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Mons. Viganò: «il filo a cui è appeso il Concilio Vaticano II»

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Renovatio 21 pubblica questo intervento di Monsignor Carlo Maria Viganò.

 

 

«IL FILO A CUI È APPESO IL CONCILIO»

Una risposta a Reid, Cavadini, Healy, Weinandy.

 

 

 

 

Et brachia ex eo stabunt, 

et polluent sanctuarium fortitudinis, 

et auferent juge sacrificium: 

et dabunt abominationem in desolationem.

Dan 11, 31

Ho seguito con interesse il dibattito in corso su Traditionis Custodes e il commento di Dom Alcuin Reid (qui) nel quale confuta Cavadini, Healy e Weinandy senza giungere tuttavia ad una soluzione dei problemi rilevati. Con questo mio contributo desidero indicare un possibile sbocco alla crisi presente. 

 

 

Il Vaticano II, non essendo un Concilio dogmatico, non ha inteso definire alcuna verità dottrinale, limitandosi a ribadire indirettamente – e in forma peraltro spesso equivoca – dottrine precedentemente definite in modo chiaro e inequivocabile dall’autorità infallibile del Magistero.

 

Esso è stato indebitamente e forzatamente considerato come «il» Concilio, il «superdogma» della nuova «chiesa conciliare», al punto da definirla in relazione a quell’evento.

 

Nei testi conciliari non vi è alcuna menzione esplicita di ciò che fu poi fatto in ambito liturgico, spacciandolo come compimento della Costituzione Sacrosanctum Concilium. Sono invece molteplici le criticità della cosiddetta «riforma», che rappresenta un tradimento della volontà dei Padri conciliari e dell’eredità liturgica preconciliare.

 

Dovremmo piuttosto interrogarci su quale valore dare a un atto che non è ciò che vuole sembrare: se cioè possiamo moralmente considerare «Concilio» un atto che, al di là delle sue premesse ufficiali – ossia negli schemi preparatori lungamente e dettagliatamente formulati dal Sant’Uffizio – si è dimostrato eversivo nelle intenzioni inconfessabili e doloso nei mezzi da impiegare da parte di coloro che, come poi è avvenuto, volevano usarlo per uno scopo totalmente opposto a ciò per cui la Chiesa ha istituito i Concili Ecumenici.

 

Questa premessa è indispensabile per poter poi valutare oggettivamente anche gli altri eventi e atti di governo della Chiesa che da esso derivano o che ad esso fanno riferimento. 

 

Mi spiego meglio. Sappiamo che una legge viene promulgata sulla base di una mens, ossia di una finalità ben precisa, che non può prescindere dall’intero sistema giuridico nel cui ambito essa nasce. Queste quantomeno sono le basi di quel Diritto che la saggezza della Chiesa ha acquisito dall’Impero Romano. Il legislatore promulga una legge con uno scopo e la formula in modo che essa sia applicabile solo per quello scopo specifico; egli eviterà pertanto ogni elemento che possa rendere la legge equivocabile rispetto al destinatario, allo scopo, al risultato.

 

L’indizione di un Concilio Ecumenico ha come scopo la convocazione solenne dei Vescovi della Chiesa, sotto l’autorità del Romano Pontefice, per definire particolari aspetti della dottrina, della morale, della liturgia o della disciplina ecclesiastica. Ma ciò che ogni Concilio definisce deve in ogni caso rientrare nell’alveo della Tradizione e non può in alcun modo contraddire il Magistero immutabile, perché se lo facesse andrebbe contro la finalità che legittima l’autorità nella Chiesa.

 

Lo stesso vale per il Papa, il quale ha piena, immediata e diretta potestà sull’intera Chiesa solo nei confini del suo mandato: confermare i fratelli nella Fede, pascere gli agnelli e le pecorelle del gregge che il Signore gli ha affidato.

 

Nella storia della Chiesa, sino al Vaticano II, non è mai accaduto che un Concilio potesse de facto cancellare i Concili che lo hanno preceduto, né che un Concilio pastorale – un ἅπαξ del Vaticano II – potesse avere più autorità di venti Concili dogmatici. Eppure è accaduto, nel silenzio della maggioranza dell’Episcopato e con l’approvazione di ben cinque Romani Pontefici, da Giovanni XXIII a Benedetto XVI. In questi cinquant’anni di rivoluzione permanente nessun Papa ha mai messo in discussione il «magistero» del Vaticano II, né ha osato tantomeno condannarne le tesi ereticali o precisarne quelle equivoche.

 

Al contrario, tutti i Papi da Paolo VI in poi hanno fatto del Vaticano II e della sua attuazione il fulcro programmatico del loro Pontificato, subordinando e vincolando la propria autorità apostolica ai diktat conciliari. Essi si sono distinti per una netta presa di distanze dai loro Predecessori e per una marcata autoreferenzialità da Roncalli a Bergoglio: il loro «magistero» inizia con il Vaticano II e lì si esaurisce, e i Successori proclamano santi gli immediati Predecessori per il solo fatto di aver indetto, concluso o applicato il Concilio.

 

Anche il linguaggio teologico si è adeguato all’equivocità dei testi conciliari, giungendo ad adottare come definite delle dottrine che prima del Concilio erano considerate eretiche: pensiamo alla laicità dello Stato, oggi data per acquisita e lodevole; all’ecumenismo irenista di Assisi e di Astana; al parlamentarismo delle Commissioni, del Sinodo dei Vescovi, della “via sinodale” della Chiesa tedesca. 

