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Storia

Nazisti in Ucraina: la guerra, la propaganda, la cecità

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

La propaganda rende ottusi. Sappiamo che i nazionalisti integralisti hanno commesso massacri abominevoli, in particolare durante la seconda guerra mondiale. Però ignoriamo quello che da trent’anni fanno alle nostre porte, in particolare la guerra civile che alimentano da otto anni. La nostra stupidità ci permette di tollerare le grida battagliere dei nostri responsabili politici schierati con questi criminali.

 

 

Quando sopraggiunge la guerra, sempre i governi ritengono necessario supportare il morale della popolazione inondandola di propaganda

 

La posta in gioco – la vita e la morte – è talmente elevata che il dibattito s’inasprisce e le posizioni estremiste mietono consensi. È esattamente ciò cui assistiamo in questo momento, o meglio è come stiamo cambiando. In questa partita le idee difese dagli uni e dagli altri non hanno alcun rapporto con i loro presupposti ideologici, ma con la contiguità al potere.

 

In senso etimologico la propaganda è l’arte di convincere, di diffondere delle idee. Nell’epoca moderna invece è un’arte che ricostruisce la realtà al fine di denigrare l’avversario ed esaltare le proprie schiere.

 

In Occidente si crede siano stati i nazisti o i sovietici a inventarla. Non è così: l’hanno inventata i britannici e gli statunitensi durante la prima guerra mondiale. (1)

 

Oggi le operazioni dal Centro di comunicazione strategica di Riga (Lettonia) (2) sono coordinate dalla nato , che individua i punti su cui agire e organizza programmi internazionali per condurre in porto i progetti.

 

Un esempio: la NATO ha individuato Israele come punto vulnerabile. L’ex primo ministro Benjamin Netanyahu era amico personale del presidente ucraino Volodymyr Zelensky; il successore Naftali Bennett riconosce invece la fondatezza della politica della Russia. Ha persino consigliato agli ucraini di restituire Crimea e Donbass alla Russia e, soprattutto, di denazificare il Paese. L’attuale primo ministro, Yair Lapid, è più irresoluto: non vuole sostenere i nazionalisti integralisti, che durante la seconda guerra mondiale massacrarono un milione di ebrei, ma al tempo stesso vuole mantenere buoni rapporti con l’Occidente.

 

Per riportarlo sulla buona strada, la NATO cerca di convincere Israele che, se i russi vincessero, Tel Aviv perderebbe la propria posizione in Medio Oriente (3). A questo scopo diffonde il più estesamente possibile la menzogna che l’Iran sarebbe un alleato militare della Russia. La stampa internazionale continua a sostenere che i droni usati in Ucraina dai russi sono iraniani, e presto lo sarebbero anche i missili a media gittata. Eppure Mosca è in grado di fabbricare da sé queste armi e non le ha mai chieste all’Iran. Iran e Russia continuano a smentire le false affermazioni degli Occidentali, ma questi, appoggiandosi alla stampa invece che alla semplice riflessione, già hanno adottato sanzioni contro i commercianti di armi iraniani. Presto Yair Lapid, figlio del presidente del Memoriale Yad Vashem, sarà assediato e costretto a schierarsi con i criminali.

 

I britannici dal canto loro primeggiano tradizionalmente nella mobilitazione di media in rete e nel reclutamento di artisti. L’MI6 si appoggia a 150 agenzie di stampa che operano all’interno del PR Network (4). I britannici riescono così a convincere tutte queste agenzie a diffondere le proprie accuse e i propri slogan.

 

Sono i britannici ad aver convinto tutti dapprima che il presidente Vladimir Putin era moribondo, poi in preda alla follia, infine messo al muro da una forte opposizione interna che presto lo avrebbe rovesciato con un colpo di Stato.

 

Oggi l’attività prosegue con interviste incrociate di soldati in Ucraina. Si ascoltano soldati ucraini affermare di essere nazionalisti e soldati russi dire di aver paura ma di dover difendere la Russia. Si sente affermare che gli ucraini non sono nazisti e che i russi sono conculcati da una dittatura e costretti a combattere. I soldati ucraini non sono maggioritariamente nazionalisti, nel senso di difensori della patria: sono nazionalisti integralisti, nel senso attribuito al termine dai due poeti Charles Maurras e Dmytro Dontsov (6). Non è affatto la stessa cosa.

