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Geopolitica

Milizie irachene pronte a sostenere Hezbollah. Al-Sistani invoca la fine «dell’aggressione»

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Negli ultimi giorni si registrano attacchi della Resistenza islamica in Iraq contro Israele, l’ultimo nella notte con droni intercettati e abbattuti dall’aviazione. In caso di invasione di terra del Libano i miliziani pronti a unirsi al conflitto. Il 94enne leader sciita chiede aiuti per la popolazione civile libanese. Fra gli iracheni timori di una escalation che favorirebbe anche il ritorno dell’ISIS.

 

Nella guerra lanciata da Israele contro Hezbollah in Libano, che coinvolge l’intero Paese trascinato in un conflitto dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche, il rischio di una escalation regionale è più di una possibilità come dimostra il coinvolgimento di milizie filo-sciite in Iraq.

 

In queste ore, infatti, il movimento Resistenza islamica in Iraq ha lanciato un attacco contro obiettivi dello Stato ebraico, utilizzando missili da crociera Al’Arqab.

 

Operazioni analoghe sono già avvenute nel recente passato, in risposta alla guerra in corso a Gaza, ma ora si sono estese a difesa «dei popoli oppressi di Palestina e Libano» come spiega una nota del gruppo rilanciata dall’iraniana Mehr News Agency (MNA).

 

«Abbiamo preso di mira un obiettivo vitale nel nord dei territori occupati – prosegue la dichiarazione – con un missile da crociera Arqab». Nella notte la Resistenza islamica in Iraq ha attaccato Israele con due droni transitati nello spazio aereo siriano ed entrati in territorio israeliano dalle Alture del Golan, facendo risuonare le sirene a Ein Zivan e Merom Golan intorno alle 3 del mattino.

 

Gli impatti – dovuti al probabile abbattimento di caccia militari dell’esercito israeliano (IDF) – hanno scatenato incendi in aree aperte, senza causare danni a infrastrutture o persone. I principali gruppi che formano la Resistenza islamica in Iraq hanno infine avvertito che, in caso di invasione terrestre del Libano da parte di Israele, sono pronti a entrare «direttamente» nel conflitto a fianco di Hezbollah e affrontare le truppe IDF.

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Si tratta al momento di operazioni di lieve entità se paragonate agli attacchi contro il Libano o la guerra a Gaza, ma che testimoniano l’allargamento del conflitto se non a nazioni dell’area, quantomeno a gruppi o movimenti sciiti collegati alla galassia iraniana (e a Hezbollah). Da qui la crescente preoccupazione degli iracheni di un possibile coinvolgimento a tutto campo del Paese nella guerra fra Israele e Libano, che rischierebbe di far deragliare la fragile ripresa dopo anni di guerra e instabilità, legate anche ai jihadisti dello Stato Islamico, minaccia tuttora presente.

 

«Entrare in guerra sarebbe una follia» dichiara Basil, tassista 40enne di Salah al-Din. «Temiamo ancora il ritorno dello Stato Islamico». «Entrare in guerra darebbe a questa organizzazione la possibilità di ripresentarsi di nuovo» scrive in un editoriale pubblicato ieri al Mashhad.

 

Elham, insegnante di lingua araba di 44 anni del sud di Baghdad, avverte: «La guerra significa la fine del processo educativo, che sta ancora soffrendo di gravi crisi. Stiamo cercando di rilanciare l’intero processo educativo, ma le guerre sembrano inseguirci, impedendoci di andare avanti».

 

Un altro iracheno, Saif al-Azzawi, ha avvertito che il coinvolgimento del Paese nella guerra in Libano potrebbe portare al collasso dell’attuale sistema politico. «Quello a cui assisteremo nel 2025 sarà un Iraq diverso da quello precedente, e gli interventi stranieri negli affari interni dell’Iraq inizieranno se sarà coinvolto nella guerra contro Israele».

 

In una prospettiva di crescente preoccupazione – e tensione – legata al quadro regionale, si inserisce l’appello – raro e inusuale – a favore di un Libano che si sta trasformando in «un’altra Gaza» della massima autorità sciita in Iraq, il grande ayatollah Ali Al-Sistani. Nella nota il 94enne leader religioso invoca la fine della «barbara aggressione e la protezione del popolo libanese» e, rivolgendosi ai fedeli, chiede di «contribuire ad alleviare le sofferenze» e «venire incontro ai bisogni umanitari».

