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Immigrazione

Menarono a Cicalone. L’anarco-tirannide sempre più spudorata

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Simone Cicalone, conosciuto anche come Cicalone Simone, è un personaggio internet oramai molto popolare. Accento romano, mento importante, corporatura solida e occhi grandi, il ragazzo è decisamente non antipatico. Più di 700 mila follower su YouTube e 1.400 video caricati: tanto lavoro, tanto seguito.

 

Ex pugilatore, conoscitore delle arti marziali, si è fatto notare negli anni per i suoi video sui social, tra cui la serie «Scuola di botte», in cui si faceva beffe delle tecniche insegnate da alcune scuole di arti marziali e difesa personale – come quelle dei discepoli dell’israeliana Krav Maga, definiti dal Cicalone come «krav maghi» – che non hanno efficacia se trasposte in situazioni di violenza in strada.

 

Il Cicalone negli anni ha ampliato il format arrivando a fare lunghi video in cui gira per le zone più malfamate di alcune città – Roma, Firenze, Milano, Mestre – per mostrarne il degrado e la pericolosità. Va da sé che quello che ciò che va ad incontrare scortato spesso da altri ragazzotti, magari professionisti di qualche combat sport) è, spessissime volte, la prevalenza di orde straniere a comandare intere zone urbane.

 

La CGIL poco tempo fa ha attaccato aspramente le «ronde» cicaloniane, che invece sono difese da esponenti del partito di governo FdI.

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Lo youtuber ieri sarebbe stato oggetto di quello che definisce «un’agguato» presso la linea A della metro di Roma, luogo infestato da borseggiatori e bande di sudamericani e quindi teatro di vari illuminanti video cicaloneschi.

 

«Cicalone e gli altri componenti del suo gruppo stavano per iniziare le loro riprese quando sarebbe scattata l’aggressione» ricostruisce Il Fatto Quotidiano. Sul posto è intervenuta la polizia per la segnalazione di una rissa. A quanto ricostruito dagli agenti, i borseggiatori coinvolti sarebbero tre e una di loro, una donna, è stata portata in ospedale in codice giallo».

 

Anche Cicalone e la sua videoperatrice sarebbero poi andati al Pronto Soccorso. L’uomo avrebbe detto di essersi fatto male a «naso, ginocchio e collo».

 

Testimone della scena sarebbe stata la parlamentare M5S Marianna Ricciardi, che si era data appuntamento con Cicalone per «esprimere il mio punto di vista» sulla attività del boxeur youtuber «e su un problema che esaspera i cittadini, quello della sicurezza nelle metropolitane di Roma che anch’io utilizzo».

 

L’onorevole grillina dice di essersi trovata dinanzi ad una «una scena da far west»: «davanti ai miei occhi i ragazzi sono stati aggrediti da un gruppo di borseggiatori che si erano evidentemente organizzati e che hanno picchiato anche la videomaker rompendo la videocamera» è il virgolettato de Il Fatto.

 

«Ad aggredire Cicalone sarebbe stato un gruppo di almeno dieci persone. Gli agenti, intervenuti con diverse pattuglie, sono riusciti a fermare due uomini, mentre le donne sono riuscite a scappare» scrive Open.

 

«Mentre noi stiamo qua – spiega il popolare ex pugile – questi sono tornati a rubare in metropolitana», sottolineando che «il “servizio” sulla metro è stata una vera e propria imboscata. Uno c’ha attirato da una parte, picchiandosi in faccia da solo, e poi sono usciti fuori come funghi», racconta Cicalone.

 

 

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La notizia potrebbe essere davvero interessante perché indice di un ragionamento più profondo che i gruppi criminali stranieri, anche quelli più micrologici, stanno facendo riguardo la realtà italiana.

 

È facile pensare che qualcuno nel commando Cicalone lo conoscesse. I ragazzi sanno su YouTube, difficile non imbattersi su un personaggio come lui che parla di strada e che, visto il successo di pubblico, magari è pure premiato dall’algoritmo.