 

Tutto questo nasce da un postulato che quasi tutti danno per scontato: che il Vaticano II possa rivendicare l’autorità di un Concilio Ecumenico, dinanzi alla quale il fedele dovrebbe sospendere ogni giudizio e piegare umilmente il capo alla volontà di Cristo, espressa infallibilmente dai Sacri Pastori, anche se in forma pastorale e non dogmatica. Ma così non è, perché i Sacri Pastori possono essere tratti in inganno da una colossale cospirazione che ha come scopo l’uso eversivo di un Concilio.

 

Quanto è avvenuto a livello globale con il Vaticano II avvenne in forma locale con il Sinodo di Pistoia, nel 1786, dove l’autorità del Vescovo Scipione de’ Ricci – che egli poteva legittimamente esercitare convocando un Sinodo diocesano – venne dichiarata nulla da Pio VI per il fatto di averla usata in fraudem legis, ossia contro la ratio che presiede e orienta qualsiasi legge della Chiesa: perché l’autorità nella Chiesa appartiene a Nostro Signore, che ne è il Capo, che la concede in forma vicaria a Pietro e ai suoi legittimi Successori solo nell’alveo della Sacra Tradizione.

 

Non è quindi un’ipotesi ardita supporre che una conventicola di eretici possa aver organizzato un vero e proprio colpo di stato nel corpo ecclesiale, allo scopo di imporre quella rivoluzione che con analoghi metodi venne organizzata dalla Massoneria, nel 1789, contro la Monarchia di Francia, e che il modernista Card. Suenens salutò come realizzata al Concilio.

 

Né ciò è in conflitto con la certezza dell’assistenza divina di Cristo sulla Sua Chiesa: il non prævalebunt non ci promette l’assenza di conflitti, di persecuzioni, di apostasie; esso ci rassicura che nella furiosa battaglia delle portæ inferi contro la Sposa dell’Agnello queste non riusciranno a distruggere la Chiesa di Cristo.

 

La Chiesa non sarà vinta finché essa rimarrà come il Suo Eterno Pontefice le impose di essere. Inoltre, la speciale assistenza dello Spirito Santo sull’infallibilità papale non è messa in discussione, quando il Papa non ha alcuna intenzione di impegnarla, come nel caso dell’approvazione degli atti di un Concilio pastorale. Sotto un profilo teorico, dunque, l’uso eversivo e doloso di un Concilio è possibile; anche perché gli pseudochristi e gli pseudoprophetæ di cui parla la Sacra Scrittura (Mc 13, 22) potrebbero ingannare anche gli stessi eletti, tra cui buona parte dei Padri conciliari, e con essi una moltitudine di chierici e fedeli. 

 

Se dunque il Vaticano II fu, com’è evidente, uno strumento di cui venne usata fraudolentemente l’autorità e l’autorevolezza per imporre dottrine eterodosse e riti protestantizzati, possiamo sperare che prima o poi il ritorno sul Soglio di un Pontefice santo e ortodosso sani questa situazione dichiarandolo illegittimo, invalido, nullo, al pari del Conciliabolo di Pistoia.

 

E se la liturgia riformata esprime quegli errori dottrinali e quell’impostazione ecclesiologica che il Vaticano II conteneva in nuce, i cui artefici si ripromettevano di rendere palesi nella loro portata devastante solo dopo la sua promulgazione, nessuna ragione pastorale – come vorrebbe Dom Alcuin Reid – potrà mai giustificare alcun mantenimento di quel rito spurio, equivoco, favens hæresim e del tutto disastroso nei suoi effetti sul popolo santo di Dio.

 

Il Novus Ordo non merita quindi alcun emendamento, alcuna «riforma della riforma», ma la sola soppressione e abrogazione, quale conseguenza della sua insanabile eterogeneità rispetto alla Liturgia cattolica, al Rito Romano di cui vorrebbe essere presuntuosamente unica espressione e alla dottrina immutabile della Chiesa. «La menzogna va confutata, come insiste san Paolo, ma chi è invischiato nelle sue trappole deve essere salvato, non perduto», dice Dom Alcuin: ma non a detrimento della Verità rivelata e dell’onore dovuto alla Santissima Trinità nell’atto supremo del culto; perché nel dare un peso eccessivo alla pastoralità si finisce col mettere l’uomo al centro dell’azione sacra, quando egli dovrebbe invece porvi Dio e prostrarsi dinanzi a Lui in adorante silenzio.

 

E anche se ciò può destare stupore nei fautori dell’ermeneutica della continuità concepita da Benedetto XVI, ritengo che Bergoglio abbia per una volta perfettamente ragione a considerare la Messa tridentina come una intollerabile minaccia per il Vaticano II, dal momento che quella Messa è talmente cattolica, da sconfessare qualsiasi tentativo di convivenza pacifica tra le due forme del medesimo Rito Romano. Anzi, è un’assurdità poter concepire una forma ordinaria montiniana e una forma straordinaria tridentina per un Rito che, in quanto tale, deve rappresentare la sola voce della Chiesa Romana – una voce dicentes – con l’eccezione limitatissima dei riti venerandi per antichità quali l’Ambrosiano, il Lionese, il Mozarabico e le minime variazioni del Rito Domenicano e simili.

