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Mons. Viganò e il 60° anniversario del Concilio Vaticano II

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Renovatio 21 pubblica questo scritto di Monsignor Carlo Maria Viganò. Le opinioni degli scritti pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

REPETITA JUVANT

Come con la propria autoreferenzialità la «chiesa conciliare»

si ponga di fatto fuori dal solco della Tradizione della Chiesa di Cristo

 

 

 

 

Con la prosopopea che contraddistingue la propaganda ideologica, il recente panegirico bergogliano (qui) in occasione del sessantesimo anniversario dell’Apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II non ha mancato di confermare, al di là della vuota retorica, la totale autoreferenzialità della «chiesa conciliare», ossia di quella organizzazione eversiva nata in modo quasi impercettibile dal Concilio e che in questi sessant’anni ha quasi totalmente eclissato la Chiesa di Cristo occupandone i vertici e usurpandone l’autorità. 

 

La «chiesa conciliare» si considera erede del Vaticano II prescindendo dagli altri venti Concili Ecumenici che l’hanno preceduto nel corso dei secoli: questo è il fattore principale della sua autoreferenzialità. Essa vi prescinde nella Fede, proponendo una dottrina contraria a quella insegnata da Nostro Signore, predicata dagli Apostoli e trasmessa dalla Santa Chiesa; essa vi prescinde nella Morale, derogando ai principi in nome della morale situazionale; essa vi prescinde infine nella Liturgia, che in quanto espressione orante della lex credendi si è voluto adattare al nuovo magistero, e allo stesso tempo si è prestata essa stessa come potentissimo strumento di indottrinamento dei fedeli.

 

La Fede del popolo è stata corrotta scientificamente tramite l’adulterazione della Santa Messa operata con il Novus Ordo, grazie al quale gli errori contenuti in nuce nei testi del Vaticano II hanno preso corpo nell’azione sacra e si sono diffusi come un contagio. 

 

Ma se da un lato la «chiesa conciliare» ci tiene a ribadire di non voler aver nulla a che fare con la «vecchia Chiesa», e tantomeno con la «vecchia Messa», dichiarando l’una e l’altra lontane e improponibili proprio perché incompatibili con il fantomatico «spirito del Concilio»; dall’altro essa confessa impunemente il venir meno di quel vincolo di continuità con la Traditio che è il necessario presupposto – voluto da Cristo stesso – per l’esercizio dell’autorità e del potere da parte della Gerarchia, i cui membri, dal Romano Pontefice al più ignoto Vescovo in partibus, sono Successori degli Apostoli e come tali devono pensare, parlare, agire. 

 

Questo taglio radicale con il passato – evocato a tinte fosche dal primitivo eloquio di chi conia neologismi come «indietrismo» e scaglia anatemi contro «i merletti della nonna» – non si limita ovviamente alle forme esterne – con tutto che esse siano appunto forma di una ben precisa sostanza, non a caso manomessa – ma si estende ai fondamenti stessi della Fede e della Legge naturale, giungendo ad un vero e proprio sovvertimento dell’istituzione ecclesiastica, tale da contraddire la volontà del divino Fondatore. 

 

Alla domanda «Mi ami tu?», la chiesa bergogliana – ma prima ancora quella conciliare, con meno spudoratezza, ma sempre giocando su mille distinguo – «si interroga su se stessa», perché «lo stile di Gesù non è tanto quello di dare risposte, ma di fare domande». Verrebbe da chiedersi, a prendere seriamente queste parole inquietanti, in cosa consistano la divina Rivelazione e il ministero terreno di Nostro Signore, il messaggio del Vangelo, la predicazione degli Apostoli e il Magistero della Chiesa, se non nel rispondere alle domande dell’uomo peccatore, che è egli stesso a fare domande, ad avere sete della Parola di Dio, bisogno di conoscere le Verità eterne e di sapere come conformarsi alla Volontà del Signore per conseguire la beatitudine in Cielo. 

 

Il Signore non fa domande, ma insegna, ammonisce, ordina, comanda. Perché Egli è Dio, Re, sommo ed eterno Pontefice. Egli non ci chiede chi sia la Via, la Verità, la Vita, ma indica Sé stesso come Via, Verità e Vita, come Porta dell’ovile, come Pietra angolare. E a Sua volta sottolinea la propria obbedienza al Padre nell’economia della Redenzione, mostrandoci la Sua santa sottomissione come esempio da imitare. 

 

La visione di Bergoglio capovolge i rapporti, li sovverte: il Signore pone a Pietro una domanda con la quale egli, rispondendo, sa bene cosa significhi nella pratica amare Nostro Signore. E la risposta non è facoltativa, né può essere negativa o sfuggente, come invece fa la «chiesa conciliare», che per non spiacere al mondo e non apparire fuori moda, dà maggiore importanza alle seduzioni delle ideologie caduche e ingannatorie, rifiutandosi di trasmettere nella sua integrità ciò che il Suo Capo le ha ordinato di insegnare fedelmente.