 

E quindi, stando alla prospettiva proposta, se si trattasse davvero di «un’imboscata» come dice lui, e non di una rissa nata estemporaneamente, saremmo di fronte ad una dichiarazione precisa fatta da una banda: questo è il nostro territorio, lo devono vedere tutti. Deve essere noto al pubblico, a tutti sempre.

 

Da una parte, ci sarebbe un salto criminologico non da poco: una volta i criminali zonali facevano il possibile per non apparire pubblicamente, per non dimostrare il loro possesso di un dato territorio. Era il tempo in cui il nome dei ras del quartiere non veniva fatto ad alta voce, e quando questo veniva beccato magari poi entrava ed usciva dalla questura con un giornale in faccia.

 

Ora, invece, il crimine avrebbe perso il pudore. I social media hanno elevato alla massima potenza la questione del narcisismo criminale, assai visibile anche nei video di trapper tra pistole, droga e soldi in contanti. Più ancora dei gansta rapper afroamericani, i cantanti italiani (cioè, per lo più nordafricani) della trap esibiscono direttamente la loro contiguità con il crimine.

 

In pratica, se avesse ragione Cicalone, ci sarebbe un piccolo gruppo che avrebbe detto a lui, al suo pubblico, all’Italia, allo Stato italiano questa è casa nostra. Se si fosse trattato di un agguato programmato si tratterebbe di un segnale precisa: qui facciamo quello che vogliamo, anche al di fuori della legge.

 

Saremmo quindi, pienamente, nel concetto di no-go zone, ossia un’area metropolitana dove lo Stato ha cessato di avere davvero potere, in barba alla sua Costituzione, in barba al concetto stesso di Stato (che non può, non deve, tollerare altro potere, altro monopolio della violenza, all’interno del suo territorio: era quello che un tempo si diceva della lotta alla mafia) in barba ai diritti dei cittadini, in barba alla loro sicurezza.

 

È quanto accaduto a Peschiera del Garda due anni fa, quando migliaia e migliaia di ragazzini stranieri invasero la cittadina lacustre dove – tra caos e molestie – rivendicarono apertamente che quella non era più Italia. È ancora drammatico vedere le immagini delle cariche dei celerini, in inferiorità numerica schiacciate, filmate dai giovani immigrati tra schiamazzi e risate.

 

È quanto visibile a Milano, a Berlino, a Colonia, a Lione in ogni città durante capodanni e mondiali di calcio: immigrati che devastano, molestano (la taharrush gamea, nome arabo per la pratica della molestia di massa ai danni della donna) senza freno alcuno, senza temere alcuna ritorsione.

 

L’atteggiamento della no-go zone rivendicata dal crimine non è nuova, anche da un punto di vista mediatico. Si rimane basiti nel vedere come negli anni il giustiziere anti-degrado di Striscia la Notizia, il campione di bike trial Vittorio Brumotti, invece di provocare un fuggi-fuggi generale quando si presente in qualche piazza di spaccio si ritrova spesso circondato, e anche lui menato, da personaggi che sanno perfettamente di chi si tratta, e sono infastiditi da tanta intraprendenza civica.

 

Ecco che vediamo spacciatori che prima insultano, poi aggrediscono il giornalista-ciclista dinanzi alle telecamere, senza nessun pudore residuo. Anche lì, stanno dicendo: questa zona è nostra, lasciaci commettere reati in pace, diciamolo pure a tutto il mondo.

 

Difficile non credere che tale sicumera dei balordi derivi direttamente dalla percezione che essi hanno dello Stato e delle sue punizioni. Se le forze dell’ordine non intervengono, se mi prendo e mi rilasciano subito, forse vuol dire che posso farlo, specie nella zona dove lo faccio sempre: se interessasse loro fermarmi, saprebbero anche dove trovarmi. No?