 

Lo ripeto: l’estensore di Traditionis Custodes sa benissimo che il Novus Ordo è l’espressione cultuale di un’altra religione – quella della «chiesa conciliare» – rispetto alla Religione della Chiesa Cattolica di cui la Messa di San Pio V è perfetta traduzione orante. In Bergoglio non c’è alcuna volontà di comporre il dissidio tra la stirpe della Tradizione e la stirpe del Vaticano II.

 

Al contrario, l’idea di provocare una rottura è funzionale all’estromissione dei Cattolici tradizionali, siano essi chierici o laici, dalla «chiesa conciliare» che si è sostituita alla Chiesa Cattolica e che di essa mantiene appena (e di malavoglia) il nome. Lo scisma auspicato da Santa Marta non è quello dell’ereticale cammino sinodale delle Diocesi tedesche, ma quello dei Cattolici tradizionali esasperati dalle provocazioni bergogliane, dagli scandali della sua Corte, dalle sue dichiarazioni intemperanti e divisive (qui e qui).

 

Per ottenere il quale, Bergoglio non esiterà a portare alle estreme conseguenze i principi posti dal Vaticano II, cui egli incondizionatamente aderisce: considerare il Novus Ordo come unica forma del Rito Romano postconciliare, e coerentemente abrogare qualsiasi celebrazione in Rito Romano antico, in quanto del tutto aliena all’impianto dogmatico del Concilio. 

 

Ed è verissimo, oltre ogni possibile confutazione, che non vi sia possibilità di conciliazione tra due visioni ecclesiologiche eterogenee, anzi opposte. O sopravvive l’una e l’altra soccombe, o soccombe l’una e sopravvive l’altra. La chimera di una convivenza tra Vetus e Novus Ordo è impossibile, artificiosa, ingannatoria: perché ciò che il celebrante compie perfettamente nella Messa apostolica lo porta naturalmente e infallibilmente a compiere ciò che vuole la Chiesa; mentre ciò che il presidente dell’assemblea compie nella Messa riformata è quasi sempre inficiato dalle variazioni autorizzate dal rito medesimo, anche se in esso si realizza validamente il Santo Sacrificio.

 

Ed è proprio in questo che consiste la matrice conciliare della messa nuova: la sua fluidità, la sua capacità di adattarsi alle esigenze delle più disparate «assemblee», di poter essere celebrata tanto da un sacerdote che crede nella Transustanziazione e lo manifesta con le genuflessioni prescritte quanto da uno che crede nella transignificazione e dà la Comunione in mano ai fedeli.

 

Non mi stupirei quindi se, in un futuro molto prossimo, chi sta abusando dell’autorità apostolica per demolire la Santa Chiesa e provocare l’esodo in massa dei Cattolici «preconciliari», non esitasse non solo a limitare la celebrazione della Messa antica, ma giungesse anche a proibirla del tutto, perché in quella proibizione si compendia l’odio settario contro il Vero, il Buono, il Bello che ha animato la congiura dei Modernisti sin dalla prima Sessione del loro idolo, il Vaticano II.

 

Non dimentichiamo che, coerentemente con questa impostazione fanatica e tirannica, la Messa tridentina fu disinvoltamente abrogata con la promulgazione del Missale Romanum di Paolo VI, e che quanti continuarono a celebrarla vennero letteralmente perseguitati, ostracizzati, fatti morire di crepacuore e sepolti con funerali in rito nuovo, quasi a suggellare una miserabile vittoria su un passato da dimenticare definitivamente. E a quei tempi a nessuno interessavano le motivazioni pastorali per derogare alla durezza della legge canonica, così come oggi nessuno si preoccupa delle motivazioni pastorali che potrebbero indurre molti Vescovi a concedere quella celebrazione in rito antico a cui chierici e fedeli mostrano particolare attaccamento. 

 

Il tentativo conciliatore di Benedetto XVI, lodevole nei suoi temporanei effetti di liberalizzazione dell’Usus Antiquior, era destinato al fallimento proprio perché nasceva dall’illusione di poter applicare la sintesi di Summorum Pontificum alla tesi tridentina e all’antitesi di Bugnini: quella visione filosofica influenzata dal pensiero hegeliano non poteva avere successo in ragione della natura stessa della Chiesa (e della Messa), che è cattolica o non è. E che non può essere allo stesso tempo ancorata saldamente alla Tradizione e scossa dai flutti della mentalità secolarizzata. 

 

Per questo provo grande sgomento nel leggere che la Messa apostolica è considerata da Dom Reid «espressione di quella legittima pluralità che fa parte della Chiesa di Cristo», perché la pluralità delle voci si esprime nella sinfonia complessiva, e non nella compresenza dell’armonia e del frastuono stridente. Vi è qui un equivoco che dev’essere chiarito quanto prima, e che con ogni probabilità verrà sanato non tanto dal timido e composto dissenso di chi chiede tolleranza per sé riconoscendola a propria volta a chi rivendica principi diametralmente opposti, ma dall’azione intollerante e vessatoria di chi crede di poter imporre la propria volontà andando contro la volontà di Cristo Capo della Chiesa, presumendo di poter governare il Corpo Mistico al pari di una multinazionale, come giustamente ha evidenziato il Card. Mueller in un suo recente intervento. 

 

Eppure, a ben vedere, quanto accade oggi e quanto avverrà in un prossimo futuro non sono altro che la logica conseguenza delle premesse poste nel passato, il gradino successivo in una lunga serie di passi più o meno lenti, al superare dei quali molti hanno taciuto, hanno accettato, hanno subito il ricatto.

