Pensiero
Napolitano e Messina Denaro, misteri atlantici
Nelle stesse ore in cui spirava a 98 anni l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il boss mafioso Matteo Messina Denaro entrava in coma «irreversibile» – qualunque cosa voglia dire.
Sono due facce, lontanissime nel sentire comune, del medesimo Paese – ma anche, dello stesso mondo. Sono volti che per chi scrive rimangono altamente enigmatici.
Prendiamo Napolitano. Non è ancora chiaro perché lo chiamassero Re Giorgio, espressione che ancora dice qualcosa per via del Regno del nonno di Carlo III, Giorgio VI. Fino a che l’ex comunista non salì al colle, l’espressione «Re Giorgio», tuttavia, era riservata a Giorgio Armani, et pour cause: un re nello stile e nella professionalità, nella creazione di bellezza e nella conduzione aziendale.
I giornali che ora si riempiono di titoli dove campeggia a la dicitura «Re Giorgio», stanno quasi tutti giustamente ignorando la chiacchiera – falsa, fasulla, da cui prendiamo le distanze – per cui sarebbe stato figlio biologico di Umberto II di Savoia. Su Internet per anni sono circolate immagini con le foto comparate del «re di maggio» e dell’uomo asceso alla più alta carica dello Stato, e definito poi (forse a seguito di un articolo del New York Times), appunto, «Re Giorgio».
Certo, la continuità della famiglia che con la massoneria ha unito l’Italia – il cosiddetto «Risorgimento» – anche al di là dell’esilio, passando attraverso un membro del PCI, è di per sé una storia di fantasia romanzesca estrema.
Inutile sbatterci la testa: ho conosciuto nobiluomini – ora non più fra noi – che erano pronti a giurare di aver notizie di prima mano sulla questione, ma in tanti smontano l’allucinante ipotesi. Nel ritratto del defunto fatto oggi su Il Tempo da Luigi Bisignani – che ha sempre smentito di essere mai appartenuto a qualsiasi Loggia e anche alla P2, anche se il suo nome, dice il Corriere, fu trovato negli elenchi trovati a Castiglion Fibocchi – la questione sabauda (una dinastia che, questo sito deve ricordarlo, magari con la Loggia qualcosa ha avuto a che fare) è affrontata di petto: quella per cui «Napolitano potesse essere effettivamente di sangue blu, figlio illegittimo dell’ultimo re d’Italia, Umberto II di Savoia, e per questo chiamato “Re Giorgio”» è solo una bufala «corroborata da una certa somiglianza fisica».
Bisignani va avanti: si tratta di «un gossip alimentato dalla circostanza che sua madre, contessa di Napoli (titolo che, da comunista doc, lui ha sempre accuratamente nascosto), fosse una delle dame di compagnia della regina. Invece quel “titolo nobiliare”, meno romanticamente, gli venne affibbiato su input dell’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, durante il caso delle intercettazioni telefoniche con Nicola Mancino per la vicenda della trattativa Stato-mafia. Napolitano voleva che fossero distrutte in quanto giudicate irrilevanti: così Zagrebelsky lo accusò di “rivendicare privilegi da monarca assoluto”, appunto da re».
Sarà così. C’entra la storia dello Stato-mafia, allora. Va bene. Anche quella, è un bel mistero. Dei misteri della mafia però parliamo dopo.
Del resto il Napolitano sapeva fare cose stupefacenti, enigmatiche: nel 1978, fu il primo dirigente del Partito Comunista Italiano a cui gli USA fecero un visto d’entrata. Non una cosa da poco.
Il lettore anche non anzianissimo può ricordare che chi andava negli USA, fino a non troppi anni fa, in aereo doveva compilare un formulario in cui tra le altre cose c’era la domanda da film di Nanni Moretti: lei è comunista? Un mio professore della scuola del cinema, si narrava tra gli studenti che ne scherzavano la verve ingenua e militante, scrisse immediatamente «Sìiiii»: lo arrestarono immantinente. Non so se questa storia sia vera, ma è sicuramente vero che da comunista entrò tranquillo negli USA.