 

Era la drammatica visione che uscì qualche mese fa da un agghiacciante servizio sempre di Striscia la notizia sulle borseggiatrici degli autobus milanesi: fermata dall’inviato, la ragazza diceva: lasciami in pace, cosa ti interessa se rubo, non interessa nemmeno alla polizia…

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La spudoratezza del criminale, crediamo, è un ingrediente necessario della configurazione sociopolitica in caricamento, che su queste pagine abbiamo chiamato «anarco-tirannia». Il concetto fu al volgere del millennio dall’americano Samuel Todd Francis (1947-2005), che descrisse la crescente condizione dello Stato moderno che regola tirannicamente o oppressivamente la vita dei cittadini – tasse, multe, burocrazia – tuttavia non può, o meglio non vuole, proteggere gli stessi rispettando le leggi fondamentali.

 

Facciamo spesso l’esempio della rivolta etnica delle banlieue francesi della scorsa estate come l’esempio più evidente (con più di un miliardo di euro di danni, ma nessuna vera repressione dei perpetratori). Parimenti, vediamo tutta la cifra dell’anarco-tirannide nel pazzesco, tragico video in cui il poliziotto a Mannheim attacca il connazionale che stava tentando di fermare un immigrato armato di coltello. Il poliziotto viene quindi pugnalato e ucciso.

 

Abbiamo visto l’anarco-tirannia anche nella tragedia di Udine di pochi giorni fa, con la morte del giapponese (ma cresciuto in Italia, tifosissimo dell’Udinese) Shinpei Tominaga, ucciso gratuitamente mentre si trovava fuori con gli amici.

 

Da notare che l’anarco-tirannia non prevede per l’onesto cittadino la medesima libertà: se il criminale è lasciato libero di devastare una zona della città con ogni sorta di crimine anche violento e rimanere più o meno impunito, il contribuente continua ad essere inseguito dal fisco, dalle multe, da imposizioni di ogni sorta (ricordate le mascherine? Il green pass?), pena punizioni dure.

 

Impossibile non capire che è questa la realtà che l’oligarcato ha in mente per la società, dove gli individui pensanti devono essere tenuti impegnati a tentare di sopravvivere per unirsi e reclamare maggiore distribuzione della ricchezza.

 

Impossibile non comprendere che l’immissione di milioni di immigrati in ogni Paese occidentale sia parte del piano di caricamento della società anarco-tirannica, quella dove, come scritto dal conte Coudenove-Kalergi, la massa meticcia sarà resa docile e manipolabile. Il tabù piazzato sopra ogni discorso della sostituzione etnica – che epperò è dinanzi ai nostri occhi – è tutto qui.

 

Infine, visto che pare che in questo episodio si parla di gang non meglio specificata di latinos, vogliamo fare un appunto riguardo a parole che recentemente ci hanno colpito.

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Vogliamo ricordare, en passant, la scioccante dichiarazione – che citava anche l’Italia – fatta dal presidente del Salvador Nayib Bukele a Tucker Carlson appena dopo la cerimonia di giuramento come presidente del Paese.

 

Bukele ha parlato della cifra satanica di gang sudamericane, dove sarebbero attivi rituali di sacrificio umano, con tanto di uccisione cerimoniale di bambini.

 

Nel suo discorso il presidente salvadoriano ha ricordato che in particolare di MS-13, tra gli altri Paesi, ha una presenza anche in Italia. Di fatto, è noto il caso lombardo del 2015 del capotreno il cui braccio fu praticamente mozzato a colpi di machete.

 

«Ma man mano che l’organizzazione cresceva, sono diventati satanici. Hanno iniziato a fare rituali satanici» afferma il presidente Bukele. «Non so esattamente quando sia iniziato, ma era ben documentato. «Sono diventati un’organizzazione satanica. Ricordo il giornale che lo ha raccontato, è un giornale molto noto che ha fatto questa intervista con un membro di una gang in persona. (…) E il ragazzo a cui gli hanno chiesto quante persone aveva ucciso, aveva risposto “non ricordo. Non ricordano quanti. Probabilmente 10, 20”. Non se lo ricordava».