 

Fu solo nel 1925 che papa Pio XI condannò il nazionalismo integralista. All’epoca Dontsov aveva già scritto Націоналізм (Nazionalismo) (1921). Maurras e Dontsov definiscono la nazione come tradizione e concepiscono il proprio nazionalismo in contrapposizione ad altri (Maurras contro i tedeschi, Dontsov contro i russi). Entrambi detestano la Rivoluzione francese e i principi di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza e denunciano instancabilmente ebrei e massoni. Ritengono la religione utile alla società, ma personalmente sembrano agnostici. Posizioni che portarono Maurras a diventare sostenitore di Pétain e Dontsov di Hitler. Quest’ultimo sprofonderà in un delirio mistico variago (variaghi, vichinghi svedesi). Il papa successivo, Pio XII, abrogherà la condanna del predecessore appena prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Alla Liberazione, Maurras sarà condannato per complicità con i nemici (proprio lui che era germanofobo); Dontsov invece sarà recuperato dagli anglosassoni e mandato in esilio prima in Canada, poi negli Stati Uniti.

 

Quanto ai soldati russi che vediamo intervistati ai telegiornali, non ci stanno dicendo di essere obbligati a combattere, ma che, a differenza dei nazionalisti integralisti, non sono fanatici. La guerra per loro è sempre un orrore, anche quando difendono i compatrioti. Ne travisiamo il senso perché ci ripetono in modo martellante che la Russia è una dittatura. Non accettiamo che la Russia sia una democrazia perché siamo convinti che un regime autoritario non possa essere una democrazia. Eppure, per citare un esempio, la Seconda Repubblica francese (1848-1852) fu una democrazia e al tempo stesso un regime autoritario.

 

Ci lasciamo facilmente convincere perché non conosciamo la cultura e la storia ucraine. Al più sappiamo che la Novorossia fu governata da un aristocratico francese, Armand-Emmanuel du Plessis de Richelieu, amico personale dello zar Alessandro I, che amministrò nel solco del principe Grigori Potemkin, che voleva foggiare questa regione sul modello di Atene e Roma. Una vicenda storica che spiega perché ancora oggi la Novorossia è di cultura russa (non ucraina) senza tuttavia aver mai conosciuto la servitù della gleba.

 

Ignoriamo le atrocità commesse in Ucraina nel periodo fra le due guerre e durante la seconda guerra mondiale e abbiamo una vaga idea delle violenze dell’Unione Sovietica.

 

Ignoriamo che il teorico Dontsov e il discepolo Bandera non esitarono a massacrare chi non rispondeva ai canoni del loro nazionalismo integralista, innanzitutto, in questo Paese khazaro, gli ebrei, poi i russi e i comunisti, gli anarchici di Nestor Makhno e molti altri ancora. I nazionalisti integralisti, diventati ammiratori del Führer e profondamente razzisti, sono saliti sul proscenio con il crollo dell’URSS. (6)

 

Il 6 maggio 1995 il presidente Leonid Kuchma andò a Monaco, nei locali della CIA, per incontrare la donna a capo dei nazionalisti integralisti, Slava Stetsko, vedova del primo ministro nazista Yaroslav Stetsko. Eletta alla Verkhovna Rada (parlamento), senza poter sedervi perché decaduta dalla nazionalità ucraina. Un mese dopo l’Ucraina adottò la Costituzione ancora oggi in vigore, che all’art. 6 dispone che «è responsabilità dello Stato preservare il patrimonio genetico del popolo ucraino» (sic).

 

In seguito Slava Stetsko aprì per due volte la sessione della Rada, concludendo i suoi interventi al grido di guerra dei nazionalisti integralisti: «Gloria all’Ucraina!».

 

L’Ucraina moderna ha pazientemente costruito il proprio regime nazista. Dopo aver proclamato nella Costituzione la difesa del «patrimonio genetico del popolo ucraino», sono state promulgate diverse leggi analoghe.