 

Perché chi celebra la Messa tridentina abitualmente ma continua a celebrare saltuariamente il Novus Ordo – e non parlo dei sacerdoti sottoposti a ricatto ma di quanti potevano imporsi o avevano la libertà di scegliere – ha già ceduto sul fronte dei principi, accettando di poter celebrare indifferentemente l’uno o l’altro, come se entrambi si equivalessero, come – appunto – se uno fosse la forma straordinaria e uno quella ordinaria dello stesso Rito.

 

E non è ciò che, con metodi analoghi, è avvenuto in ambito civile, con l’imposizione di restrizioni e violazione dei diritti fondamentali, accettate in silenzio dalla maggioranza della popolazione, terrorizzata dalla minaccia di una pandemia? Anche in quelle circostanze, con motivazioni diverse ma finalità analoghe, i cittadini hanno subìto un ricatto: «O ti vaccini o non puoi lavorare, viaggiare, uscire al ristorante».

 

E quanti, pur sapendo che si trattava di un abuso dell’autorità, hanno obbedito? Credete che i sistemi di manipolazione del consenso siano molto diversi, quando chi li adotta proviene dalla stessa schiera nemica ed è guidata dallo stesso Serpente? Pensate che il piano del Great Reset ideato dal World Economic Forum di Klaus Schwab abbia scopi differenti da quelli che si prefigge la setta bergogliana? Il ricatto non sarà sullo stato sanitario, ma su quello dottrinale, e chiederà di accettare unicamente il Vaticano II e il Novus Ordo Missæ per poter avere diritti nella chiesa conciliare; i tradizionalisti saranno bollati come fanatici al pari dei no-vax.

 

Quando da Roma dovesse essere proscritta la celebrazione della Messa antica in tutte le chiese dell’Orbe, quanti credevano di poter servire due padroni – la Chiesa di Cristo e la chiesa conciliare – scopriranno di esser stati ingannati, come prima di loro avvenne ai Padri conciliari.

 

A quel punto dovranno compiere quella scelta che si erano illusi di poter eludere, e che li costringerà a disobbedire a un ordine illecito per obbedire al Signore, o piegare il capo al volere del tiranno venendo meno ai loro doveri di Ministri di Dio. Ci pensino bene, nell’esame di coscienza, quanti hanno evitato di sostenere i pochi, pochissimi confratelli fedeli al proprio Sacerdozio, quando venivano additati come disobbedienti o inflessibili solo perché avevano previsto l’inganno e il ricatto. 

 

Qui non si tratta di travestire la Messa montiniana da Messa antica, cercando di nascondere con paramenti e canti gregoriani l’ipocrisia farisaica che l’ha concepita; non è questione di togliere la Prex eucharistica II o celebrare ad orientem: la battaglia si combatte sulla differenza ontologica tra la visione teocentrica della Messa tridentina e la visione antropocentrica della sua contraffazione conciliare. 

 

Questa non è altro che la battaglia tra Cristo e Satana. Una battaglia per la Messa, che è il cuore della nostra Fede, il trono in cui il divino Re eucaristico discende, il Calvario su cui si rinnova in forma incruenta l’immolazione dell’Agnello immacolato. Non una cena, non un concerto, non una rassegna di eccentricità o un pulpito per eresiarchi, non un podio per comizi. 

 

Una battaglia che si rafforzerà spiritualmente nella clandestinità dei sacerdoti fedeli a Cristo, considerati scomunicati e scismatici, mentre nelle chiese assieme al rito riformato trionferanno l’infedeltà, l’errore, l’ipocrisia. E l’assenza: assenza di Dio, assenza di santi sacerdoti, assenza di buoni fedeli.

 

L’assenza – lo dicevo nell’Omelia per la Cattedra di San Pietro in Roma (qui) – di quella unità tra la Cattedra e l’Altare, tra l’autorità sacra dei Pastori e la loro stessa ragion d’essere, sul modello di Cristo, pronti a salire essi per primi il Golgota, ad immolarsi per il gregge. Chi rigetta questa visione mistica del proprio Sacerdozio finisce per esercitare l’autorità che ricopre senza la ratifica che viene solo dall’Altare, dal Sacrificio, dalla Croce: da Cristo che su quella Croce regna come Re e Pontefice anche sui sovrani temporali e spirituali.

 

Se questo è ciò che vuole Bergoglio per affermare il suo strapotere nel silenzio assordante del Sacro Collegio e dell’Episcopato, sappia che incontrerà l’opposizione ferma e decisa di tante anime buone, disposte a combattere per amore del Signore e per la salvezza della propria anima e determinate a non cedere, in un momento così tremendo per le sorti della Chiesa e del mondo, a chi vorrebbe cancellare il Sacrificio perenne, quasi a rendere più agevole l’ascesa dell’Anticristo ai vertici del Nuovo Ordine Mondiale.

 

Comprenderemo presto il senso delle tremende parole del Vangelo (Mt 24, 15), in cui il Signore parla dell’abominazione della desolazione nel tempio: l’orrore abominevole di vederci proscritto il tesoro della Messa, di vedere spogli i nostri altari, chiuse le nostre chiese, costrette alla clandestinità le nostre funzioni.

 

Questa è l’abominazione della desolazione: la fine della Santa Messa apostolica. 