 

«Mi ami tu?», chiede il Signore ai Cardinali inclusivi, ai Vescovi sinodali, ai Prelati ecumenici; ed essi rispondono come gli invitati alle nozze: «Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato» (Lc 14, 18). Ci sono impegni ben più pressanti, ben più remunerativi, dai quali ottenere prestigio e approvazione sociale. Non c’è tempo per seguire Cristo né tantomeno per pascere le Sue pecorelle, peggio ancora se ostinate nell’«indietrismo», qualsiasi cosa voglia significare.

 

Per questo non ci sono più altri Concili, se non il loro Vaticano II; il quale, per il fatto di essere l’unico a cui si appellano, si mostra contemporaneamente estraneo, se non del tutto opposto nelle forme e nei contenuti, a ciò che sono tutti i Concili Ecumenici: unica voce dell’unico Maestro, dell’unico Pastore. Se la voce del loro concilio non è compatibile con quella del Magistero che l’ha preceduto; se il culto pubblico non può esprimersi nella forma tradizionale perché lo considerano in contraddizione con la «nuova ecclesiologia» della «nuova chiesa», la spaccatura tra prima e dopo c’è ed è innegabile; ed anzi ne vanno fieri, presentandosi come innovatori di qualcosa che non est innovandum. E perché non si veda che vi è un’alternativa credibile e sicura, ecco che tutto ciò che rappresenta e ricorda il passato dev’essere denigrato, ridicolizzato, banalizzato e infine rimosso, applicando per primi quella cancel culture oggi fatta propria dall’ideologia woke. Da ciò si comprende l’avversione alla Liturgia antica, alla sana dottrina, all’eroismo della santità testimoniata con le opere e non enunciata in fatui proclami senz’anima. 

 

Bergoglio parla di una «chiesa che ascolta»; ma proprio perché «per la prima volta nella storia, ha dedicato un Concilio a interrogarsi su sé stessa, a riflettere sulla propria natura e sulla propria missione» egli dimostra di voler fare da sé, di poter rinunciare all’eredità della Tradizione e a rinnegare la propria identità, «per la prima volta nella storia», appunto. Questa autoreferenzialità parte dal presupposto di un “meglio” da attuarsi rispetto a un “peggio” da correggere, e questo non riguarda le debolezze e le infedeltà dei suoi singoli membri, ma «la propria natura e la propria missione», che Nostro Signore ha stabilito una volta per tutte e che non sta ai Suoi Ministri mettere in discussione.

 

Eppure Bergoglio afferma: «Torniamo al Concilio per uscire da noi stessi e superare la tentazione dell’autoreferenzialità, che è un modo di essere mondano», mentre proprio il «tornare al Concilio» è la prova più sfrontata della sua autoreferenzialità e della rottura col passato. 

 

Così i secoli di maggior espansione della Chiesa – durante i quali si è scontrata con gli eretici e ha reso più esplicita la dottrina che riguardava le verità che essi impugnavano – sono considerati una imbarazzante parentesi di «clericalismo» da dimenticare, perché quegli stessi errori li ritroviamo tutti nelle deviazioni del Concilio.

 

Il passato remoto – quello della presunta antichità cristiana, dei «secoli primitivi», delle «agapi fraterne» – nella narrazione conciliare è sostanzialmente un falso storico, che nasconde deliberatamente la virile testimonianza dei primi Cristiani e dei loro Pastori, perseguitati e martirizzati a causa della loro Fede, del loro rifiuto di bruciare incenso alla statua di Cesare, della loro condotta morale in contrasto con i costumi corrotti dei pagani.

 

Quella coerenza, anche di donne e di fanciulli, dovrebbe far vergognare coloro che profanano la Casa di Dio rendendo culto alla pachamama per assecondare i deliri amazzonici del green deal, dando scandalo ai semplici e offendendo la Maestà divina con atti idolatri.

 

Non è questa autoreferenzialità, giunta a violare il Primo Comandamento pur di inseguire i propri farneticamenti ecumenici?

 

Non lasciamoci ingannare da queste parole seducenti, che non sono buttate lì a caso: la Chiesa di Cristo non è mai stata «autoreferenziale», ma cristocentrica, perché essa è il Corpo Mistico di cui Cristo è Capo, e senza Capo non può sussistere. È viceversa inesorabilmente autoreferenziale quella sua versione desolatamente mondana e priva di orizzonti soprannaturali che si definisce «chiesa conciliare» e che esercita il proprio potere sull’inganno di presentarsi come fautrice di un ritorno alla purezza delle origini dopo secoli in cui essa si sarebbe chiusa «nei recinti delle comodità e convinzioni», e contemporaneamente pretendere di poterne adulterare l’insegnamento che Cristo ha comandato di trasmettere fedelmente. 

 

Quali «comodità» avrebbero contraddistinto la storia bimillenaria della Sposa dell’Agnello, guardando alla ininterrotta persecuzione che essa ha subito, al sangue versato dai Martiri, alle battaglie mosse dagli eretici e dagli scismatici, all’impegno dei suoi Ministri nella diffusione del Vangelo e della Morale cristiana?

