’allontanamento di Ishiba dall’ala conservatrice.

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Secondo un sondaggio di Kyodo, condotto prima che fossero riportate le dimissioni di Ishiba, l’83% degli intervistati ha dichiarato che un chiarimento pubblico del partito sulle ultime sconfitte non avrebbe comunque aumentato la fiducia degli elettori. È chiaro, quindi, che il compito del prossimo presidente di partito sarà quello di ripristinare la credibilità del centrodestra.   Chiunque verrà scelto si troverà davanti a un’importante decisione: se indire elezioni anticipate per cercare di riconquistare la maggioranza alla Camera bassa o rischiare di perdere il potere del tutto. Quest’ultima scelta rischierebbe di aprire una nuova fase di instabilità politica senza precedenti, che richiederebbe la ricerca di sostegno anche tra i partiti dell’opposizione per approvare le leggi e i bilanci.   Secondo diversi commentatori, il prossimo leader dovrà prima di tutto godere di una genuina popolarità sia all’interno che all’esterno del partito per affrontare sfide come l’invecchiamento della società, la forza lavoro in calo, l’inflazione e i timori che gli Stati Uniti possano abbandonare il loro ruolo di garanti della sicurezza nella regione asiatica.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Il governo francese collassa

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Il governo francese è collassato dopo che il Primo Ministro François Bayrou ha perso un cruciale voto di fiducia in Parlamento lunedì. Bayrou è il secondo primo ministro consecutivo sotto Emmanuel Macron a essere destituito, precipitando la Francia in una crisi politica ed economica.

 

Per approvare una mozione di sfiducia all’Assemblea Nazionale servono almeno 288 voti. Quella di lunedì ne ha ottenuti 364, con il Nuovo Fronte Popolare di sinistra e il Raggruppamento Nazionale di destra coalizzati per superare lo stallo sul bilancio di austerità di Bayrou.

 

Dopo aver resistito a otto mozioni di sfiducia, Bayrou ha convocato questo voto per ottenere supporto alle sue proposte, che prevedevano tagli per circa 44 miliardi di euro per ridurre il debito francese in vista del bilancio di ottobre.

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Bayrou, che aveva definito il debito pubblico un «pericolo mortale», sembra aver accettato la sconfitta. Domenica, ha criticato aspramente i partiti rivali, che, pur «odiandosi a vicenda», si sono uniti per far cadere il governo.

 

Bayrou è il secondo primo ministro deposto dopo Michel Barnier, rimosso a dicembre dopo soli tre mesi, e il sesto sotto Macron dal 2017.

 

La caduta di Bayrou lascia Macron di fronte a un dilemma: nominare un Primo Ministro socialista, cedendo il controllo della politica interna, o indire elezioni anticipate, che i sondaggi indicano favorirebbero il Rassemblement National di Marine Le Pen.

 

Con la popolarità di Macron al minimo storico, entrambe le opzioni potrebbero indebolire ulteriormente la sua presidenza. Gli analisti temono che una perdita di fiducia dei mercati nella gestione del deficit e del debito francese possa portare a una crisi simile a quella vissuta dal Regno Unito sotto Liz Truss, il cui governo durò meno della via di un cavolo prima della marcescenza.

 

Il malcontento verso Macron è in crescita: un recente sondaggio di Le Figaro rivela che quasi l’80% dei francesi non ha più fiducia in lui.

 

Come riportato da Renovatio 21, migliaia di persone hanno protestato a Parigi nel fine settimana, chiedendo le dimissioni di Macron con slogan come «Fermiamo Macron» e «Frexit».

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