 

Quando, il 21 Gennaio 304, la tredicenne Agnese fu condotta al Martirio, molti tra i fedeli e tra i sacerdoti avevano apostatato la Fede dinanzi alla persecuzione di Diocleziano. Dovremmo noi temere l’ostracismo della setta conciliare, quando una bambina ci ha dato l’esempio di fedeltà e fortezza dinanzi al carnefice? Quella fedeltà eroica fu lodata da Sant’Ambrogio e San Damaso: facciamo in modo di poter meritare, ancorché indegnissimi, il futuro elogio della Chiesa mentre ci prepariamo a queste prove in cui testimoniare la nostra appartenenza a Cristo.

 

 

+Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

 

21 Gennaio 2023

Sanctæ Agnetis Virginis et Martyris

 

 

 

 

 

 

Immagine di Lothar Wolleh (1930–1979) via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)

 

 

 

 

 

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Pensiero

Miseria dell’ora legale, contro Dio e la legge naturale

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Ho un argomento molto metafisico, e al contempo concretissimo, per combattere l’abominio dell’ora legale. Un argomento che sono persino in grado di visualizzare.

 

Ci sono, certo i numeri: ci dicono che risparmieremo 300 gigawattora. Quando stanotte mi sono svegliato ad un orario innaturale, nella confusione inevitabile di non sapere se è troppo presto o troppo tardi, ho ripensato ad un altro dato: quante persone, in questi giorni, moriranno negli incidenti stradali dovuti ai colpi di sonno? Non credo che nessuno abbia mai fatto questo calcolo, che sarebbe più importante che qualsiasi discorso sparagnino.

 

Ma a chi importa? L’ora legale, teorizzata da Beniamino Franklin che, democraticamente, voleva piazzare un cannone in ogni via per svegliare la popolazione all’ora che diceva lui per risparmiare in candele, in Italia fu adottata nel 1916, in piena Prima Guerra Mondiale: i nostri ragazzi andavano verso l’inutile strage, il potere pensava a cambiargli l’orologio. Non sono in grado di calcolare l’effetto che l’ora legale può aver avuto sulle trincee, e non ho voglia nemmeno di chiedermelo.

 

Tuttavia non è questo pensiero di morte – diligente e terminale conseguenza dell’azione dello Stato moderno, che è macchina antiumana – che mi spinge a vedere nell’ora legale un’aberrazione satanica.

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Ho, negli occhi, e nel cuore, un’immagine invincibile, quella della chiesetta dove assisto alla Santa Messa, ovviamente in rito tridentino. Molti lettori già la conoscono, perché ho usato la sua foto in vari articoli.

 

Andò più o meno così: oramai sette anni fa, trovammo questa chiesetta – dell’estrema nobiltà della proprietà che ce la concesse parlerò altrove. Si tratta di un oratorio che risale al XII secolo, ma notizie certe in merito non si hanno, e mi piace pensare che vi sia davvero un millennio di storia lì.

 

La chiesa sta fuori dalla città, sopra un borghetto che sa ancora di medioevo, su una collina di boschi e pareti di roccia. L’oratorio stesso sembra posato su un’enorme roccia, anzi sembra esservi stato scolpito, sottratto una scalpellata dopo l’altra da quantità di mani laboriose e fedeli vissute in secoli dimenticati.

 

Arrivati al nostro secolo, arrivati a noi, c’era pronto tutto quello che serviva: il luogo era stato restaurato, nessuno vi aveva introdotto il tavolone-alare conciliare, a poca distanza c’era tanto parcheggio… per i tanti che, non solo dalla provincia, finalmente potevano avere a portata la Messa in latino.

 

Iniziarono così le celebrazioni del rito antico, tuttavia ottenemmo dai sacerdoti, impegnati a dire Messe in tanta parte della regione ed oltre, un orario pre-serale, alle 18.

 

D’inverno, a quell’ora è il buio. Nella scala di pietra mettevamo delle candeline, e lo facciamo ancora oggi in caso di celebrazione notturna. L’effetto è abbastanza magico, tuttavia nulla ha a che fare con quanto avremmo scoperto più avanti.

 

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Anni dopo, a fronte di una comunità di fedeli sempre più vasta e persistente (unita davvero, come dimostrò la solidarietà in pandemia…) aumentarono il numero di Sante Messe, e fu concessa quindi una celebrazione la domenica mattina, alle 11:00.

 

Saltò così fuori il fenomeno che ancora mi stupisce, mi commuove. Ci accorgemmo che, precisamente a mezzogiorno – ora nella quale si ha, con la messa iniziata alle 11, la consacrazione eucaristica, un raggio di luce entra dalla finestra a lato e colpisce esattamente il centro dell’altare, dove è posato il tabernacolo.

 

L’incenso aiuta a vederlo, tuttavia a volte può capitare di notarlo anche in assenza di fumo. È impressionante. Tendo a sospettare di quanti vedono questa cosa e non restano sbalorditi. Le immagini che vedete qui sotto non sono ritoccate in nessun modo. Anzi, ad occhio nudo l’effetto è ancora più forte.

 

 

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È interessante notare che lo abbiamo riscoperto noi a Messa, ma da qualche parte l’eco di questo miracolo luminoso risuonava ancora. Una signora della Pro Loco, che ha stampato un libro sulla chiesetta, mi aveva domandato se mai fosse vera una leggenda locale secondo cui nel giorno del Santo patrono dell’oratorio un raggio di luce colpisce l’altare. Ho risposto invitandola a Messa la domenica successiva, dove ha fatto tante foto con il telefonino, e compreso che la leggenda conteneva una realtà ancora più stupefacente: quel raggio si produce ogni giorno.