 

Al contempo egli auspica «ogni sforzo» per mettere fine alla «aggressione» israeliana contro il Libano, da giorni sottoposto a un’incessante campagna di bombardamenti contro esponenti e obiettivi di Hezbollah ma che finisce per colpire, e uccidere, i civili.

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La dichiarazione di Al-Sistani è una conferma ulteriore della preoccupazione con la quale la regione mediorientale, i governi e le autorità religiose e civili, guardano all’escalation. Del resto Baghdad è uno degli osservatori più attenti, e interessati, dagli eventi in corso: il governo, infatti, è dominato da partiti e fazioni filo-Teheran con forti legami con Beirut e, soprattutto, i miliziani sciiti di Hezbollah.

 

Da qui l’intervento del primo ministro iracheno Shia al-Sudani, che avrebbe dato «istruzioni» per azioni di sostegno al popolo libanese, oltre ad aver incaricato il capo dell’esercito di: estendere o rinnovare il visto di ingresso ai cittadini libanesi presenti sul territorio; esentare i libanesi che al momento sono in situazioni irregolari di incappare in provvedimenti di espulsione; continuare a garantire un ingresso senza visto ai libanesi che si trovano alla frontiera o nei punti di ingresso.

 

Inoltre, il ministero degli Esteri di Baghdad ha sollecitato un vertice della Lega araba e delle nazioni musulmane, auspicando un intervento coordinato e unitario per mettere fine «all’aggressione» israeliana, oltre a rafforzare i ponti aerei per l’invio di aiuti alla popolazione.

 

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Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Geopolitica

Per gli USA ora la normalizzazione delle relazioni con la Russia è un «interesse fondamentale»

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Gli Stati Uniti hanno indicato il rilancio dei rapporti normali con la Russia e l’interruzione rapida della guerra in Ucraina come priorità assolute nella loro nuova Strategia per la sicurezza nazionale, diffusa venerdì dalla Casa Bianca, ponendoli tra gli obiettivi cardine per gli interessi americani.   Il documento di 33 pagine delinea la prospettiva di politica estera delineata dal presidente Donald Trump, affermando che «è un interesse essenziale degli Stati Uniti negoziare una rapida cessazione delle ostilità in Ucraina», al fine di «stabilizzare le economie europee, scongiurare un’escalation o un allargamento imprevisto del conflitto e ricostruire la stabilità strategica con la Russia».   Si evidenzia come il conflitto ucraino abbia «profondamente indebolito le relazioni europee con la Russia», minando l’equilibrio regionale.   Il testo rimprovera i dirigenti europei per le «aspettative irrealistiche» sull’evoluzione della guerra, precisando che «la maggioranza degli europei anela alla pace, ma tale aspirazione non si riflette nelle politiche adottate».

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Washington, prosegue il rapporto, è disposta a un «impegno diplomatico sostanziale» per «supportare l’Europa nel correggere la sua rotta attuale», reinstaurare l’equilibrio e «ridurre il pericolo di scontri tra la Russia e gli Stati europei».   A differenza della strategia del primo mandato di Trump, che accentuava la rivalità con Russia e Cina, la versione attuale sposta l’asse sull’emisfero occidentale e sulla tutela del suolo patrio, dei confini e delle priorità regionali. Esorta a riallocare le risorse dai fronti remoti verso minacce più immediate e invita la NATO e i Paesi europei a farsi carico in prima persona della propria sicurezza.   Il documento invoca inoltre l’arresto dell’espansione della NATO, una pretesa a lungo avanzata da Mosca, che la indica come una delle ragioni principali del conflitto ucraino, interpretato come una guerra per interposta persona orchestrata dall’Occidente.   In sintesi, la strategia segna un passaggio dall’interventismo universale a un approccio estero più pragmatico e contrattuale, sostenendo che gli Stati Uniti debbano intervenire oltre i propri confini solo quando gli interessi nazionali sono direttamente coinvolti.   Si tratta del primo di una sequenza di rilevanti atti su difesa e politica estera che l’amministrazione Trump si accinge a emanare, tra cui una Strategia di Difesa Nazionale rivista, la Revisione della Difesa Missilistica e la Revisione della Postura Nucleare, tutti attesi in linea con l’impostazione del documento. SOSTIENI RENOVATIO 21
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Geopolitica