 

E quali sarebbero le difficoltà di una chiesa che si interroga senza convinzioni, che si genuflette zelante alle istanze del mondo, che si accoda all’ideologia green e al transumanesimo, che benedice le unioni omosessuali, che si dice pronta ad accogliere i peccatori senza la pretesa di convertirli, che si accorda con i potenti della terra addirittura nella propaganda vaccinale sperando di sopravvivere a se stessa?

 

Vi è un qualcosa di terribilmente egocentrico, tipico dell’orgoglio luciferino, nel pretendersi migliori di chi ci ha preceduto, rimproverandogli a torto un autoritarismo cui si ricorre per primi e con scopi opposti alla salvezza delle anime. 

 

Segno ulteriore di autoreferenzialità è il voler imporre alla Chiesa una struttura democratica che sovverte l’impianto essenzialmente monarchico (anzi, direi imperiale) voluto da Cristo.

 

Vi è infatti una Chiesa docente costituita dai Pastori sotto la guida del Romano Pontefice, e una Chiesa discente costituita dal popolo di Dio, i fedeli. La cancellazione dell’impostazione gerarchica – che Bergoglio definisce «il peccato brutto del clericalismo che uccide le pecore, non le guida, non le fa crescere» – mira ad un altro e ben più grave inganno, anzi ad una vera e propria eversione nel corpo ecclesiale: fingere di poter condividere la potestà di chi ha la responsabilità di trasmettere il Magistero autentico con coloro che, non ordinati e pertanto non assistiti dalla grazia di stato, hanno invece il diritto di esser condotti in pascoli sicuri.

 

La parola magister porta in sé la superiorità ontologica – magis – di chi insegna su chi apprende ciò che ancora ignora. E il pastore non può certo decidere con le pecore dove condurle, perché come gregge esse non sanno dove andare e sono esposte agli assalti dei lupi.

 

Far credere che l’interrogarsi «sulla propria natura e sulla propria missione» possa rappresentare un ritorno alle origini è una colossale menzogna: «voi siete miei amici, se farete ciò che vi comando» (Gv 15, 14), ha detto Cristo. E così devono comandare i Suoi Ministri, che in quanto tali, finché rimangono a Lui sottomessi, esercitano l’autorità vicaria del Capo del Corpo Mistico. Ministri (da minus, che indica l’inferiorità gerarchica) nel senso etimologico di servitori, soggetti all’autorità del loro padrone; sicché la Gerarchia cattolica è Magistra nell’insegnare solo ciò che come Ministra ha ricevuto da Cristo e gelosamente custodisce. 

 

Abbiamo conferma di questa visione democratica e antigerarchica della «chiesa conciliare» anzitutto nella sua liturgia, in cui il ruolo ministeriale del celebrante è quasi negato, a vantaggio del «popolo sacerdotale» teorizzato da Lumen Gentium e messo nero su bianco nell’eretica formulazione dell’art. 7 della Institutio Generalis del Messale montiniano del 1969: «La cena del Signore, o messa, è la sacra sinassi o assemblea del popolo di Dio, presieduta dal sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore. Vale perciò eminentemente per questa assemblea locale della Santa Chiesa, la promessa del Cristo: “Là dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt. XVIII, 20)».

 

Cos’è questa, se non autoreferenzialità nel giungere a modificare la definizione stessa della Messa sulla falsariga di quello «spirito del Concilio» e in contraddizione con i Canoni dogmatici del Tridentino e dell’intero Magistero precedente al Vaticano II? 

 

La Chiesa non è e non può essere democratica, né «sinodale», come piace chiamarla eufemisticamente oggi: il popolo santo di Dio non «esiste per pascere gli altri, tutti gli altri», ma perché vi sia una Gerarchia che gli assicuri i mezzi soprannaturali per giungere alla meta eterna, e perché «tutti gli altri» – molti, ma non tutti – siano condotti nell’unico ovile sotto la guida dell’unico Pastore dalla Provvidenza di Dio. «E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre» (Gv 10, 16). 

 

La forte denuncia del Card. Mueller sulla minaccia che rappresenta l’impostazione ereticale della sinodalità – i cui infausti frutti si vedono già – è in tal senso quantomai motivata e testimonia il grave malessere di tanti Pastori combattuti tra la fedeltà all’ortodossia cattolica e l’evidenza del tradimento in atto da parte dei suoi indegnissimi, odierni custodi.

 

Costoro potevano forse non essere contro la «chiesa conciliare» e contro il «concilio» – tra virgolette – finché non era evidente la sua portata devastante sulla vita dei singoli fedeli, dell’intero corpo ecclesiale e del mondo; ma oggi, dinanzi all’evidenza del fallimento più completo e disastroso del Vaticano II e della scelta sciagurata di abbandonare la Sacra Tradizione, anche i più prudenti e moderati sono costretti a riconoscere lo strettissimo rapporto di correlazione tra scopo prefisso, mezzi adottati e risultato ottenuto.