 

Il fenomeno impone tanti pensieri. Il primo, è che le mani che hanno eretto questa chiesa sapevano fare cose che i moderno non sono in grado di fare. Di più: chi l’ha costruita, l’ha basata su principi che sono sconosciuti all’architettura moderna. Per fare una chiesa, bisogna orientarla, cioè l’abside deve dare ad orientem (come il sacerdote prima del Concilio), ma non solo.

 

Ho l’idea che chi ha costruito la chiesetta lo abbia fatto proprio a partire da quel raggio, alla faccia di quanti ne osservino gli elementi (scala esterna, portone, altare) e li considerino disallineati. Ossia, l’intera chiesa è concepita a partire dal rapporto del Cielo con la Terra, cioè di Dio con l’uomo – questo è un senso ultimo della religione cristiana, quella della divinità che si fa essere umano, del Dio del Cielo che scende sulla Terra, del Cielo che nutre la Terra con la sua luce, il suo calore la sua grazia.

 

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Quel raggio, che casca durante la Santa Messa esattamente nel momento più alto, significa in maniera incontrovertibile l’armonia tra il Cielo e la Terra. L’accordo, nella bellezza, accordato all’uomo da un Dio buono, un Dio che è luce, che è amore.

 

Questo è l’ordine celeste, infinito, stupendo. Questo è il logos. Questo è il cosmos.

 

Non ci sono voluti tanti mesi per capire che, a parte il cattivo tempo, c’era solo una cosa in grado di distruggere il nostro raggio divino: l’ora legale. Come a marzo si cambia l’ora, quella luce svanisce, si fa più tenue, fino a sparire, facendo capolino, forse, solo dopo la Messa, quando qualcuno si attarda ad una confessione fuori tempo ed altri (io) rassettano prima di chiudere.

 

Di fatto, poi, il fascio luminoso scompare del tutto, dalla vista come dai cuori. Fine della magia, per ordine dello Stato moderno.

 

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Ho sempre preso questo fatto come la prova definitiva della nequizia dell’ora legale – del suo essere un invento contronatura, e quindi contro Dio.

 

Solo il mondo moderno poteva pensare di alterare persino il tempo: l’uomo si sente in grado di modificare l’immutabile, l’uomo introduce il suo artificio in un sistema la cui complessità ha milioni di anni. Non è diverso per tante altre questioni: ad esempio, i vaccini, la fecondazione in vitro, la bioingegneria…

 

L’uomo-dio crede di poter mettere mano su qualsiasi cosa, devastando le leggi stesse della creazione, disintegrando quindi l’equilibrio del Cielo e della Terra – una realtà conosciuta dalla saggezza cinese: «l’uomo si conforma alla Terra / La Terra si conforma al Cielo / il Cielo si conforma al Tao» (Tao Te King, XXV). Era chiaro, agli antichi cinesi, che il Cielo è legato alla morale: «Sotto il cielo tutti / sanno che il bello è bello, / di qui il brutto, sanno che il bene è bene, / di qui il male» (Tao Te King, II).

 

Ora, nel Cristianesimo l’armonia tra la Terra e il Cielo è in realtà una vera alleanze tra persone, cioè tra gli uomini e Dio – e questa nuova alleanza è il Cristo risorto.

 

Alterare il tempo significa frantumare la relazione naturale con il Cielo. Adulterare la luce del sole significa quindi andare contro il divino, contro la legge naturale, contro Dio.

 

Non poteva essere altrimenti: il mondo moderno odia, più ancora dell’uomo, Nostro Signore, che vuole sostituire con l’essere umano ubriacato di hybris satanica, l’umanità onnipotente che, apoteosi del non serviam, si crede capace di cambiare le leggi del cosmo.

 

Ecco perché combatto l’ora legale: perché, ve ne rendiate conto o no, fa parte della macchina in atto per distruggere la presenza di Dio sulla Terra.

 

E quel raggio magnifico me lo ha ricordato anche domenica scorsa: sì, tornata l’ora del Sole, l’ora vera, è tornato. E con lui è venuta ancora da noi questa immagine potente di reincanto del mondo, di bellezza divina, di armonia cosmica, questa visione sacra che vale più di qualsiasi risparmio.

 

Vale tutto. Vale il senso vero dell’esistenza e dell’universo.

 

Roberto Dal Bosco

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Spirito

Cristo Re, il cosmo divino contro il caos infernale. Omelia di Mons. Viganò

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Renovatio 21 pubblica l’omelia nella festa di Cristo Re dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò.      

Israël es tu Rex

Omelia nella festa di Cristo Re

     

Israël es tu Rex, davidis et inclyta proles; nomine qui in Domini, Rex benedicte, venis.

D’Israele Tu sei il Re, di David la nobile prole; Tu che vieni, Re benedetto, nel Nome del Signore.

Teodolfo di Orléans, Inno Gloria laus et honor.

 

Gloria, laus et honor tibi sit, Rex Christe Redemptor. Al canto di questo inno antichissimo, intonato nella Domenica delle Palme dinanzi alle porte serrate della chiesa, la processione del clero e dei fedeli entra solennemente nella nuova Gerusalemme, spalancandone i robusti battenti con il triplice colpo della Croce astile.