Israele potrebbe iniziare a deportare gli ucraini

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Decine di migliaia di rifugiati ucraini in Israele rischiano la deportazione entro la fine del prossimo mese, a causa del protrarsi del ritardo governativo nel rinnovare il loro status legale. Lo riporta il quotidiano dello Stato Giudaico Haaretz.

 

La tutela collettiva offerta a circa 25.000 ucraini in seguito all’aggravarsi del conflitto in Ucraina nel 2022 necessita di un’estensione annuale, ma gli attuali permessi di soggiorno scadono a dicembre.

 

Tuttavia, Israele non si è dimostrato particolarmente ospitale verso molti di questi migranti, in particolare quelli non eleggibili alla «Legge del Ritorno», una legge fondamentale dello Stato di Israele implementata dal 1950che garantisce a ogni ebreo del mondo il diritto di immigrare in Israele e ottenere la cittadinanza, basandosi sul legame storico e religioso del popolo ebraico con la Terra Promessa. Secondo i resoconti dei media locali, gli ucraini non ebrei ottengono spesso solo una protezione provvisoria, devono fare i conti con norme d’ingresso stringenti e sono esclusi dalla residenza permanente o dagli aiuti sociali, finendo intrappolati in un limbo legale ed economico.

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In carenza di un ministro dell’Interno ad interim, la competenza su tale dossier è passata al premier Benjamino Netanyahu, ma una pronuncia non è ancora arrivata, ha precisato Haaretz.

 

L’Autorità israeliana per la Popolazione e l’Immigrazione ha indicato che la pratica è in esame e che una determinazione verrà comunicata a giorni, ha aggiunto il giornale.

 

Anche nell’Unione Europea, l’assistenza ai profughi ucraini è messa alla prova, con vari esecutivi che stanno tagliando i piani di supporto per via di vincoli di bilancio. Dati Eurostat mostrano un recente incremento degli arrivi di maschi ucraini in età da leva nell’UE, in scia alla scelta del presidente Volodymyr Zelens’kyj di allentare i divieti di espatrio per la fascia 18-22 anni. Tale emigrazione continua di uomini abili al reclutamento sta acutizzando le già critiche carenze di forza lavoro in Ucraina.

 

Germania e Polonia, i due Stati membri che accolgono il maggior numero di ucraini, hanno di recente varato restrizioni sui sussidi, malgrado un calo del consenso popolare.

 

Il presidente polacco Karol Nawrocki ha annunciato il mese scorso che non rinnoverà gli aiuti sociali per i rifugiati ucraini oltre il 2026. A quanto pare, l’opinione pubblica polacca sui profughi ucraini si è inasprita dal 2022, per via di frizioni sociali e del diffondersi dell’idea che rappresentino un peso o una minaccia criminale.

 

Quest’anno, i giovani ucraini hanno provocato quasi 1.000 interventi delle forze dell’ordine per scontri, intossicazione alcolica e possesso di armi non letali in un parco del centro di Varsavia, ha rivelato all’inizio della settimana Gazeta Wyborcza.

 

Una sorta di cecità selettiva, o di compiacenza, di Tel Aviv nei confronti del neonazismo ucraino pare emergere anche da dichiarazioni dell’ambasciatore dello Stato Ebraico a Kiev, che ha detto di non essere d’accordo con il fatto che Kiev onori autori dell’Olocausto della Seconda Guerra Mondiale come eroi nazionali, tuttavia rassicurando sul fatto che tale disputa non dovrebbe rappresentare una minaccia per il sostegno israeliano al governo ucraino.

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Secondo un articolo del Washington Post, circa la metà dei 300.000 ebrei ucraini sarebbero fuggiti dal Paese dall’inizio del conflitto con la Russia.