 

Anzi, proprio nella considerazione dello scopo che si voleva raggiungere, dovremmo chiederci se quanto ci veniva entusiasticamente annunciato come «primavera conciliare»non fosse un pretesto, dietro cui in realtà si celava il piano inconfessabile contro la Chiesa di Cristo.

 

I fedeli non solo non partecipano con maggior consapevolezza ai Santi Misteri come si era loro promesso, ma sono arrivati a considerarli superflui, portando la frequenza alla Messa a livelli infimi. Né si può dire che i giovani trovino alcunché di entusiasmante o eroico nell’abbracciare il Sacerdozio o la Vita religiosa, dal momento che l’uno e l’altra sono stati banalizzati, privati della loro specificità, del senso di offerta e di sacrificio sull’esempio di Nostro Signore, che ogni azione davvero cattolica deve portare con sé.

 

La vita civile si è imbarbarita oltre ogni dire, e con essa la morale pubblica, la santità del matrimonio, il rispetto stesso della vita e dell’ordine della Creazione. E questi propagandisti del Vaticano II rispondono con le sfide della bioingegneria, del transumanesimo, vagheggiando esseri prodotti in serie e connessi alla rete globale come se mettere mano alla natura umana non fosse un’aberrazione satanica indegna di essere anche solo ipotizzata.

 

Li sentiamo pontificare che «l’esclusione dei migranti è schifosa, è peccaminosa, è criminale» (qui), mentre le ONG, le Caritas e le associazioni assistenziali lucrano sul traffico dei clandestini a spese dello Stato e rifiutano accoglienza agli stessi Italiani, abbandonati dalle istituzioni e vessati dalle crisi indotte dal Sistema. Esortano al disarmo le Nazioni «sovraniste» e portano a vergognarsi della propria identità i cittadini, ma teorizzano la liceità dell’invio di armi in Ucraina a un fantoccio del Nuovo Ordine Mondiale, finanziato dagli enti globalisti e dalle principali organizzazioni dell’élite.

 

Un altro gravissimo errore teologico che adultera la vera natura della Chiesa risiede nelle basi essenzialmente laiciste dell’ecclesiologia conciliare, non solo per quanto concerne la visione dell’istituzione e il suo ruolo nel mondo, ma anche per aver spezzato il vincolo di gerarchica complementarietà tra l’autorità spirituale della Chiesa e l’autorità civile dello Stato, che entrambe hanno la propria origine nella Signoria di Cristo.

 

Questo tema, apparentemente complesso nella sua trattazione quasi iniziatica da parte dei cultori del Vaticano II, è stato oggetto di un recente intervento di Joseph Ratzinger (qui) e mi ripropongo di affrontarlo separatamente.

 

«Tu che ci ami – dice Bergoglio nell’omelia della “memoria di San Giovanni XXIII” – liberaci dalla presunzione dell’autosufficienza e dallo spirito della critica mondana. Liberaci dell’autoesclusione dall’unità. Tu, che ci pasci con tenerezza, portaci fuori dai recinti dell’autoreferenzialità. Tu, che ci vuoi gregge unito, liberaci dall’artificio diabolico delle polarizzazioni, degli “ismi”».

 

Parole di un’impudenza inaudita, quasi beffarde.

 

Ebbene, è giunto il momento in cui i chierici e i fedeli della «chiesa conciliare» si interroghino se essa non sia la prima a presumere di poter essere autosufficiente, ad alimentare la critica mondana deridendo i buoni Cattolici come rigidi e intolleranti, ad escludersi deliberatamente dall’unità nella Tradizione, a peccare orgogliosamente di autoreferenzialità

 

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

 

26 Ottobre 2022

Evaristi Papæ et Martyris

 

 

 

 

Renovatio 21 pubblica questo scritto per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

 

Immagine di Lothar Wolleh via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0); immagine tagliata

 

 

 

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Pensiero

Miseria dell’ora legale, contro Dio e la legge naturale

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Ho un argomento molto metafisico, e al contempo concretissimo, per combattere l’abominio dell’ora legale. Un argomento che sono persino in grado di visualizzare.

 

Ci sono, certo i numeri: ci dicono che risparmieremo 300 gigawattora. Quando stanotte mi sono svegliato ad un orario innaturale, nella confusione inevitabile di non sapere se è troppo presto o troppo tardi, ho ripensato ad un altro dato: quante persone, in questi giorni, moriranno negli incidenti stradali dovuti ai colpi di sonno? Non credo che nessuno abbia mai fatto questo calcolo, che sarebbe più importante che qualsiasi discorso sparagnino.