 

«Poi gli hanno chiesto e tu, qual è la tua posizione nella banda? Ha spiegato come è salito di posizione. “Ma ho lasciato la banda”, ha detto. Perché ha lasciato la banda? “beh, perché ero abituato a uccidere, ero abituato a uccidere le persone. Ma ho ucciso per il territorio. Ho ucciso per raccogliere soldi. Ho ucciso per estorsione. Ma poi sono arrivato in questa casa, e stavano per uccidere un bambino».

 

Lascia fare il gangster, e ti ritrovi davanti alla possibilità che dietro casa si consumino omicidi rituali demoniaci. Per la mafia nigeriana forse è già così, anche in Italia.

 

E quindi, c’è da fare un pensiero: l‘anarco-tirannia porta inevitabilmente alla satanizzazione della società.

 

Uno Stato che tollera al suo interno no-go zone di qualsiasi tipo finisce giocoforza ad ingenerare l’inversione della società, cioè la fine della civiltà cristiana, ciò l’avvento di un ordine sociale di matrice differente – di matrice, nei casi che vediamo, sempre più apertamente demoniaca.

 

Chi è in grado di comprendere la posta in gioco?

 

Chi è in grado di guardare i propri figli e non sentire timore e rabbia dinanzi alla prospettiva del Regno Sociale di Satana sempre più manifesto?

 

Roberto Dal Bosco

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Immigrazione

Trump definisce gli immigrati somali «spazzatura»

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Il presidente statunitense Donald Trump ha espresso contrarietà all’accoglienza di immigrati somali negli Usa, invitandoli a rimpatriare nella loro terra d’origine – l’Africa orientale, «a stento una nazione» – e a «mettere ordine laggiù».   Le sue parole si inseriscono in un più ampio affondo contro la comunità somalo-americana, in particolare nel Minnesota, sede della più numerosa diaspora somala negli Stati Uniti. L’uscita segue la determinazione di Washington di sospendere le procedure di asilo, in replica alla sparatoria di due militari della Guardia Nazionale nei pressi della Casa Bianca la settimana scorsa.   Nel corso di una sessione governativa martedì, Trump ha bacchettato gli immigrati somali, tra cui la deputata democratica Ilhan Omar, accusandoli di «non recare alcun beneficio» alla società americana.   «Se proseguiamo a importare rifiuti nella nostra Patria, imboccheremo la strada del declino. Ilhan Omar è immondizia, è immondizia. I suoi amici sono immondizia», ha tuonato, aggiungendo che la Somalia «è un fallimento per un valido motivo».  

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«Queste non sono persone che lavorano. Non sono persone che dicono: “Andiamo, forza. Rendiamo questo posto fantastico”. Queste sono persone che non fanno altro che lamentarsi» ha tuonato il presidente USA. «Quando vengono dall’inferno e si lamentano e non fanno altro che lagnarsi non li vogliamo nel nostro Paese. Lasciamo che tornino da dove sono venuti e risolvano la situazione».   Omar, nata in Somalia e naturalizzata statunitense, è la prima donna di origini africane a sedere al Congresso, eletta nel quinto distretto del Minnesota e membro della «squad» progressista democratica, spesso in rotta di collisione con i repubblicani.   Come riportato da Renovatio 21, Trump l’aveva già bollata come «feccia» a settembre, dopo che era scampata per un soffio a una mozione di censura alla Camera per commenti sprezzanti sull’attivista conservatore Charlie Kirk, assassinato. Aveva pure rilanciato illazioni su un presunto matrimonio con il fratello per ottenere «illecitamente» la cittadinanza americana.   In un messaggio su X diramato martedì, Omar ha tacciato di «inquietante» l’«ossessione» del presidente \nei suoi confronti. «Spero ottenga l’assistenza di cui abbisogna urgentemente», ha commentato.  