 

La prima accorda la tutela dei Diritti dell’Uomo solo agli ucraini, escludendo ogni straniero. La seconda definisce cosa è la maggioranza degli ucraini; la terza, promulgata dal presidente Zelensky, decide chi sono le minoranze. La furbizia consiste nel fatto che queste leggi non menzionano i russofoni, quindi, per difetto, i tribunali non riconoscono loro il beneficio dei diritti dell’uomo.

 

Dal 2014 una guerra civile oppone i nazionalisti integralisti alle popolazioni russofone, principalmente quelle della Crimea e del Donbass. Dopo 20 mila morti, la Federazione di Russia, applicando la propria «responsabilità di proteggere», ha lanciato un’operazione militare speciale per attuare la risoluzione 2202 del Consiglio di Sicurezza (Accordi di Minsk) e mettere fine al martirio dei russofoni.

 

La propaganda della NATO  ci inonda con le reali sofferenze degli ucraini, ma ignora i precedenti otto anni di torture, uccisioni e massacri. Ci parla «dei valori che abbiamo in comune con l’Ucraina», ma che valori possiamo condividere con nazionalisti integralisti? E dov’è la democrazia in Ucraina?

 

Non siamo chiamati a scegliere gli uni o gli altri, solo a difendere la pace, quindi gli Accordi di Minsk e la risoluzione 2202.

 

La guerra ci fa perdere la testa. Così avviene un rovesciamento di valori e trionfano i più estremisti. Alcuni nostri ministri parlano di «asfissiare la Russia» (sic). Non ci accorgiamo di sostenere le idee contro le quali siamo convinti di combattere.

 

 

Thierry Meyssan

 

 

NOTE

1) «Le tecniche della propaganda militare moderna», di Thierry Meyssan, Traduzione Matzu Yagi, Megachip-Globalist (Italia), Rete Voltaire, 18 maggio 2016.

2) «La campagna della NATO contro la libertà di espressione», di Thierry Meyssan, Traduzione Matzu Yagi, Megachip-Globalist (Italia), Rete Voltaire, 7 dicembre 2016.

3) «Iran, Israele e la Russia», Voltaire attualità internazionale, n° 11, 21 ottobre 2022.

4) «La rete di propaganda di guerra anti-Russia», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 26 marzo 2022.

4) «L’ideologia dei banderisti», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 21 giugno 2022.

6) «Ucraina: la seconda guerra mondiale non è finita», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 26 aprile 2022.

 

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

 

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

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Intelligence

La CIA, il KGB e il mistero di Igor Orlov detto Sasha

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Nonostante il successo nelle fasi finali del conflitto, il dilettantismo statunitense nel mondo dell’Intelligence globale rimase un tratto dominante dall’entrata in guerra fino a tutta la prima parte del dopoguerra. La volontà di volersi avvicinare all’esperienza del MI6 inglese o della struttura messa in piedi ancora da Pietro il grande e utilizzata in seguito dai sovietici, si accompagnò alla enorme quantità di denaro a disposizione durante e soprattutto dopo il conflitto.

 

Nella foga di dimostrare al pianeta che la repubblica del nuovo mondo avesse finalmente raggiunto il tavolo di chi conta entrando dalla porta principale, venne trascurata non poca cautela. Caratteristica di quel periodo fu proprio la fretta e l’esuberanza nel voler arrivare il prima possibile a un risultato saltando livelli necessari di precauzione. Sia il mondo dell’intelligence americano appena nato con l’OSS e soprattutto in seguito con la CIA, per la frenesia di trovare informatori, trascurò le più necessarie pratiche di controspionaggio, con il risultato di riempire l’America di agenti doppi sovietici.

 

Uno dei casi più eclatanti, descritto bene nell’opera di Joseph Trento The Secret History of the CIA, fu quello di Igor Orlov, nome in codice «Sasha», per la vera identità di Aleksander Ivanovich Navratilov (1918-1982). Figlio di un importante famiglia russa, discendente diretta della aristocrazia, divenne fondamentale in un momento in cui Lavrentij Berija (1899-1953) zelante e potentissimo direttore della polizia segreta sotto il georgiano Iosif Stalin (1878-1953) stava percependo di perdere la fiducia del dittatore cosa che avrebbe significato morte certa, non solo politica.