Secondo le cronache, tenne conferenze ad Aspen, cittadina sciistica del Colorado sede di quell’Aspen Institute di cui sarebbe socia italiana – con Tremonti, Prodi, Brunetta, Giorgetti, John Elkann – Giorgia Meloni, e per questo chiamata dai suoi critici «Lady Aspen».
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Nello stesso viaggio parlerà anche ad Harvard, fucina dell’élite statunitense, dove era professore un personaggio che lo prenderà in grande simpatia: Henry Kissinger, plenipotenziario per la politica Estera americana, accusato di crimini internazionali atroci, ma tuttavia amicissimo di Gianni Agnelli, il quale, riportano, nello stesso viaggio ospiterà il Napolitano nella sua celeberrima magione di Park Avenue, la splendida casa che sarà in seguito teatro di party dove, si mormora, l’unico della famiglia a potere entrare era Lapo (e chissà perché, e chissà se è vero…), che peraltro di Kissinger fu stagista.
Kissinger, che oramai centenario gli sopravvive alla grandissima, consegnerà alla storia una definizione eccezionale, che di fatto contrassegnava l’uomo prima di «Re Giorgio»: «il mio comunista preferito». Sì: Napolitano era il comunista preferito di Kissinger. Anche qui, chissà perché.
Il tour in America di Napolitano, effettuato dal 4 al 19 aprile 1978, cade in un momento tragico della Repubblica: il 16 marzo, cioè poco più di due settimane prima, era stato rapito il Presidente della DC Aldo Moro. Del terrorismo italiano parlò in America in un’intervista con il diffuso settimanale Newsweek, parlando di «degenerazioni, fino al delirio ideologico e al crimine più barbaro, dell’ispirazione rivoluzionaria del marxismo e del movimento comunista».
Napolitano, che fino al 1974 era tra i comunisti che criticava Solzhenitsyn, teneva per quella che fu chiamata «linea della fermezza»: nessuna concessione alle Brigate Rosse. Il risultato sappiamo quale è stato – ma chissà, con i «se» la storia non si fa, e poi anche quello di Moro è un mistero, dove si perdono, per citare il titolo di un libro sulla P2 di un parlamentare comunista suo compagno di partito, le Trame atlantiche.
I rapporti con gli yankee vanno a gonfie vele anche in Italia. Richard Gardner, l’ambasciatore americano in Italia durante gli anni di piombo, ha confidato tempo dopo che «Napolitano era l’unico tra i dirigenti del PCI con cui parlavo. Ci vedemmo riservatamente per ben quattro volte in casa del nostro amico Cesare Merlini, presidente dell’Istituto per gli Affari internazionali». Il Quotidiano Nazionale scrive che Napolitano «dal 20 luglio 1978 cambia l’orientamento dell’ambasciata USA a Roma»: gli ambasciatori di Via Veneto da allora cominciano a parlare con esponenti PCI, cosa che prima, almeno in apparenza, è decisamente tabù.
Passano gli anni, il Muro crolla. Occhetto piange alla Bolognina, il Partito Comunista cambia nome. Dall’altra parte dell’oceano qualcuno potrebbe aver visto un’opportunità: un partito di sinistra, desovietizzato, fa al caso dell’Impero. I Democristiani e tutti gli altri erano leali, ma fino ad un certo punto: i rapporti erano logori, l’ideologia – sia pur intossicata dalla stessa mano americana che ha infilato in Italia il pensiero di Maritain per creare la DC, cioè qualcosa che consentisse pragmaticamente la contraddizione di un Paese cattolico liberale – aveva ancora qualcosa di concreto, aveva delle radici, addirittura, orrore, «cattoliche».
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Dall’altra parte, era tabula rasa. Qualsiasi contorsione era possibile con un partito traumatizzato, fino alle lagrime, dalla perdita della propria identità profonda. Il PD di oggi, i cui militanti inneggiano al Battaglione Azov, chiedono il Nuovo Ordine Mondiale (sic) e accettano qualsiasi deriva neoliberale senza battere ciglio, è esattamente quello che qualcuno nella stanza dei bottoni atlantici aveva visto trenta anni fa – un partito radicale di massa, come diceva Augusto Del Noce, ma anche qualcosa di più: un nuovo alleato, anche molto affidabile, in qualcosa che va al di là dello scacchiere geopolitico – cioè il desiderio impellente dello Stato profondo, la riforma finale dell’essere umano, sessualmente e biomedicalmente ora evidentissima.