 

La suggestiva cerimonia della seconda Domenica di Passione rievoca l’ingresso trionfale di Nostro Signore nella Città santa, di cui era figura l’ingresso di Salomone (1Re 1, 32-40). Essa ha dunque un’indole eminentemente regale, perché con questa presa di possesso del Tempio, Egli è riconosciuto e osannato come Dio, come Messia e come Re dei Giudei: il Cristo, Χριστός, l’Unto del Signore. La Sua divina Regalità era già stata testimoniata e onorata dai Magi, nella grotta di Betlemme: con l’oro al Re dei Re, l’incenso al Dio Vivo e Vero, la mirra al Sacerdote e Vittima.

 

Poco meno di cent’anni fa, l’11 Dicembre 1925, il grande Pontefice lombardo Pio XI promulgò l’immortale Enciclica Quas primas, nella quale è definita la dottrina della universale Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo: Egli è Re in quanto Dio, in quanto discendente della stirpe regale della tribù di Davide e per diritto di conquista mediante la Redenzione.

 

L’istituzione di questa festa non ha in verità introdotto nulla di nuovo. Essa è stata voluta da Pio XI per contrastare e combattere la peste del liberalismo laicista, il massonico Libera Chiesa in libero Stato e la folle presunzione di estromettere Gesù Cristo dalla società civile. Pio XI non fu il solo a ribadire solennemente la dottrina cattolica: prima di lui Clemente XII, Benedetto XIV, Clemente XIII, Pio VI, Pio VII, Leone XII, Pio VIII, Gregorio XIV, Pio IX, Leone XIII e San Pio X avevano severamente condannato le logge segrete, la carboneria, la Massoneria e tutti gli errori che i nemici di Cristo avevano sparso e alimentato nel corso degli ultimi due secoli.

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Dopo la grande frattura del Protestantesimo nel Cinquecento, i tre secoli successivi hanno visto affrontarsi in una serie di terribili battaglie la Chiesa Cattolica e l’Antichiesa, cioè la Massoneria: da una parte, il Principe della Pace e le Sue schiere angeliche e terrene; dall’altra, la scelesta turba, la folla sciagurata, aizzata dai mercanti asserviti a Lucifero.

 

Il mito del «popolo sovrano» ha sepolto sotto le rovine della Rivoluzione secoli di civiltà cristiana, mostrando sino a quali aberrazioni l’uomo potesse giungere. I Martiri di questi secoli di violenze inaudite e di eccidi ancora impuniti ci guardano dai loro scranni in cielo, chiedendo giustizia per il sangue che essi hanno versato, e con il loro silenzio – quasi di notte oscura per la Chiesa, alla vigilia della sua passione – essi osservano increduli i papi di questi ultimi decenni deporre le armi spirituali e cooperare con i nemici di Cristo.

 

Da quegli scranni ci guardano anche i Pontefici guerrieri che – anche a costo della propria vita, come Pio VI, imprigionato da Napoleone e morto di stenti in carcere – seppero affrontare a testa alta i più feroci attacchi contro Dio, contro il Papato, contro la Gerarchia Cattolica, contro i fedeli. Se la Storia non fosse stata falsificata dai momentanei vincitori di questa guerra – come avviene ancora oggi – nelle scuole i nostri figli studierebbero non la presa della Bastiglia, non le menzogne dell’epopea del Risorgimento, non le gesta di mercenari cospiratori o di ministri corrotti, ma le fasi del genocidio contro i Cattolici delle Nazioni un tempo cristiane.

 

Quando venne istituita la festa di Cristo Re, la Chiesa Cattolica non poteva più avvalersi della cooperazione dei Sovrani cattolici, che nelle leggi civili e penali avevano fatto osservare i principi del Vangelo e della Legge naturale. La prima autorità dell’ancien régime a cadere fu infatti la Monarchia di diritto divino, che attinge alla Regalità di Cristo la potestà vicaria nelle cose temporali.

 

La seconda autorità cadde pochi decenni dopo, e fu quella dei pontefici asserviti alla Rivoluzione. Con la deposizione della tiara papale, Paolo VI suggellò l’abdicazione della potestà di Cristo nelle cose spirituali e la resa alle ideologie anticristiche e anticattoliche della Sinagoga di Satana. «Anche noi, più di ogni altro abbiamo il culto dell’uomo», disse Montini alla chiusura del Vaticano II (1). E sotto le volte della Basilica Vaticana echeggiarono queste parole: «La Chiesa si è quasi dichiarata l’ancella dell’umanità», parole che solo pochi anni prima avrebbero scandalizzato qualsiasi Cattolico.

 

Paolo VI – e con lui il predecessore Giovanni XXIII – furono gli iniziatori del processo di liquidazione della Chiesa di Cristo e su di essi incombe la responsabilità di aver disarmato la Cittadella e averne spalancate le porte per meglio farvi entrare il nemico, salvo poi ipocritamente denunciare che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio» (2). E nulla si salvò da quell’operazione di disarmo: né la dottrina, né la morale, né la liturgia, né la disciplina.