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Fino a quel momento, gli agenti scelti per le missioni speciali venivano per lo più dall’Ucraina o dalla Georgia per la mancanza di fiducia di Stalin verso i Russi. Di questo «vezzo» erano a conoscenza anche i servizi tedeschi, che utilizzavano questo schema per stanarli con maggiore, relativa, facilità. Berija, dunque, mostrò a Stalin un fascicolo con la scheda di tal Aleksander Grigoryevich Kopatzky. Nome fittizio di chiaro stampo non russo bensì polacco, donato a Navratilov per riuscire a passare sotto il controllo del georgiano e accedere al livello successivo.

 

Aleksander spiccò tra tanti altri agenti guadagnandosi la sua occasione attraverso un atto considerato da Berija eccezionale per il ruolo che avrebbe dovuto interpretare. Suo padre, Ivan, aveva scalato le gerarchie ottenendo una posizione di tutto rilievo nella Ceka, la polizia segreta sovietica. La sua famiglia conosceva talmente bene il modus operandi degli ufficiali di Berija durante le purghe che quando due ufficiali bussarono alla porta di casa in piena notte, avevano già capito a cosa sarebbero dovuti andare incontro.

 

La moglie Anna, chiese immediatamente chi l’avesse denunciato. La risposta sconvolse i due genitori in quanto la denuncia era arrivata dal figlio Aleksander che sottolineò subito di averlo sentito chiamare Stalin un traditore. Era esattamente questo tipo di lucida follia di cui aveva bisogno Berija per portare a termine lo spregiudicato progetto in rampa di lancio.

 

Il suo compito, ben oltre il limite del suicidio, sarebbe stato quello di farsi paracadutare oltre le linee per guadagnarsi la fiducia dei nazisti come disertore. L’obiettivo, oltre a creare una nuova rete di spionaggio, avendo Stalin purgato quella eccezionale realtà costruita da Pietro il Grande una volta conosciuta come i migliori servizi segreti del mondo, era quello di avvicinare l’armata disertrice dell’ex generale dell’armata rossa, passato dall’altro lato del fronte, Andreevič Vlasov (1901-1946).

 

Stalin, che avrebbe potuto conoscere in anticipo le volontà d’invasione tedesche se, paradossalmente, non avesse azzerato l’Intelligence con le purghe, temeva l’utilizzo dell’armata di Vlasov composta da oltre cento cinquantamila elementi visceralmente anti sovietici. Riuscire a sapere prima del tempo dove sarebbe stata impiegata avrebbe aiutato enormemente la logistica sovietica durante l’operazione Barbarossa.

 

Aleksander venne mandato in aereo nella regione polacca occupata dai nazisti vicino alla posizione di Vlasov. Nel volo uccise i piloti come prova della sua diserzione. Nel salto con il paracadute dovette sperare di non venir ferito mortalmente e di riuscire ad arrivare in ospedale senza morire dissanguato. La parte da recitare ai tedeschi l’aveva ripetuta un milione di volte e anche se ferito da tre proiettili riuscì a mantenere il ruolo fino ad arrivare ancora vivo anche se in stato d’incoscienza.

 

Una volta dentro la clinica riuscì a convincere gli ufficiali nazisti della sua lealtà denunciando varie talpe russe infiltrate da tempo all’interno degli apparati tedeschi. Questi agenti sovietici facevano comunque parte della lunga lista della purga di Stalin e dunque erano tutte carte che avrebbe dovuto giocarsi a sua discrezione.

 

L’operato di «Sasha» fu talmente eccezionale che si guadagnò completamente la fiducia nazista e divenne l’informatore principale dei tedeschi. Per non farsi scoprire anche dalle altre spie sovietiche in terra tedesca dovette iniziare un terribile doppio gioco volto a creare dei nuovi agenti solamente per poterli sacrificare alla bisogna.

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La sua consegna costante di agenti sovietici presenti nell’armata di Vlasov, contribuì a rendere la stessa armata inutilizzabile. I nazisti per via delle continue denunce di nuove spie da parte di Sasha, non impiegarono mai l’armata nell’Operazione Barbarossa, contribuendo in questo modo alla disfatta nazista.