 

Ma a chi importa? L’ora legale, teorizzata da Beniamino Franklin che, democraticamente, voleva piazzare un cannone in ogni via per svegliare la popolazione all’ora che diceva lui per risparmiare in candele, in Italia fu adottata nel 1916, in piena Prima Guerra Mondiale: i nostri ragazzi andavano verso l’inutile strage, il potere pensava a cambiargli l’orologio. Non sono in grado di calcolare l’effetto che l’ora legale può aver avuto sulle trincee, e non ho voglia nemmeno di chiedermelo.

 

Tuttavia non è questo pensiero di morte – diligente e terminale conseguenza dell’azione dello Stato moderno, che è macchina antiumana – che mi spinge a vedere nell’ora legale un’aberrazione satanica.

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Ho, negli occhi, e nel cuore, un’immagine invincibile, quella della chiesetta dove assisto alla Santa Messa, ovviamente in rito tridentino. Molti lettori già la conoscono, perché ho usato la sua foto in vari articoli.

 

Andò più o meno così: oramai sette anni fa, trovammo questa chiesetta – dell’estrema nobiltà della proprietà che ce la concesse parlerò altrove. Si tratta di un oratorio che risale al XII secolo, ma notizie certe in merito non si hanno, e mi piace pensare che vi sia davvero un millennio di storia lì.

 

La chiesa sta fuori dalla città, sopra un borghetto che sa ancora di medioevo, su una collina di boschi e pareti di roccia. L’oratorio stesso sembra posato su un’enorme roccia, anzi sembra esservi stato scolpito, sottratto una scalpellata dopo l’altra da quantità di mani laboriose e fedeli vissute in secoli dimenticati.

 

Arrivati al nostro secolo, arrivati a noi, c’era pronto tutto quello che serviva: il luogo era stato restaurato, nessuno vi aveva introdotto il tavolone-alare conciliare, a poca distanza c’era tanto parcheggio… per i tanti che, non solo dalla provincia, finalmente potevano avere a portata la Messa in latino.

 

Iniziarono così le celebrazioni del rito antico, tuttavia ottenemmo dai sacerdoti, impegnati a dire Messe in tanta parte della regione ed oltre, un orario pre-serale, alle 18.

 

D’inverno, a quell’ora è il buio. Nella scala di pietra mettevamo delle candeline, e lo facciamo ancora oggi in caso di celebrazione notturna. L’effetto è abbastanza magico, tuttavia nulla ha a che fare con quanto avremmo scoperto più avanti.

 

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Anni dopo, a fronte di una comunità di fedeli sempre più vasta e persistente (unita davvero, come dimostrò la solidarietà in pandemia…) aumentarono il numero di Sante Messe, e fu concessa quindi una celebrazione la domenica mattina, alle 11:00.

 

Saltò così fuori il fenomeno che ancora mi stupisce, mi commuove. Ci accorgemmo che, precisamente a mezzogiorno – ora nella quale si ha, con la messa iniziata alle 11, la consacrazione eucaristica, un raggio di luce entra dalla finestra a lato e colpisce esattamente il centro dell’altare, dove è posato il tabernacolo.

 

L’incenso aiuta a vederlo, tuttavia a volte può capitare di notarlo anche in assenza di fumo. È impressionante. Tendo a sospettare di quanti vedono questa cosa e non restano sbalorditi. Le immagini che vedete qui sotto non sono ritoccate in nessun modo. Anzi, ad occhio nudo l’effetto è ancora più forte.

 

 

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È interessante notare che lo abbiamo riscoperto noi a Messa, ma da qualche parte l’eco di questo miracolo luminoso risuonava ancora. Una signora della Pro Loco, che ha stampato un libro sulla chiesetta, mi aveva domandato se mai fosse vera una leggenda locale secondo cui nel giorno del Santo patrono dell’oratorio un raggio di luce colpisce l’altare. Ho risposto invitandola a Messa la domenica successiva, dove ha fatto tante foto con il telefonino, e compreso che la leggenda conteneva una realtà ancora più stupefacente: quel raggio si produce ogni giorno.

 

Il fenomeno impone tanti pensieri. Il primo, è che le mani che hanno eretto questa chiesa sapevano fare cose che i moderno non sono in grado di fare. Di più: chi l’ha costruita, l’ha basata su principi che sono sconosciuti all’architettura moderna. Per fare una chiesa, bisogna orientarla, cioè l’abside deve dare ad orientem (come il sacerdote prima del Concilio), ma non solo.

 

Ho l’idea che chi ha costruito la chiesetta lo abbia fatto proprio a partire da quel raggio, alla faccia di quanti ne osservino gli elementi (scala esterna, portone, altare) e li considerino disallineati. Ossia, l’intera chiesa è concepita a partire dal rapporto del Cielo con la Terra, cioè di Dio con l’uomo – questo è un senso ultimo della religione cristiana, quella della divinità che si fa essere umano, del Dio del Cielo che scende sulla Terra, del Cielo che nutre la Terra con la sua luce, il suo calore la sua grazia.

 

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Quel raggio, che casca durante la Santa Messa esattamente nel momento più alto, significa in maniera incontrovertibile l’armonia tra il Cielo e la Terra. L’accordo, nella bellezza, accordato all’uomo da un Dio buono, un Dio che è luce, che è amore.