Il cambio di cavallo del dopo muro non riguardò solo l’Italia, investita per coincidenza da Tangentopoli: pensiamo al Sud Africa, dove di lì a poco un uomo considerato un terrorista marxista, Nelson Mandela, viene riabilitato totalmente, fatto uscire di prigione e messo alla presidenza del Paese. Anche il Giappone, sia pur con minor effetto, fu vittima di qualche scossa nei suoi gangli politici, con una sorta di «Mani Pulite» in salsa teriyaki che ha fatto da prolusione allo scoppio della baboru, cioè la fine della cavalcata dell’economia giapponese, finita in crisi nei decenni seguenti distruggendo per sempre l’idea di acchiappare economicamente gli USA e pure conquistarli pezzo per pezzo.
In Italia, però, arriva un tizio che gli Americani odieranno sempre: Silvio Berlusconi. Il suo governo, uscito da una schiacciante vittoria nel 1994 contro la sedicente «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto («lo zombie coi baffi», disse Cossiga) dura pochissimo: arrivano nuove elezioni che installano Prodi, e Napolitano – riprendiamo il filo del nostro racconto misterico – fa da ministro dell’Interno.
Rammento confusamente il futuro presidente come ministro: ho un vago ricordo, senza possibilità di verificare, di una puntata di Sgarbi quotidiani dove il critico d’arte se la prendeva con una dichiarazione di Napolitano alla liberazione dell’imprenditore sequestrato Giuseppe Soffiantini: il ministro Napolitano, secondo quanto ricordava, parlava di vittoria dello Stato, quando quello che sarebbe successo, con il blocco dei beni, è che la famiglia aveva trovato comunque il mondo, dopo fallite operazioni delle teste di cuoio, di pagare ai sequestratori un riscatto da quattro milioni di dollari. Sgarbi attaccava a testa bassa. Napolitano, all’epoca non impressionava.
Di certo, non va dimenticato che con Livia Turco al Viminale sfornò la legge Turco-Napolitano, che creò i centri di permanenza temporanea per gli immigrati clandestini. Non va scordato neppure che fu subissato di critiche perché, nel 1998, gli fuggì all’estero Licio Gelli, cioè proprio il supermassone a capo della P2, dove, en passant, in lista è segnato pure Vittorio Emanuele di Savoia.
Tuttavia il suo lavoro atlantico dietro le quinte non si è mai fermato. Nel 1994, tornato in viaggio in USA, incontra George Soros, che poco prima aveva affossato la lira. Nel 1996 sbarcherà a New York anche Massimo D’Alema: di lì a pochi anni diverrà premier, e con Clinton alla Casa Bianca (più Blair a Downing Street: il cosiddetto «Ulivo Mondiale») formerà un governo che permetterà la penultima guerra americana, pardon, del Patto Atlantico, in Europa.
È il 1999, la NATO, cioè i caccia americani che partono dalle nostre basi, bombardano la Serbia per formare il Kosovo albanese, staterello satellite USA ma pure, in seguito, grande protagonista di traffici di organi e fornitore di miliziani ISIS. Ministro della Difesa del tempo, lo hanno riportato alla memoria i giornali parlando dei vari filamenti del caso Vannacci-uranio impoverito, era l’attuale presidente Mattarella.
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Dei suoi trascorsi da europarlamentare per i DS – il partito allora si chiamava così – resta impresso solo uno scandaletto tirato fuori dalla stampa tedesca sui rimborsi biglietti aerei.
Nel 2005, Ciampi (quello che stava in plancia di comando alle finanze del Paese quando Soros attaccò la lira, e che poi divenne presidente della Repubblica) lo fece senatore a vita. Lo stesso Ciampi si dimetterà anticipatamente nel 2006 per far insediare il Napolitano eletto il 10 maggio alla quarta votazione come undicesimo presidente della storia repubblicana: il comunista preferito di Kissinger è ora capo dello Stato italiano.