 

Con la gara verso Berlino dei sovietici in corsa sul tempo contro con gli alleati, Orlov riuscì sempre a restare a galla nel suo prezioso ruolo di informatore. Inizialmente riuscì a ingraziarsi Reinard Gehlen (1902-1979), la super spia nazista, in carico dell’armata di Vlasov prima e in seguito dell’intelligence nazista dalla Repubblica di Weimar alla corte statunitense. Successivamente, sfruttò la ricerca furiosa degli yankee di nuove informazioni sui russi, attraverso l’ingorda, e spesso dozzinale, presa delle risorse tedesche, tra cui buona parte dell’Intelligence nazista di Gehlen. In breve Sasha, divenne uno dei principali e longevi agenti dell’agenzia americana, prima a Monaco di Baviera e in seguito nella fondamentale base operativa di Berlino.

 

L’ufficio di Berlino venne preso in mano da Allen Dulles proprio nel finire della guerra e lo tenne fino al 1945, ritornandosene a New York quando venne a sapere che l’OSS non sarebbe stato portato avanti. L’ufficio passò di mano per qualche anno e venne abbandonato dal governo americano che ne taglio i fondi e ne limitò l’operato. In questa condizione di disuso Orlov potè sguazzare rimanendone appiccicato grazie alla nomea di miglior agente in mano agli americani. Questa nomea rimase indisturbata per i molti anni successivi.

 

La sua mansione principale era quella di gestire i bordelli aperti dalla CIA a Karlshorst, la piccola Mosca di Berlino, il principale centro di tutte le operazioni fuori dall’Unione Sovietica. Secondo la logica americana, Orlov avrebbe potuto, attraverso fotografie compromettenti, ricattare gli agenti dell’Unione e creare nuovi elementi utili per la causa a stelle e strisce. Quello che gli americani non avevano considerato era che quelle foto per gli agenti russi non avrebbero creato nessun fastidio, ma questo chiaramente Sasha, non lo confidò mai. In questo ruolo potè convivere tranquillamente per anni a Berlino, mantenere i contatti con la madre patria e scalare le gerarchie militari dell’intelligence sovietica.

 

Nei primi anni Sessanta Anatoliy Golitsyn (1926-2008) uno dei più importanti disertori russi in suolo americano confidò a James Jesus Angleton (1917-1987) il potentissimo capo del controspionaggio americano che nelle precedenti decadi aveva sentito parlare di un agente infiltrato ad altissimi livelli a Washington. Le uniche cose che ricordava erano il nome in codice Sasha e il fatto che avesse un cognome polacco che iniziasse con la K e terminasse con ski. Angleton, dal dopo guerra in avanti, tormentato come fu dalle sue paranoie antisovietiche per tutta la sua carriera, si chiuse in stanza con il disertore per oltre tre mesi, controllando l’intero archivio della CIA.

 

Vennero formulate diverse ipotesi su chi potesse essere il fantomatico Sasha. Vennero colpiti in molti e non tutti i sospettati ritornarono a lavorare per la CIA. Infine nel 1964 arrivarono a identificare Orlov come Aleksandr Kopatskyi. Sasha infatti dopo aver ricevuto nel 1958 un addestramento negli Stati Uniti ed essere stato palleggiato un altra volta dalla Germania all’America venne fatto atterrare con tutta la famiglia definitivamente negli States. Gli venne offerto un risarcimento per l’importante cifra per l’epoca di 2500 dollari per ogni anno passato nella CIA.

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Sasha, venendo rimbalzato da ogni richiesta di nuovo incarico nell’intelligence americana, non volle darsi per vinto e rifiutò il premio alla carriera, accettando un lavoro da conducente del camion dei giornali per 60 dollari alla settimana. In qualche anno di grandi sacrifici assieme alla moglie Eleanor, riuscirono ad aprire un negozio di cornici e a crescere i loro due figli in America.

 

Nonostante le pressioni di Angleton, le accuse di Golitsyn, non riuscirono mai a trovare la smoking gun che Orlov/Kopatskyi/Navratilov fosse Sasha. Orlov, durante tutti gli anni del suo incarico, sempre in contatto con la madre patria, chiedeva notizie sulla madre e provava a capire se potesse un giorno arrivare il momento del ritorno a casa. Quel momento, per via anche della sua abilità come spia, non arrivò mai, ma venne sempre rimandato in nome di un bene più grande.

