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Metafisica del «golpe gobbo» wagneriano

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«Putsch dei cretini». Così ha definito il golpe Vitalij Tretjakov, direttore della Nevizimaja Gazeta – decenni fa. Tretjakov infatti non si riferiva al golpe Wagner di ieri, ma al cosiddetto golpe del comitato di emergenza del 19-21 agosto 1991.

 

Non è il primo colpo di Stato vissuto dalla Russia moderna, e questo è chiaro a tutti – così come è stata immediata la lettura storica e metastorica data da Putin nel suo messaggio di ieri, quando si è riferito al putsch bolscevico del 1917 – la Rivoluzione d’Ottobre – come un disastroso evento ingegnerizzato nel pieno di una guerra per indebolire la Russia zarista e spazzarne via lo Stato.

 

Il golpe del 1991 era temuto da anni – e annunziato da mesi. Il 1° luglio di quell’anno una rivista americana, World Monitor, aveva pubblicato l’intervista di un noto «futurologo», Alvin Toffler, a un colonnello dell’URSS, Viktor Alksnis, che dipingeva un programma in cui ai primi punti c’era la detronizzazione di Gorbachev, la creazione del comitato d’emergenza, la soppressione dei partiti – incluso quello comunista. Pochi giorni dopo, il colonnello Alksnis era presentato dalle TV di tutto il globo come portavoce del comitato di emergenza.

 

Alksnis, in realtà, apparteneva al gruppo Soyuz, quindi un conservatore, cosa che lo renderebbe lontano dal giro dei putchisti, la «banda dei quattro» anti-Gorbachev e anti-Eltsin: il primo ministro Valentin Pavlov,
il ministro della Difesa Dimitrij Yazov, il capo del KGB Vladimir Krujckov e il ministro degli Interni Boris Pugo.

 

Nelle stesse ore, Belgrado ribolle: inizia la disgregazione della Yugoslavia, e i fiumi di sangue che se seguiranno – e che ancora non sono finiti.

 

Il politologo Giorgio Galli mette in fila tutti gli eventi di quel breve colpo di Stato: le vacanze di Gorbachev nella sua dacia in Crimea, l’arrivo di un comitato di emergenza, i media che pubblicano sia i decreti del comitato che gli appelli di Eltsin – che rimane, stranissamamente, libero –, la sede del Parlamento che non viene occupata benché indifesa, poi il discorso, a favore di TV nazionali e internazionali, di Eltsin da in cima al carrarmato (un pezzo di storia, sì), le barricate improvvisate di migliaia cittadini davanti a due tank delle centinaia che erano stati mobilitati (due di numero…),

 

«Di fronte a questa serie di fatti incomprensibili, tutti i media del mondo hanno sottolineato i molti misteri del 19-21 agosto, pur accreditando in linea di massima la versione secondo la quale sarebbe stato il popolo russo (o di Mosca e San Pietroburgo, già Leningrado) a sconfiggere i golpisti, mentre un esercito diviso non avrebbe osato aprire il fuoco», scrive il compianto studioso milanese.

 

«In realtà vi è una ipotesi che permetterebbe di spiegare tutti i fatti: quella di aver assistito non a un putsch dei cretini, ma a una giornata degli inganni».

 

La «giornata degli inganni» (Journée des dupes) è il mondo in cui gli storici chiamano le ore dal 10 all’11 novembre 1630, giorno che segna la piena assunzione del potere in Francia da parte del cardinale Richelieu.

 

Durante la «giornata degli ingannati» Luigi XIII, re di Francia, contro ogni previsione, riconfermò il suo ministro cardinale Richelieu, eliminando i suoi avversari politici – che erano stati portati invece a pensare di avere dalla loro parte il re – e costringendo quindi la madre di Luigi, Maria de’ Medici, all’esilio. Un’operazione complicata, politicamente raffinatissima, al limite del comprensibile, che potrebbe avere tanti punti di contatto con il tentato golpe 1991 – e quello del 2023 che ci è appena passato sotto gli occhi.