Sono anni turbolenti: il governo Prodi cade ancora, le elezioni riportano al potere, e alla grandissima, Silvio Berlusconi, che è geopoliticamente sempre più scatenato: con Putin l’intesa è totale (fino ad essere, lo abbiamo visto di recente, commovente), più c’è la questione che il milanese riesce a ricavare con Gheddafi una pace assai lucrosa per l’Italia.
Nel 2011 accadono una serie di cose assai significative, le cui ramificazioni paghiamo ancora oggidì, dove Napolitano sembrerebbe aver avuto un ruolo. Prima «Re Giorgio» fa senatore a vita un tecnocrate relativamente sconosciuto, l’ex preside della Bocconi e Commissario Europeo, Mario Monti. Poco dopo, complice una manovra favorita da Parigi e Berlino (e l’assenso USA, ricorda nel suo libro l’ex ministro del Tesoro USA Timothy Geithner) e lo psicoterrorismo dello «spread», il premier regolarmente eletto Berlusconi viene detronizzato e viene piazzato in sua vece proprio il Monti.
Non solo: poco prima, quando al governo c’era ancora Silvio, la Libia viene attaccata da un’operazione anglo-francese, anche qui con il placet di Washington. Gheddafi viene linciato a morte. Dall’altra parte dell’oceano Hillary Clinton, informata della cosa, ride in modo isterico, quasi demoniaco, dinanzi alle telecamere.
Esponenti del centrodestra e dei 5 stelle negli anni dichiarano che dietro all’intervento del 2011 in Libia c’era lui, Giorgio Napolitano. Il presidente ha smentito.
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«Non interessa ora indagare sui motivi che spinsero Sarkozy a iniziare in tal modo l’attacco alla Libia di Gheddafi» disse Napolitano intervistato da Repubblica, facendo capire che la storia dei fondi di Gheddafi alla campagna del presidente francese può essere tralasciata. «Quella iniziativa intempestiva e anomala fu superata da altri sviluppi». Come si dice in questi casi, fait accompli.
«La consultazione informale di emergenza si tenne in coincidenza con la celebrazione al Teatro dell’Opera dei 150 anni dell’Unità d’Italia» prosegue il ricordo di Napolitano. «ma quella sera la discussione fu aperta dall’allora consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Bruno Archi, che era in contatto diretto con New York mentre veniva varata la seconda risoluzione delle Nazioni Unite che autorizzò e sollecitò un intervento armato ai sensi del capitolo settimo della Carta dell’ONU».
Insomma, c’era un contatto con gli USA, con Nuova York, ma non è quello che pensate voi: non è il giro di Kissinger, è l’ONU.
«In quella sede informale potemmo tutti renderci conto della riluttanza del Presidente Berlusconi a partecipare all’intervento ONU in Libia» continua Napolitano. Pochi mesi dopo, il riluttante Berlusconi sarebbe stato sostituito da Monti nel primo vero esperimento di tecnocrazia del Paese.
La storia del Re va avanti. A ridosso delle elezioni 2013, per la prima volta nella Repubblica, viene rieletto presidente: tuttavia, è una manovra di lunghi coltelli nel suo partito, e pure una manovra astutissima di Berlusconi contro Prodi e contro i democratici in panne: al termine della votazione, dopo gli applausi di rito, si ode alla Camera un coro: «Sil-vio-Sil-vio…»
Nel 2015 Napolitano si dimette, sale al potere Mattarella. Anche lui dal PD, anche lui bissato dalla palude parlamentare. A Palazzo Chigi un nuovo tecnocrate, anche lui passato per Bruxelles (e per la Goldman Sachs), Mario Draghi.
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Ci dobbiamo fermare qua: dovevamo solo, in fondo, mettere insieme dei puntini, e magari indicare qualche mistero atlantico come abbiamo promesso dal titolo.
Abbiamo lasciato fuori qualcosa? Ah sì, Matteo Messina Denaro, l’immagine opposta di un capo dello Stato repubblicano, un capo dell’anti-Stato mafioso, per coincidenza finito in coma mentre il 98enne Napolitano lasciava la spirale mortale.
Cosa c’entra Messina Denaro con questa storia? Niente. In comune con Napolitano, oggi può avere solo il mistero sincronico della Vita e della Morte.