 

Nonostante la sua morte nel 1982 per cancro, l’FBI continuò a mettere pressione alla sua famiglia. Lo si può leggere in un articolo pubblicato nel 1989 dal Washington Post sempre di Joseph Trento con sua moglie Susan.

 

Un altro supposto disertore, Yurchenko, proprio come Golitsyn e Kitty Hawk, ebbe a modo di spendere molte energie su Orlov e tra le varie anche che avesse reclutato i suoi figli perché continuassero la tradizione «Sasha» di famiglia. George Orlov, si vedeva pedinato nelle sue corse pomeridiane a Princeton mentre seguiva i corsi di fisica nucleare. Eleanor dovette sottoporsi a diverse prove della macchina della verità, passandole tutte, e pregando che l’ultima fosse davvero l’ultima.

 

Marco Dolcetta Capuzzo

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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Intelligence

Le origini della CIA e la nascita delle operazioni coperte

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Nel suo saggio storico Disciples lo scrittore e giornalista Douglas Waller racconta come Richard Helms (1913-2002), agente segreto e futuro direttore della CIA, spiegasse come la lega dei gentleman – come William J. «Wild Bill» Donovan (1883-1959) amava chiamarla – conteneva vari disadattati sociali e diversi annoiati uomini d’affari di Wall Street in cerca d’azione.   Secondo Helms probabilmente il servizio segreto americano OSS aveva avuto un minimo effetto sulla guerra, si sarebbe potuta vincere anche senza di esso ma nonostante questo Donovan aveva dato prova di essere un leader e un visionario. Il generale aveva avuto il merito di far conoscere il Pentagono e gli americani nel difficile mondo della guerra non convenzionale.   Con la fine della seconda guerra mondiale, il presidente Harry S. Truman (1884-1972) sciolse l’OSS. La battaglia per la gestione dell’Intelligence nel mondo tra Donovan e J. Edgar Hoover (1895-1972) si risolse in un pareggio a reti inviolate. Ne trasse vantaggio Allen W. Dulles (1893-1969) che inizialmente formò la parte più clandestina con l’aiuto di Frank Wisner (1909-1965) ed infine ne prese formale controllo diventandone direttore.

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Allen Dulles, assieme anche a suo fratello John Foster Dulles (1888-1959) che ricoprì parallelamente l’incarico di segretario di Stato con Dwight D. Eisenhower (1890-1966), concorse a determinare quasi due decenni di politica estera americana. La sua esperienza come spia però venne plasmata agli ordini di Donovan a capo dell’ufficio svizzero e come molti altri colleghi ebbe un rapporto difficile con Wild Bill nonostante la stima reciproca.    Un editorialista scrisse che Donovan aveva avuto una vita da cavaliere medievale, o forse quello che più poteva avvicinarsi per il mondo americano a quell’ideale romantico di stampo prettamente europeo. Scappato dalla povertà della comunità irlandese di Buffalo, visse gli anni del college come quarterback della squadra di football, si laureò alla Columbia in classe con Franklin Roosevelt (1882-1945), venne insignito della medaglia al valor militare per eroismo durante la Grande guerra e divenne miliardario come avvocato di Wall Street.   All’alba della seconda guerra mondiale Roosevelt gli diede l’incarico di formare i servizi segreti americani, quello che poi venne chiamato OSS. Sotto il suo comando assemblò una macchina da più di 10 mila spie, organizzazioni paramilitari, propagandisti e analisti che combatterono l’Asse ovunque nel mondo.   Donovan considerava Dulles, nell’immediato dopoguerra, la sua migliore spia. Ma allo stesso modo aveva sempre sospettato che Dulles pensasse di poter gestire meglio l’OSS di quanto non stesse facendo lui, e non a torto. Inoltre Donovan aveva sempre sospettato che Dulles pensasse di volergli prendere il posto prima o poi, e anche qui non a torto.    Allo stesso modo di Donovan, Dulles, era convinto che il fine giustificasse i mezzi ed era necessario violare le rigide strutture etiche della società per una giusta causa. Dulles reclutò le menti più brillanti, più idealiste, più avventurose d’America e le spedì in giro per il mondo a combattere il comunismo come Donovan aveva fatto per il nazismo qualche anno prima. Li accomunava lo stesso trasporto per le spericolate missioni clandestine e la stessa insofferenza per quelle che non reputavano interessanti. Nonostante non l’avrebbe mai ammesso, l’esperienza nell’OSS durante la guerra l’aveva formato per la vita.    Successivamente alla resa tedesca, Donovan mandò Dulles a Wiesbaden con l’ordine di gestire Germania, Svizzera, Austria e Cecoslovacchia. L’americano stabilì la sede centrale nella fabbrica della Henkell Trocken Champagne a Wiesbaden che, nonostante bombardata, oltre a mantenere attiva la produzione, aveva ancora le cantine sufficientemente gremite di spumante.    Dulles in Wiesbaden portò vari agenti dei servizi e organizzò un sistema di raccolta informazioni e di reclutamento di nuovi agenti esteri a tempo pieno. L’idea dell’americano era quella di mantenere l’intelligence in vita sotto al suo comando. Per questo si circondò di analisti come Arthur M. Schlesinger Jr. (1917-2007) all’epoca agente dell’OSS, vari agenti del controspionaggio e in più tutta una serie di ufficiali esperti in medicina, comunicazioni e amministrazione. Helms e Ides Van der Gracht gestivano la sezione spionaggio, dopo il rifiuto al ruolo di capo dell’intelligence di William J. Casey (1913-1987) la posizione venne affidata a Frank Wisner (1909-1965).    La conferenza di Potsdam nell’estate del 1945 sancì l’inizio della guerra fredda. La paranoia di Stalin sulla rinascita della Germania e delle elezioni libere nei Paesi dell’Est Europa andava di pari passo con la sua profonda sfiducia verso le mosse americane. Gli States non avrebbero potuto capire quel momento senza mantenere una presenza fissa in Europa. Berlino divenne il centro di gravità permanente dell’intelligence del dopoguerra e così da Wiesbaden l’ufficio venne traslocato nella capitale tedesca. 