 

«Si può pensare a un accordo tra Gorbaciov e il “comitato d’emergenza” (sospetto avanzato da molti, a partire da Shevardnadze) per una stretta di freni, ma con l’intento di ciascuno dei due contraenti di giocare in qualche modo l’altro» scrive Galli parlando del colpo di Stato del 1991 «e si può ritenere che Eltsin, perfettamente informato, abbia preparato il vero “golpe bianco” (come qualche media l’ha definito), avendo già dalla sua il nerbo delle forze armate e del KGB, forse lasciando credere al “comitato” che si sarebbe limitato a una protesta verbale, attendendo lo svolgersi degli eventi».

 

Una partita articolatissima, che più che i golpisti, riguarda Eltsin e Gorbachev, che vengono considerati entrambi degli agenti della liberalizzazione della Russia, ma avevano differenze ideologiche e di agenda sostanziali.

 

«L’inganno reciproco o il gioco delle parti è tale che Gorbaciov il 22 agosto nomina ministro della Difesa, al posto del golpista Yazov, il capo di stato maggiore dell’esercito, generale Michail Moiseevic, senza gli ordini del quale è difficile pensare che i carri armati potessero muoversi e che appena il giorno prima era stato dato come nuovo membro del comitato d’emergenza al posto dello stesso Yazov, supposto malato (come altri componenti del suddetto comitato). Subito dopo Moiseevic viene sostituito dal generale Evgenij Shaposhnikov, legato a Eltsin».

 

Inganni, giochi di specchi, manovre occulte coperte da sceneggiate immense, più o meno concordate. È la Russia – che, come diceva Winston Churchill, «è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma».

 

Quindi diciamo subito che anche il golpe wagneriano del 24 giugno 2023 noi lo affrontiamo con lo stesso senso di stupore misterico che merita la grande storia della Russia e dell’Europa.

 

Se qualcuno ci ha capito qualcosa, alzi la mano – ma gliela mozzeremo al volo.

 

Che cosa è successo davvero?

 

Quali motivazioni avevano i golpisti? Chi c’era dietro di loro?

 

Cosa volevano fare arrivati a Mosca? Come pensavano di sopravvivere con 25.000 combattenti dichiarati dal boss (cifra che secondo alcuni andava dimezzata) quando sarebbe intervenuta una mobilitazione militare da milioni di uomini?

 

Perché Prigozhin ha cambiato idea? Cosa gli è stato offerto?

 

Ne stiamo sentendo di ogni tipo. Dietro Prigozhin, come no, ci sarebbero gli oligarchi russi che hanno perso soldi con le sanzioni. Ma davvero? E Prigozhin, che di suo è l’oligarca adibito direttamente dal Cremlino a portare a casa, per dirne una, l’oro del Sudan, prenderebbe ordini da loro.

 

Aspetta, aspetta: ecco i soloni, magari quelli propinatici dall’establishment dell’editoria: eddai, Prigozhin lo ha fatto per soldi, perché Shoigu non lo pagava. Eccallà, il complotto del danaro, dietro ad ogni grande avvenimento storico ci stanno i soldi. Insomma: il golpe in realtà un recupero crediti: eccerto.

 

Un attimo, non è finita: ecco che gira il messaggio Telegram: il Pentagono cinque giorni fa ammette di aver fatto un errore nei conti, in realtà a budget gli crescono 6,2 miliardi di dollari, e poco dopo, taac, scatta il golpazzo del Prigozhin. Ovvio: quei 6,2 miliardi sono stati bonificati direttamente al boss Wagner, magari via PayPal. Ed è bello sapere che lo stesso spericolato «cuoco di Putin» avrebbe messo un prezzo sulla sua vita e quella dei suoi uomini. Come se 6, 10, 100, 1000 miliardi potessero pagare la sua sicurezza in caso di ritorsione di Mosca.

 

No, davvero: da spiegare, e ancora prima da capire, è difficile. Prigozhin vivrà in esilio in Bielorussia – e si sprecano le battute sul fatto che sia più una condanna peggiore del carcere.

 

Non abbiamo gli strumenti per capire cosa è successo, tuttavia ricordiamo un paio di cose, che buttiamo lì.