 

Come riportato da Renovatio 21le pressioni dell’amministrazione Biden su Tel Aviv per la fornitura di armi a Kiev risale ad inizio conflitto.

 

Tre anni fa l’ex presidente russo e attuale vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitrij Medvedev aveva messo in guardia Israele dal fornire armi all’Ucraina in risposta alle affermazioni secondo cui l’Iran sta vendendo missili balistici e droni da combattimento alla Russia.

 

Israele a inizio 2022 aveva rifiutato la vendita di armi cibernetiche all’Ucraina o a Stati, come l’Estonia, che potrebbero poi rivenderle al regime Zelens’kyj.

 

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Arte

Quattro Stati UE boicotteranno l’Eurovision 2026 a causa della partecipazione di Israele

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Spagna, Irlanda, Slovenia e Paesi Bassi hanno annunciato il boicottaggio del prossimo Eurovision Song Contest in seguito alla conferma della partecipazione di Israele. All’inizio del 2025 diverse emittenti avevano chiesto all’Unione Europea di Radiodiffusione (EBU), organizzatrice dell’evento, di escludere Israele accusandolo di brogli nel voto e per il conflitto in corso a Gaza.   L’ultima tregua, mediata dagli Stati Uniti, avrebbe dovuto porre fine ai combattimenti e permettere l’arrivo di aiuti umanitari nell’enclave, ma da quando è entrata in vigore gli attacchi israeliani hanno causato 366 morti, secondo il ministero della Salute di Gaza.   Il tutto si inserisce in un anno di escalation iniziato con l’offensiva israeliana lanciata in risposta all’attacco di Hamas dell’ottobre 2023, che provocò 1.200 morti e il rapimento di 250 ostaggi. Da allora, secondo le autorità sanitarie locali, l’operazione militare israeliana ha ucciso oltre 70.000 palestinesi.

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Le decisioni di ritiro sono arrivate giovedì, subito dopo l’approvazione da parte dell’EBU di nuove regole di voto più rigide, varate in risposta alle accuse di diverse emittenti europee secondo cui l’edizione 2025 era stata manipolata a favore del concorrente israeliano.   Poche ore più tardi l’emittente olandese AVROTROS ha comunicato l’addio al concorso: «La violazione di valori universali come l’umanità, la libertà di stampa e l’interferenza politica registrata nella precedente edizione dell’Eurovision Song Contest ha oltrepassato un limite per noi».   L’emittente irlandese RTÉ ha giustificato la propria scelta con «la terribile perdita di vite umane a Gaza», la crisi umanitaria in corso e la repressione della libertà di stampa da parte di Israele, annunciando anche che non trasmetterà l’evento.   Anche la televisione pubblica slovena RTVSLO ha confermato il ritiro: «Non possiamo condividere il palco con il rappresentante di un Paese che ha causato il genocidio dei palestinesi a Gaza», ha dichiarato la direttrice Ksenija Horvat.   Successivamente è arrivata la decisione della spagnola RTVE, che insieme ad altre sette emittenti aveva chiesto un voto segreto sull’ammissione di Israele. Respinta la proposta dall’EBU, RTVE ha commentato: «Questa decisione accresce la nostra sfiducia nell’organizzazione del concorso e conferma la pressione politica che lo circonda».

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Per far fronte alle polemiche, gli organizzatori dell’Eurovision hanno introdotto nuove misure anti-interferenza: limiti al televoto del pubblico, regole più severe sulla promozione dei brani, rafforzamento della sicurezza e ripristino delle giurie nazionali già nelle semifinali.   Come riportato da Renovatio 21, due anni fa arrivò in finale all’Eurovisione una sedicente «strega» non binaria che dichiarò di aver come scopo il «far aderire tutti alla stregoneria».   Vi furono polemiche quattro anni fa quando la Romania accusò che l’organizzazione ha cambiato il voto per far vincere l’Ucraina.   Due anni fa un’altra vincitrice ucraina dell’Eurovision fu inserita nella lista dei ricercati di Mosca.   Come riportato da Renovatio 21, la Russia ha lanciato un’«alternativa morale» all’Eurovision, che secondo il ministro degli Esteri di Mosca Sergej Lavrov sarà «senza perversioni».

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