Tuttavia, uno pensa ai misteri atlantici e all’Italia, alle storie di presidenti e poteri fortissimi, e non è che può dimenticarsi quell’incontro, l’8 dicembre 1943, del presidente Roosevelt con Patton, Eisenhower (un altro futuro presidente) e vari altissimi comandanti dell’esercito USA… a Castelvetrano.
Sì, Roosevelt a Castelvetrano. Lo stesso luogo dove ha passato decenni in tranquillissima latitanza Matteo Messina Denaro, pure avvistato pubblicamente qui e là in un contorno, hanno improvvisamente ricostruito i giornali, pieno di massoni.
Il mistero si infittisce: lo prendono, gli anarchici immediatamente cominciano a protestare contro il 41 bis. Lui tuttavia non sembra molto interessato.
L’arresto è tranquillissimo, l’uscita dalla clinica è una sfilata geometrica. Ci dicono subito che ha il cancro.
In queste ore, scrivono i giornali, al suo capezzale ci sarebbe la figlia, cresciuta con un altro cognome, ma che in questi giorni ha chiesto e ottenuto di chiamarsi come il padre.
È un’immagine di paternità e destino che siamo qui ad osservare, e con cui ci sentiamo di chiudere questo articolo.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr
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Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri
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Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
Il presidente americano ha ancora una volta dimostrato la sua capacità di creare scherzi che tuttavia celano significati concreti – e talvolta enormi.
L’ultima trovata è stata la cerimonia della «grazia al tacchino», un frusto rito della Casa Bianca introdotto nel 1989 ai tempi in cui vi risiedeva Bush senior. Il tacchino, come noto, è l’alimento principe del giorno del Ringraziamento, probabilmente la più sentita ricorrenza civile degli americani, che celebra il momento in cui i Padri Pellegrini, utopisti protestanti, furono salvati dai pellerossa che indicarono ai migranti luterani come a quelli latitudini fosse meglio coltivare il granturco ed allevare i tacchini. Al ringraziamento degli indiani indigeni seguì poco dopo il massacro, però questa è un’altra storia.
Fatto sta che il tacchino, creatura visivamente ripugnante per i suoi modi sgraziati e le sue incomprensibili protuberanze carnose, diventa un simbolo nazionale americano, forse persino più importante dell’aquila della testa bianca, perché il rapace non raccoglie tutte le famiglie a cena in una magica notte d’inverno, il tacchino sì. Tant’è che ai due fortunati uccelli di quest’anno, Gobble e Waddle (nomi scelti online dal popolo statunitense, è stata fatta trascorrere una notte nel lussuosissimo albergo di Washington Willard InterContinental.
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax
— The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Da più di un quarto di secolo, quindi, eccoti che qualcuno vicino alla stanza dei bottoni si inventa che il commander in chief appaia nel giardino delle rose antistante la residenza e, a favore di fotografi, impartista una grazia al tacchino, salvandolo teoricamente dal finire sulla tavola – in realtà ci finisce comunque suo fratello, o lui stesso, ma tanto basta. Non sono mancati i momenti grotteschi, come quando il bipede piumato, dinanzi a schiere di alti funzionari dello stato e giornalisti, ha scagazzato ex abrupto e ad abundantiam lasciando puteolenti strisce bianche alla Casa Bianca.
Non si capisce cosa esattamente questo rituale rappresenti, se non la ridicolizzazione del potere del presidente di comminare grazie per i reati federali, tema, come sappiamo quanto mai importante in quest’ultimo anno alla Casa Bianca, visti le inedite «grazie preventive» date al figlio corrotto di Biden Hunter, al plenipotenziario pandemico Anthony Fauci, al generale (da alcuni ritenuto golpista de facto) Mark Milley. Sull’autenticità delle firme presidenziali bideniane non solo c’è dibattito, ma l’ipostatizzazione del problema nella galleria dei ritratti dei presidenti americani, dove la foto di Biden, considerato in istato di amenza da anni, è sostituita da un’immagine dell’auto-pen, uno strumento per automatizzare le firme forse a insaputa dello stesso presidente demente.