 

Questo è l’ordine celeste, infinito, stupendo. Questo è il logos. Questo è il cosmos.

 

Non ci sono voluti tanti mesi per capire che, a parte il cattivo tempo, c’era solo una cosa in grado di distruggere il nostro raggio divino: l’ora legale. Come a marzo si cambia l’ora, quella luce svanisce, si fa più tenue, fino a sparire, facendo capolino, forse, solo dopo la Messa, quando qualcuno si attarda ad una confessione fuori tempo ed altri (io) rassettano prima di chiudere.

 

Di fatto, poi, il fascio luminoso scompare del tutto, dalla vista come dai cuori. Fine della magia, per ordine dello Stato moderno.

 

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Ho sempre preso questo fatto come la prova definitiva della nequizia dell’ora legale – del suo essere un invento contronatura, e quindi contro Dio.

 

Solo il mondo moderno poteva pensare di alterare persino il tempo: l’uomo si sente in grado di modificare l’immutabile, l’uomo introduce il suo artificio in un sistema la cui complessità ha milioni di anni. Non è diverso per tante altre questioni: ad esempio, i vaccini, la fecondazione in vitro, la bioingegneria…

 

L’uomo-dio crede di poter mettere mano su qualsiasi cosa, devastando le leggi stesse della creazione, disintegrando quindi l’equilibrio del Cielo e della Terra – una realtà conosciuta dalla saggezza cinese: «l’uomo si conforma alla Terra / La Terra si conforma al Cielo / il Cielo si conforma al Tao» (Tao Te King, XXV). Era chiaro, agli antichi cinesi, che il Cielo è legato alla morale: «Sotto il cielo tutti / sanno che il bello è bello, / di qui il brutto, sanno che il bene è bene, / di qui il male» (Tao Te King, II).

 

Ora, nel Cristianesimo l’armonia tra la Terra e il Cielo è in realtà una vera alleanze tra persone, cioè tra gli uomini e Dio – e questa nuova alleanza è il Cristo risorto.

 

Alterare il tempo significa frantumare la relazione naturale con il Cielo. Adulterare la luce del sole significa quindi andare contro il divino, contro la legge naturale, contro Dio.

 

Non poteva essere altrimenti: il mondo moderno odia, più ancora dell’uomo, Nostro Signore, che vuole sostituire con l’essere umano ubriacato di hybris satanica, l’umanità onnipotente che, apoteosi del non serviam, si crede capace di cambiare le leggi del cosmo.

 

Ecco perché combatto l’ora legale: perché, ve ne rendiate conto o no, fa parte della macchina in atto per distruggere la presenza di Dio sulla Terra.

 

E quel raggio magnifico me lo ha ricordato anche domenica scorsa: sì, tornata l’ora del Sole, l’ora vera, è tornato. E con lui è venuta ancora da noi questa immagine potente di reincanto del mondo, di bellezza divina, di armonia cosmica, questa visione sacra che vale più di qualsiasi risparmio.

 

Vale tutto. Vale il senso vero dell’esistenza e dell’universo.

 

Roberto Dal Bosco

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Spirito

Cristo Re, il cosmo divino contro il caos infernale. Omelia di Mons. Viganò

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Renovatio 21 pubblica l’omelia nella festa di Cristo Re dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò.      

Israël es tu Rex

Omelia nella festa di Cristo Re

     

Israël es tu Rex, davidis et inclyta proles; nomine qui in Domini, Rex benedicte, venis.

D’Israele Tu sei il Re, di David la nobile prole; Tu che vieni, Re benedetto, nel Nome del Signore.

Teodolfo di Orléans, Inno Gloria laus et honor.

 

Gloria, laus et honor tibi sit, Rex Christe Redemptor. Al canto di questo inno antichissimo, intonato nella Domenica delle Palme dinanzi alle porte serrate della chiesa, la processione del clero e dei fedeli entra solennemente nella nuova Gerusalemme, spalancandone i robusti battenti con il triplice colpo della Croce astile.

 

La suggestiva cerimonia della seconda Domenica di Passione rievoca l’ingresso trionfale di Nostro Signore nella Città santa, di cui era figura l’ingresso di Salomone (1Re 1, 32-40). Essa ha dunque un’indole eminentemente regale, perché con questa presa di possesso del Tempio, Egli è riconosciuto e osannato come Dio, come Messia e come Re dei Giudei: il Cristo, Χριστός, l’Unto del Signore. La Sua divina Regalità era già stata testimoniata e onorata dai Magi, nella grotta di Betlemme: con l’oro al Re dei Re, l’incenso al Dio Vivo e Vero, la mirra al Sacerdote e Vittima.

 

Poco meno di cent’anni fa, l’11 Dicembre 1925, il grande Pontefice lombardo Pio XI promulgò l’immortale Enciclica Quas primas, nella quale è definita la dottrina della universale Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo: Egli è Re in quanto Dio, in quanto discendente della stirpe regale della tribù di Davide e per diritto di conquista mediante la Redenzione.