 

Così venne sfigurata anche la festa di Cristo Re, la cui data fu spostata alla fine dell’anno liturgico, assumendo una valenza escatologica: Cristo Re del mondo a venire, non delle società terrene. Perché la Signoria del Verbo Incarnato non doveva rappresentare un ostacolo al dialogo con «l’uomo contemporaneo» e con l’idolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

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I fautori di questo smantellamento suicida ebbero a rallegrarsi che finalmente si fosse posto fine al trionfalismo postridentino di una Chiesa che voleva convertire il mondo a Cristo, e non adattare la divina Rivelazione all’antievangelo dell’Antichiesa; di una Chiesa che onorava il proprio Signore come Re universale e a Lui voleva condurre tutte le anime, perché nel regnum Christi esse potessero vivere nella pax Christi.

 

Scelesta turba clamitat: regnare Christum nolumus (3) – cantiamo nel magnifico inno della festa odierna – La folla scellerata schiamazza: Non vogliamo che Cristo regni! Questa bestemmia è il grido di battaglia delle orde di Lucifero, dei figli delle tenebre; lo stesso grido che risuonò quando lo spirito ribelle e orgoglioso di Satana vomitò il suo Non serviam. Un grido che sovverte il κόσμος divino, fondato in Nostro Signore Gesù Cristo, nel Dio incarnato per obbedienza all’Eterno Padre, e per obbedienza morto sulla Croce propter nos homines et propter nostram salutem.

 

Alla fine dei tempi, ormai prossima, l’Anticristo contenderà a Cristo proprio la Sua universale Signoria, cercando di sedurre i popoli con prodigi e falsi miracoli, addirittura simulando la propria resurrezione. Affascinante, seducente, simulatore, orgoglioso, pieno di sé, l’Anticristo combatterà la Santa Chiesa senza esclusione di colpi, ne perseguiterà i Ministri e i fedeli, ne adultererà la dottrina, ne corromperà i chierici facendone dei propri servi.

 

Quello che vediamo accadere nella sfera civile e religiosa da almeno da due secoli, in un continuo crescendo, è la preparazione di questo piano infernale, volto a spodestare Nostro Signore, a rifiutarLo come Dio, come Re e come Sommo Sacerdote, a calpestare empiamente l’Incarnazione e l’opera della Redenzione.

 

Con la festa di Cristo Re noi cooperiamo al ripristino dell’ordine, del κόσμος divino contro il χαός infernale. Restituiamo a Cristo la corona che già Gli appartiene, lo scettro che Gli ha strappato la Rivoluzione. Non perché stia a noi rendere possibile la restaurazione dell’ordine, di cui sarà artefice unico Nostro Signore, ma perché non è possibile prendere parte a questa restaurazione senza che noi vi contribuiamo.

 

Ai tempi della prima Venuta del Salvatore, il regno di Israele e il tempio non avevano né un Re legittimo, né legittimi Sommi Sacerdoti: l’autorità civile e religiosa era ricoperta da personaggi di nomina imperiale. Nella seconda Venuta alla fine del mondo questa vacanza dell’autorità sarà ancora più evidente, perché Nostro Signore ricomporrà in Sé tutte le cose – Instaurare omnia in Christo (Ef 1, 10) – in un momento storico in cui sarà il Male a dominare in tutti gli ambiti della vita quotidiana, in tutte le istituzioni, in tutte le società.

 

E sarà una vittoria trionfale, schiacciante, totale, inesorabile, su tutte le menzogne e i crimini dell’Anticristo e della Sinagoga di Satana.

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Facciamo nostra la preghiera dell’inno Te sæculorum Principem:

 

O Christe, Princeps Pacifer, Mentes rebelles subjice: Tuoque amore devios, Ovile in unum congrega.

 

O Cristo, Principe che porti la vera Pace: sottometti le menti ribelli e riunisci in un solo ovile quanti si sono allontanati dal Tuo amore. E così sia.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

26 Ottobre MMXXV D.N.J.C. Regis Dominica XX post Pent., ultima Octobris

    NOTE 1) Cfr. Discorso di Paolo VI alla IX Sessione Pubblica del Concilio Vaticano II, 7 Dicembre 1965. 2) Paolo VI, Omelia nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, 29 giugno 1972. 3) Inno Te sæculorum Principem nella festa di Cristo Re.

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Spirito

Fraternità San Pio X: ingressi al Seminario 2025

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L’ingresso al seminario della Fraternità inizia a settembre nell’emisfero settentrionale, mentre nell’emisfero meridionale, presso il Seminario Nuestra Señora Corredentora situato a La Reja, in Argentina, ha luogo all’inizio di marzo. Un articolo recente è già stato dedicato all’ingresso a Flavigny.

 

Il Seminario Herz Jesu – Seminario del Sacro Cuore – è lieto di accogliere nove nuovi seminaristi. Dopo aver trascorso una settimana a Jaidhof, in Austria, per il ritiro di rientro, i seminaristi sono finalmente arrivati. Sono stati accolti con la celebrazione della Solennità di San Pio X, come ogni anno.

 

Per quanto riguarda la provenienza dei nuovi arrivati, i paesi di lingua tedesca possono rallegrarsi. Mentre l’anno scorso a Zaitzkofen non erano arrivati ​​tedeschi, quest’anno ce ne sono quattro. Con due svizzeri, il seminario ha di nuovo tra le sue fila dei cittadini della Confederazione. Due polacchi e uno sloveno completano questo nuovo anno di spiritualità.

 

All’inizio di quest’anno accademico, il seminario conta un totale di 54 seminaristi, superando di uno il record dell’anno scorso. Con un’età media di soli 21,9 anni, il primo anno contribuirà a un notevole ringiovanimento della comunità seminaristica.

 

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