Ecco che Donaldo approffitta della cerimonia del pardon al tacchino per lanciare un messaggio preciso: appartentemente per ischerzo, ma con drammatico valore neanche tanto recondito.
Trump si mette a parlare di un’indagine approfondita condotta da Bondi e da una serie di dipartimenti su di « una situazione terribile causata da un uomo di nome Sleepy Joe Biden. L’anno scorso ha usato un’autopsia per concedere la grazia al tacchino».
«Ho il dovere ufficiale di stabilire, e ho stabilito, che le grazie ai tacchini dell’anno scorso sono totalmente invalide» ha proclamato il presidente. «I tacchini conosciuti come Peach and Blossom l’anno scorso sono stati localizzati e stavano per essere macellati, in altre parole, macellati. Ma ho interrotto quel viaggio e li ho ufficialmente graziati, e non saranno serviti per la cena del Ringraziamento. Li abbiamo salvati al momento giusto».
La gente ha iniziato a ridere. Testato il meccanismo, Trump ha continuato quindi ad usare i tacchini come veicoli di attacco politico.
«Quando ho visto le loro foto per la prima volta, ho pensato che avremmo dovuto mandargliele – beh, non dovrei dirlo – volevo chiamarli Chuck e Nancy», ha detto il presidente riguardo ai tacchini, facendo riferimento ai politici democratici Chuck Schumer e Nancy Pelosi. «Ma poi ho capito che non li avrei perdonati, non avrei mai perdonato quelle due persone. Non li avrei perdonati. Non mi importerebbe cosa mi dicesse Melania: ‘Tesoro, penso che sarebbe una cosa carina da fare’. Non lo farò, tesoro».
Dopo che il presidente ha annunciato che si tratta del primo tacchino MAHA (con tanto di certificazione del segretario alla Salute Robert Kennedy jr.), l’uso politico del pennuto è andato molto oltre, nell’ambito dell’immigrazione e del terrorismo: «invece di dar loro la grazia, alcuni dei miei collaboratori più entusiasti stavano già preparando le carte per spedire Gobble e Waddle direttamente al centro di detenzione per terroristi in El Salvador. E persino quegli uccelli non vogliono stare lì. Sapete cosa intendo».
Tutto bellissimo, come sempre con Trump. Il quale certamente non sa che l’uso del tacchino espiatorio non solo non è nuovo, ma ha persino una sua festa, in Alta Italia.
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Parliamo dell’antica Giostra del Pitu (vocabolo piementose per il pennuto) presso Tonco, in provincia di Asti. La ricorrenza deriverebbe da usanze apotropaiche contadine, dove, per assicurarsi il favore celeste al raccolto, il popolo scaricava tutte le colpe dei mali che affligevano la società su un tacchino, che rappresentava tacitamente il feudatario locale. Secondo la leggenda, questi era perfettamente a conoscenza della neanche tanto segreta identificazione del tacchino con il potere, e lasciava fare, consapevole dello strumento catartico che andava caricandosi.
Tale mirabile festa piemontese va vanti ancora oggi, anticipata da un corteo storico che riproduce la visita dei nobili a Gerardo da Tonco, figura reale del luogo e fondatore dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni in Gerusalemme, poi divenuto Sovrano Militare Ordine di Malta.
Subito dopo il gruppo che accompagna Gerardo avanza il carro su cui troneggia il tacchino vivo, autentico protagonista della celebrazione. Seguono quindi i giudici e i carri delle varie contrade del paese, che mettono in scena, con grande realismo, momenti di vita contadina tradizionale. Il passaggio del tacchino è tra ali di folla che non esitano ad insultare duramente il pennuto sacrificale.
Il clou dell’evento è il cosiddetto processo al Pitu, arricchito da un vivace botta-e-risposta in dialetto piemontese tra l’accusa pubblica e lo stesso Pitu, il quale tenta inutilmente di difendersi. Dopo la inevitabile condanna, il Pitu chiede come ultima volontà di fare testamento in pubblico, dando vita a un nuovo momento di ilarità.