 

L’istituzione di questa festa non ha in verità introdotto nulla di nuovo. Essa è stata voluta da Pio XI per contrastare e combattere la peste del liberalismo laicista, il massonico Libera Chiesa in libero Stato e la folle presunzione di estromettere Gesù Cristo dalla società civile. Pio XI non fu il solo a ribadire solennemente la dottrina cattolica: prima di lui Clemente XII, Benedetto XIV, Clemente XIII, Pio VI, Pio VII, Leone XII, Pio VIII, Gregorio XIV, Pio IX, Leone XIII e San Pio X avevano severamente condannato le logge segrete, la carboneria, la Massoneria e tutti gli errori che i nemici di Cristo avevano sparso e alimentato nel corso degli ultimi due secoli.

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Dopo la grande frattura del Protestantesimo nel Cinquecento, i tre secoli successivi hanno visto affrontarsi in una serie di terribili battaglie la Chiesa Cattolica e l’Antichiesa, cioè la Massoneria: da una parte, il Principe della Pace e le Sue schiere angeliche e terrene; dall’altra, la scelesta turba, la folla sciagurata, aizzata dai mercanti asserviti a Lucifero.

 

Il mito del «popolo sovrano» ha sepolto sotto le rovine della Rivoluzione secoli di civiltà cristiana, mostrando sino a quali aberrazioni l’uomo potesse giungere. I Martiri di questi secoli di violenze inaudite e di eccidi ancora impuniti ci guardano dai loro scranni in cielo, chiedendo giustizia per il sangue che essi hanno versato, e con il loro silenzio – quasi di notte oscura per la Chiesa, alla vigilia della sua passione – essi osservano increduli i papi di questi ultimi decenni deporre le armi spirituali e cooperare con i nemici di Cristo.

 

Da quegli scranni ci guardano anche i Pontefici guerrieri che – anche a costo della propria vita, come Pio VI, imprigionato da Napoleone e morto di stenti in carcere – seppero affrontare a testa alta i più feroci attacchi contro Dio, contro il Papato, contro la Gerarchia Cattolica, contro i fedeli. Se la Storia non fosse stata falsificata dai momentanei vincitori di questa guerra – come avviene ancora oggi – nelle scuole i nostri figli studierebbero non la presa della Bastiglia, non le menzogne dell’epopea del Risorgimento, non le gesta di mercenari cospiratori o di ministri corrotti, ma le fasi del genocidio contro i Cattolici delle Nazioni un tempo cristiane.

 

Quando venne istituita la festa di Cristo Re, la Chiesa Cattolica non poteva più avvalersi della cooperazione dei Sovrani cattolici, che nelle leggi civili e penali avevano fatto osservare i principi del Vangelo e della Legge naturale. La prima autorità dell’ancien régime a cadere fu infatti la Monarchia di diritto divino, che attinge alla Regalità di Cristo la potestà vicaria nelle cose temporali.

 

La seconda autorità cadde pochi decenni dopo, e fu quella dei pontefici asserviti alla Rivoluzione. Con la deposizione della tiara papale, Paolo VI suggellò l’abdicazione della potestà di Cristo nelle cose spirituali e la resa alle ideologie anticristiche e anticattoliche della Sinagoga di Satana. «Anche noi, più di ogni altro abbiamo il culto dell’uomo», disse Montini alla chiusura del Vaticano II (1). E sotto le volte della Basilica Vaticana echeggiarono queste parole: «La Chiesa si è quasi dichiarata l’ancella dell’umanità», parole che solo pochi anni prima avrebbero scandalizzato qualsiasi Cattolico.

 

Paolo VI – e con lui il predecessore Giovanni XXIII – furono gli iniziatori del processo di liquidazione della Chiesa di Cristo e su di essi incombe la responsabilità di aver disarmato la Cittadella e averne spalancate le porte per meglio farvi entrare il nemico, salvo poi ipocritamente denunciare che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio» (2). E nulla si salvò da quell’operazione di disarmo: né la dottrina, né la morale, né la liturgia, né la disciplina.

 

Così venne sfigurata anche la festa di Cristo Re, la cui data fu spostata alla fine dell’anno liturgico, assumendo una valenza escatologica: Cristo Re del mondo a venire, non delle società terrene. Perché la Signoria del Verbo Incarnato non doveva rappresentare un ostacolo al dialogo con «l’uomo contemporaneo» e con l’idolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

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I fautori di questo smantellamento suicida ebbero a rallegrarsi che finalmente si fosse posto fine al trionfalismo postridentino di una Chiesa che voleva convertire il mondo a Cristo, e non adattare la divina Rivelazione all’antievangelo dell’Antichiesa; di una Chiesa che onorava il proprio Signore come Re universale e a Lui voleva condurre tutte le anime, perché nel regnum Christi esse potessero vivere nella pax Christi.