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Spiare i Russi divenne la priorità per tutta l’agenzia di Dulles a Berlino. Ma venne il giorno in cui Truman avvisò che sarebbe stata creata una nuova agenzia e che l’OSS sarebbe stata soppressa. I fondi a Berlino vennero tagliati e il morale allo stesso modo calò in maniera direttamente proporzionale al passare del tempo finché Dulles per primo non rassegnò le dimissioni e ritornò in America.   Allen Dulles ritornato alla sua carriera da avvocato non riuscì ad abbandonare l’entusiasmo per gli affari internazionali. Crebbe la sua vicinanza con Truman che gli offrì un ruolo da ambasciatore ma venne convinto dal fratello Foster a non accettare seguendo in questo modo la sua aspirazione maggiore. In seguito a un rapporto che scrisse per Truman dove delineò i problemi che stava avendo la CIA nella sua breve nuova vita, gli venne richiesto, in risposta, di gestire le operazioni clandestine.   Il passaggio successivo, dopo un breve periodo, divenne quello di ottenere il ruolo di vice direttore della CIA sotto il generale Walter Bedell Smith (1895-1961). La disciplina marziale richiesta ai suoi subordinati non si accostava al giovane Dulles con il quale nacquero diverse incomprensioni. Nel momento in cui Dwight Eisenhower divenne presidente, nominò sottosegretario il generale Bedell Smith sotto John Foster Dulles che divenne il nuovo segretario di stato.   La potenza di fuoco di John Foster consegnò in mano al fratello il ruolo tanto agognato di direttore della CIA. Bedell Smith, si oppose alla nomina di Dulles considerando la sua passione per le operazioni coperte nociva per l’agenzia e l’intera politica estera americana. Donovan, che si era speso moltissimo con «Ike» Eisenhower per ottenere la carica, allo stesso modo predisse che il suo sottoposto al tempo dell’OSS avrebbe mandato tutto all’aria.   Nonostante le gufate dei suoi ex colleghi, Allen assieme al fratello condussero per un’intera decade la politica estera americana fino all’ascesa politica di John Fitzgerald Kennedy alla presidenza e al disastro della Baia dei Porci del 1962.    Marco Dolcetta Capuzzo  

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Storia

Milei pubblica i documenti segreti di Adolfo Eichmann

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All’inizio del 2025 il presidente argentino Javier Milei ha declassificato e reso pubblici oltre 1.850 fascicoli (migliaia di pagine) che documentano gli sforzi dell’Argentina per individuare e monitorare migliaia di criminali nazisti rifugiatisi in Sud America dopo la Seconda guerra mondiale. L’iniziativa è partita su pressione del senatore repubblicano statunitense Chuck Grassley e del Simon Wiesenthal Center.