Durante la lettura del testamento, infatti, egli si vendica della sentenza rivelando, sempre in stretto dialetto, vizi grandi e piccoli dei notabili e dei personaggi più in vista della comunità. Fino al 2009, al termine del testamento, un secondo tacchino (già macellato e acquistato regolarmente in macelleria, quindi comunque destinato alla tavola) veniva appeso a testa in giù al centro della piazza. Dal 2015, purtroppo, il tacchino è stato sostituito da un pupazzo di stoffa, così gli animalisti sono felici, ma il tacchino in zona probabilmente lo si mangia lo stesso.
Ci sarebbe qui da lanciarsi in riflessioni abissali sulla meccanica del capro espiatorio di Réné Girard, ma con evidenza siamo già oltre, siamo appunto al tacchino espiatorio.
Il tacchino espiatorio diviene il dispositivo con cui è possibile, se non purificare, esorcizzare, quantomeno dire dei mali del mondo.
Ci risulta a questo punto impossibile resistere. Renovatio 21, sperando in una qualche abreazione collettiva, procede ad accusare l’infame, idegno, malefico tacchino, che gravemente nuoce a noi, al nostro corpo, alla nostra anima, al futuro dei nostri figli.
Noi accusiamo il tacchino di rapire, o lasciare che si rapiscano, i bambini che stanno felici nelle loro famiglie.
Noi accusiamo il tacchino di aver messo il popolo a rischio di una guerra termonucleare globale.
Noi accusiamo il tacchino di praticare una fiscalità che pura rapina, che costituisce uno sfruttamento, dicevano una volta i papi, grida vendetta al cielo.
Noi accusiamo il tacchino di essere incompetente e corrotto, di favorire i potenti e schiacciare i deboli. Noi accusiamo il tacchino di essere mediocre, e per questo di non meritare alcun potere.
Noi accusiamo il tacchino di aver accettato, se non programmato, l’invasione sistematica della Nazione da parte di masse barbare e criminali, fatte entrare con il chiaro risultato della dissoluzione del tessuto sociale.
Noi accusiamo il tacchino di favorire gli invasori e perseguitare gli onesti cittadini contribuenti.
Noi accusiamo il tacchino di aver degradato la religione divina, di aver permesso la bestemmia, la dissoluzione della fede. Noi accusiamo il tacchino di essere, che esso lo sappia o meno, alleato di Satana.
Noi accusiamo il tacchino di operare per la rovina dei costumi.
Noi accusiamo il tacchino per la distruzione dell’arte e della bellezza, e la sua sostituzione con bruttezza e degrado, con la disperazione estetica come via per la disperazione interiore.
Noi accusiamo il tacchino di essere un effetto superficiale, ed inevitabilmente tossico, di un plurisecolare progetto massonico di dominio dell’umanità.
Noi accusiamo per la strage dei bambini nel grembo materno, la strage dei vecchi da eutanatizzare, la strage di chi ha avuto un incidente e si ritrova squartato vivo dal sistema dei predatori di organi.
Noi accusiamo il tacchino del programa di produzione di umanoidi in provetta, con l’eugenetica neohitlerista annessa.
Noi accusiamo il tacchino di voler alterare la biologia umana per via della siringa obbligatoria.
Noi accusiamo il tacchino di spacciare psicodroghe nelle farmacie, che non solo non colmano il vuoto creato dallo stesso tacchino nelle persone, ma pure le rendono violente e financo assassine.
Noi accusiamo il tacchino per l’introduzione della pornografia nelle scuole dei nostri bambini piccoli. Noi accusiamo il tacchino per la diffusione della pornografia tout court.
Noi accusiamo il tacchino per l’omotransessualizzazione, culto gnostico oramai annegato nello Stato, con i suoi riti mostruosi di mutilazione, castrazione, con le sue droghe steroidee sintetiche, con le sue follie onomastiche e istituzionali.
Noi accusiamo il tacchino di voler istituire un regime di biosorveglianza assoluta, rafforzato dalla follia totalitaria dell’euro digitale.
Noi accusiamo il tacchino, agente inarrestabile della Necrocultura, della devastazione inflitta al mondo che stiamo consegnando ai nostri figli.
Tacchino maledetto, i tuoi giorni sono contati. Sappi che ogni giorno della nostra vita è passato a costruire il momento in cui, tu, tacchino immondo, verrai punito.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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