 

Per esempio, il fatto che il canovaccio del tizio che si stacca dal padrone, magari ubriacandosi, è tipico del mondo dei servizi, da cui, come sappiamo tutti, deriva Putin.

 

Chi ha letto il capolavoro di letteratura di spionaggio La spia che venne dal freddo, il primo romanzo del compianto John Le Carré, conosce lo schema: un agente finge di non andar più d’accordo con i suoi capi, si fa vedere spesso al parco, magari arruffato, magari ubriaco. Ecco che di colpo cominciano ad apparire vari personaggi, che attaccano bottone, danno pacche sulle spalle, lo invitano da qualche parte: sono i servizi dell’altra parte, che credono così di farsi, grazie al supposto astio del personaggio verso i suoi superiori, un agente doppio. Mentre magari è tutta una finta per avere un agente triplo, uno che finge di far il doppiogioco per sondare piani e figure chiave dell’avversario.

 

Per alcuni è da mal di testa, per gente come Putin e i siloviki, è normale amministrazione – e ci sono le barzellette di Putin (forse, anche in questo contaminato da Silvio Berlusconi) raccontate sull’argomento: «c’è un agente della CIA che va alla Lubjanka…»

 

Considerate poi che Prigozhin era ritenuto essere in realtà un volto visibile del GRU, il servizio segreto militare russo, da sempre in concorrenza con il KGB. E allora? Ha agito per conto dei servizi militari, contro lo stesso ministero che li comanda?  Questo rientra nella teoria secondo la quale la libertà del personaggio si spiegava con il desiderio di Putin di utilizzarlo per pungolare le forze armate?

 

E quindi? Un teatro immenso? Una piazzata per far uscire qualche talpa, per far piazza pulita dei nemici interni, come fece Richelieu con la sua fronda nella «giornata degli inganni»?

 

Le voci sul fatto che il ministro della difesa Shoigu e il capo di Stato maggiore Gerasimov, non pervenuti durante la crisi, si dimetteranno a breve corre sui canali Telegram russi.

 

Si trattava di proiettare debolezza, per ringalluzzire i NATO-Kiev ad affondare un colpo che si può trasformare in una trappola come lo è stato «mattatoio di Bakhmut» creato per gli ucraini dal generale russo Surovikin detto «generale Armageddon»?

 

Oppure è una questione, davvero russa, di uomini ed emozioni? Può darsi: e anche qui guardate la differenza con il resto del mondo, per esempio negli USA dove è oramai invocata – da tutte e due le parti! – la guerra civile, che tutti dicono inevitabile (e pare proprio lo sia) ma nessuno muove un dito. In una maschia dimostrazione del fare sul serio, eccoti un putsch con marcia sulla capitale e abbattimento di elicotteri vari: solo per una questione di rispetto personale. No?

 

Chi lo sa. Prigozhin conosce Putin dai tempi in cui questi era il vice del sindaco Sobchak, mentre lui era solo un ristoratore con un passato torbido: tutta l’ascesa di Prigozhin la si deve solo al contatto personale con Putin.

 

Prigozhin, figlio di un padre ebreo e figliastro di un patrigno ebreo, viene dai bassifondi, dal mondo degli hot dog, non può appartenere all’élite, non ha fatto le accademie militare, non può essere accettato nel giro dei diplomatici (considerato, in Russia, rivale di quello dei siloviki ex KGB, chiamati talvolta con disprezzo «cekisti»), non ha insegnato l’Università di Mosca: invece, è stato in galera dieci anni.

 

Ecco, la piccola dimenticanza dei giornaloni di queste ore: in pochi hanno voluto parlare dei trascorsi carcerari del boss della Wagner, a differenza di quanto è accaduto mesi fa con Vladen Tatarskij, il blogger russo assassinato con una bomba a San Pietroburgo: i giornali italiani pubblicarono la sua fedina penale già nel titolo del pezzo. Qui nessuno che abbia anche solo sottolineato la condanna per furto e poi i nove anni in gattabuia per rapina.

 

E quindi, si è trattato di un impulso criminale che torna a galla? Il tentativo di rapina del secolo della prima superpotenza atomica mondiale? Il golpe era in realtà una «rapa» in scala bicontinentale? Il golpe era in realtà un colpo gobbo, un «golpe gobbo» per mettersi in saccoccia Mosca e la Siberia e tutto quello che contengono?