 

Scelesta turba clamitat: regnare Christum nolumus (3) – cantiamo nel magnifico inno della festa odierna – La folla scellerata schiamazza: Non vogliamo che Cristo regni! Questa bestemmia è il grido di battaglia delle orde di Lucifero, dei figli delle tenebre; lo stesso grido che risuonò quando lo spirito ribelle e orgoglioso di Satana vomitò il suo Non serviam. Un grido che sovverte il κόσμος divino, fondato in Nostro Signore Gesù Cristo, nel Dio incarnato per obbedienza all’Eterno Padre, e per obbedienza morto sulla Croce propter nos homines et propter nostram salutem.

 

Alla fine dei tempi, ormai prossima, l’Anticristo contenderà a Cristo proprio la Sua universale Signoria, cercando di sedurre i popoli con prodigi e falsi miracoli, addirittura simulando la propria resurrezione. Affascinante, seducente, simulatore, orgoglioso, pieno di sé, l’Anticristo combatterà la Santa Chiesa senza esclusione di colpi, ne perseguiterà i Ministri e i fedeli, ne adultererà la dottrina, ne corromperà i chierici facendone dei propri servi.

 

Quello che vediamo accadere nella sfera civile e religiosa da almeno da due secoli, in un continuo crescendo, è la preparazione di questo piano infernale, volto a spodestare Nostro Signore, a rifiutarLo come Dio, come Re e come Sommo Sacerdote, a calpestare empiamente l’Incarnazione e l’opera della Redenzione.

 

Con la festa di Cristo Re noi cooperiamo al ripristino dell’ordine, del κόσμος divino contro il χαός infernale. Restituiamo a Cristo la corona che già Gli appartiene, lo scettro che Gli ha strappato la Rivoluzione. Non perché stia a noi rendere possibile la restaurazione dell’ordine, di cui sarà artefice unico Nostro Signore, ma perché non è possibile prendere parte a questa restaurazione senza che noi vi contribuiamo.

 

Ai tempi della prima Venuta del Salvatore, il regno di Israele e il tempio non avevano né un Re legittimo, né legittimi Sommi Sacerdoti: l’autorità civile e religiosa era ricoperta da personaggi di nomina imperiale. Nella seconda Venuta alla fine del mondo questa vacanza dell’autorità sarà ancora più evidente, perché Nostro Signore ricomporrà in Sé tutte le cose – Instaurare omnia in Christo (Ef 1, 10) – in un momento storico in cui sarà il Male a dominare in tutti gli ambiti della vita quotidiana, in tutte le istituzioni, in tutte le società.

 

E sarà una vittoria trionfale, schiacciante, totale, inesorabile, su tutte le menzogne e i crimini dell’Anticristo e della Sinagoga di Satana.

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Facciamo nostra la preghiera dell’inno Te sæculorum Principem:

 

O Christe, Princeps Pacifer, Mentes rebelles subjice: Tuoque amore devios, Ovile in unum congrega.

 

O Cristo, Principe che porti la vera Pace: sottometti le menti ribelli e riunisci in un solo ovile quanti si sono allontanati dal Tuo amore. E così sia.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

26 Ottobre MMXXV D.N.J.C. Regis Dominica XX post Pent., ultima Octobris

    NOTE 1) Cfr. Discorso di Paolo VI alla IX Sessione Pubblica del Concilio Vaticano II, 7 Dicembre 1965. 2) Paolo VI, Omelia nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, 29 giugno 1972. 3) Inno Te sæculorum Principem nella festa di Cristo Re.

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Spirito

Fraternità San Pio X: ingressi al Seminario 2025

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L’ingresso al seminario della Fraternità inizia a settembre nell’emisfero settentrionale, mentre nell’emisfero meridionale, presso il Seminario Nuestra Señora Corredentora situato a La Reja, in Argentina, ha luogo all’inizio di marzo. Un articolo recente è già stato dedicato all’ingresso a Flavigny.

 

Il Seminario Herz Jesu – Seminario del Sacro Cuore – è lieto di accogliere nove nuovi seminaristi. Dopo aver trascorso una settimana a Jaidhof, in Austria, per il ritiro di rientro, i seminaristi sono finalmente arrivati. Sono stati accolti con la celebrazione della Solennità di San Pio X, come ogni anno.

 

Per quanto riguarda la provenienza dei nuovi arrivati, i paesi di lingua tedesca possono rallegrarsi. Mentre l’anno scorso a Zaitzkofen non erano arrivati ​​tedeschi, quest’anno ce ne sono quattro. Con due svizzeri, il seminario ha di nuovo tra le sue fila dei cittadini della Confederazione. Due polacchi e uno sloveno completano questo nuovo anno di spiritualità.

 

All’inizio di quest’anno accademico, il seminario conta un totale di 54 seminaristi, superando di uno il record dell’anno scorso. Con un’età media di soli 21,9 anni, il primo anno contribuirà a un notevole ringiovanimento della comunità seminaristica.

 

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