 

Come riportato da Renovatio 21, la pubblicazione dei file nazisti era stata annunziata dalle autorità argentine ad inizio anno.

 

I documenti, digitalizzati e caricati sul sito dell’Archivio generale della nazione, coprono soprattutto gli anni tra la fine dei Cinquanta e gli Ottanta e includono decreti presidenziali segreti dal 1957 al 2005. Sono organizzati in sette grandi sezioni dedicate ai principali ricercati: Adolf Eichmann (catturato a Buenos Aires nel 1960 dal Mossad sotto il falso nome di Ricardo Klement), con prove che il governo peronista sapeva della sua presenza e in alcuni casi lo protesse; Josef Mengele, il medico di Auschwitz che visse per anni in Argentina prima di riparare in Paraguay e Brasile; Martin Bormann, Ante Pavelić, Rudolf Höss e Klaus Barbie.

 

Harley Lippman, membro della Commissione statunitense per il patrimonio americano all’estero e del board dell’Associazione Ebraica Europea, ha sottolineato l’importanza storica della pubblicazione: «Da un lato è vergognoso che l’Argentina abbia tenuto nascosti questi documenti per decenni; dall’altro va riconosciuto il coraggio dell’attuale governo nel renderli accessibili. Più che per gli ebrei, è fondamentale che gli argentini stessi facciano i conti con il proprio passato».

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A maggio 2025, durante il trasferimento degli archivi della Corte Suprema, sono state scoperte nel seminterrato 83 casse sigillate dal 1941: contenevano materiale di propaganda nazista intercettato alla dogana argentina su una nave giapponese diretta all’ambasciata tedesca di Buenos Aires. Il governo Milei ha annunciato che anche questi documenti saranno digitalizzati e declassificati.

 

Il capo di gabinetto Guillermo Francos ha spiegato la decisione di Milei: «Non esiste più alcun motivo per continuare a nascondere queste informazioni; non è nell’interesse della Repubblica Argentina mantenere tali segreti».

 

Lippman ha collegato la declassificazione al ritorno dell’antisemitismo globale: «Dopo l’“età dell’oro” di circa 80 anni in cui l’odio antiebraico sembrava sopito, il 7 ottobre 2023 e la successiva narrazione che dipinge israeliani ed ebrei come “genocidi” hanno riaperto vecchie ferite. Molti giovani sotto i 30 anni ignorano l’Olocausto o ne sottovalutano la portata: questi documenti possono ricordare che lo sterminio sistematico di sei milioni di ebrei è avvenuto appena 80 anni fa».

 

I fascicoli, ha aggiunto Lippman, potrebbero anche fare luce sul ruolo delle banche svizzere e argentine nel riciclaggio dell’oro e dei beni sottratti agli ebrei, nonché sul destino degli U-Boot carichi di valori nazisti arrivati in Argentina e sulle cosiddette «ratlines» che, con la complicità di alcuni governi locali, permisero a migliaia di criminali di guerra di rifarsi una vita in Sud America.

 

Come riportato da Renovatio 21, della conversione al giudaismo di Javier Milei si parla da tanto tempo, e abbondano immagini e video in cui il personaggio sventola in pubblico grandi bandiere israeliane, invita l’ambasciatore dello Stato Ebraico alle riunioni emergenziali di gabinetto, piange copiosamente sul muro del Pianto, rituale inflitto a tutti i politici nordamericani ed ora pure sudamericani. Vari giornali argentini hanno ricostruito i rapporti di Milei con rabbini influenti e con oligarchi ebrei legati a Giorgio Soros.

 

Come riportato da Renovatio 21, la scorsa primavera documenti CIA hanno rivelato la ricerca segreta di Hitler negli anni Cinquanta.

 

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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