 

I giornali bizzarramente non lo hanno ipotizzato – hanno fatto migliaia di sedute psicanalitiche a distanza a Trump e Putin (ricordate: la mitica «rabbia di Roid»…) – ma di entrare in quella che potrebbe essere la  psicologia di Prigozhin, nonostante il materiale bello ricco (con nuove cose indecenti che escono ogni ora in rete), no grazie, meglio di no: magari gliela fa pure e ci toglie Putin di torno, così come vuole chi ci paga lo stipendio, e pure il suo padrone.

 

Anche se, come per il 1991, non sapremo mai bene cosa è successo, dobbiamo cercare di capire che questo spettacolo – perché, come sottolineano vari meme irresistibili, compresi quelli degli ucraini che mangiano i popcorn, di questo si tratta, comunque: di un grande show che ci ha tenuti con il fiato sospeso – si inserisce in un circo più grande: quello del mutamento dell’assetto planetario, la fine del mondo unipolare, la de-dollarizzazione, l’ascesa dei Paesi BRICS contro il blocco NATO-G7 e l’arrivo magari di valute di commercio internazionale alternative, come forse verrà annunziato al summit BRICS di agosto in Sudafrica.

 

Un golpe riuscito in Russia non abbatterebbe solo Putin, ma cambierebbe un film ben più grande.

 

Si può tuttavia andare oltre, e allargare il campo.

 

Giorgio Galli parlava del golpe 1991 in relazione alla Journéee de Dupes di Richelieu in un vecchio libro chiamato La Russia da Fatima al riarmo atomico. Ne abbiamo già parlato, di recente, così come tante, tante volte abbiamo scritto della questione di Fatima e la Russia, e di come questa potrebbe essere stata accennata apertamente in discussioni tra Bergoglio e Putin.

 

«Oggi la Russia si sta rafforzando “sullo scacchiere euro-atlantico”, denuncia gli accordi per limitare gli armamenti, accresce il suo potenziale atomico» scriveva Galli nel 2009, in un periodo dove molti invece non vedevano nella Russia un attore significativo, né un pericolo. «La situazione economica è migliorata dopo il 2004, la Russia si presenta come più forte anche per il riarmo atomico; e questo assicura a Putin un consenso, sia pure manipolato…»

 

Quante cose sono cambiate. La Russia è divenuta Paese – più ancora che ai tempi dell’Impero zarista o sovietico – protagonista delle vicende mondiali. L’assenza del suo gas scatena crisi economiche, senza i suoi fertilizzanti si creano carestie. Resiste a round continui di sanzioni, e al congelamento (quella sì è una rapina) di un terzo di trilione di dollari di fondi di Stato depositati nelle Banche Centrali straniere. Ha un esercito pronto a combattere nella guerra vera, quella con un altro Paese avanzato. Dispone di armi mai viste, missili non intercettabili, testate sottomarine in grado di sommergere interi Paesi con tsunami radioattivi alti centinaia di metri – o almeno così dicono. Le testate atomiche, di cui ha il primato per la quantità, le sta spostando in giro, e comincia a parlarne senza più tanti tabù.

 

La Russia è il Paese che troviamo a fianco a noi sul precipizio della distruzione totale. Può buttarci giù, magari facendosi pure trascinare con noi nell’abisso. Oppure può non farlo, può tenderci la mano, o stringere la nostra se gliela tendiamo noi. E finisce lì.

 

Il lettore capisca che in Russia un golpe, un mezzo golpe, un «golpe gobbo», cambia un quadro che non riguarda solo Mosca, ma riguarda tutti noi: un quadro al di là della storia e della politica, al di là dell’esistenza, perfino: metastorico, metapolitico, metafisico.

 

Il golpe gobbo di Prigozhin e il suo esiziale significato metafisico: adesso che tutti sospirano e ridacchiano, fermiamoci, ancora una volta, a pensarci.

 

L’esistenza della civiltà è appesa ad un filo. Quanti sono gli idioti che non lo hanno ancora capito?

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

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Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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