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La Somalia versa in una cronica instabilità e minaccia terroristica da decenni, alimentata dal gruppo qaidista Al-Shabaab e da altre frange estremiste. Molti somali approdarono negli USA negli anni Novanta, in piena guerra civile. Altri ancora arrivarono con Obama. La scorsa settimana, Trump ha annunciato l’intenzione di estromettere i somali dal programma di Temporary Protected Status (TPS), che autorizza immigrati da nazioni in crisi a soggiornare e lavorare negli USA, denunziando «brigate» di rifugiati somali che «hanno invaso» il Minnesota, «un tempo uno Stato magnifico», seminando terrore e facendo evaporare miliardi di dollari.   Il governatore del Minnesota Tim Walz – da Trump etichettato come un capo «ritardato» per non aver «mosso un dito» contro il fenomeno – ha stigmatizzato la revoca del TPS come «discriminatoria e lesiva».   La comunità somala negli Stati Uniti, stimata tra 150.000 e 200.000 persone, è una delle più grandi diaspore somale al mondo. Lo Stato del Minnesota ospita la popolazione più numerosa, con circa 86.000 Somali, concentrati a Minneapolis, soprannominata «Little Mogadishu», o Piccola Mogadiscio. Altre comunità significative si trovano a Columbus (Ohio), Seattle (Washington) e San Diego (California). La migrazione, iniziata negli anni Novanta per la guerra civile in Somalia, è stata guidata da opportunità lavorative e supporto di agenzie di reinsediamento.

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Immigrazione

Nemmeno la provincia è al riparo dalla violenza dell’immigrazione: in memoria di Thomas Perotto

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Due anni fa, il 19 novembre 2023, in quel di Crépol, borgo rurale nei pressi di Romans-sur-Isère, nel dipartimento della Drôme nel sud della Francia, perdeva la vita in circostanze tragiche il giovane diciassettenne Thomas Perotto.

 

Nel corso di un alterco in cui, secondo alcune testimonianze, il giovane era intervenuto in difesa di alcuni amici, Thomas veniva ucciso con una coltellata al cuore.

 

Secondo le testimonianze, le prime tensioni avevano avuto luogo nella sala delle feste in cui si svolgeva una festa di paese. Anche Thomas, membro della locale squadra di rugby era presente.

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Un gruppo di giovinastri, non propriamente francesi (qualcuno da noi userebbe il termine «di seconda generazione») si era presentato alla festa e dopo alcuni sguardi e commenti di troppo era scoppiato un parapiglia tra i rugbymen e gli infiltrati, che forse avevano pure pagato il biglietto. 

 

I giovinastri avevano ricevuto rinforzi dalla Monnaie, quartiere malfamato di Romans-sur-Isère, ad alta densità migratoria e delinquenziale. Coltelli alla mano si erano scatenati sui presenti dando inizio ad una vera e propria carneficina al termine della quale moriva Thomas, raggiunto da due fendenti fatali mentre altri restavano gravemente feriti.

 

Nonostante il vero e proprio depistaggio di diverse testate giornalistiche che si erano affrettate a minimizzare i fatti, dando magari la colpa a qualche bicchiere di troppo, la realtà era venuta a galla.

 

Sembra infatti che i delinquenti della Monnaie si fossero presentati alla festa pour «casser des blancs» «pointer des blancs» tutte espressioni gergali per descrivere l’obiettivo della ghenga: malmenare, accoltellato e se possibile uccidere dei bianchi.

 

Allo stato attuale, alcune associazioni si battono perché il razzismo antibianchi venga riconosciuto dell’inchiesta ancora in corso come movente dell’omicidio di Thomas

 

Ricordo bene come nei giorni successivi all’omicidio i colpevoli fossero già stati individuati e loro foto circolassero pure su Telegram. Gli indizi sembravano essere schiaccianti. Oltretutto alcuni di loro erano stati rintracciati, in fuga nei dintorni di Toulouse. Poi, stranamente (o forse no), i sospetti erano stati rimessi in libertà. 

 

Ricordo anche il sostegno a Thomas, con un bello striscione esposto sugli spalti, da parte dei tifosi del club libanese di basket cristiano «Sagesse».

 

L’anno successivo, nella primavera 2024, venni poi a conoscenza da un sacerdote che Thomas era un fedele dello stesso Istituto che frequento anch’io.

 

Oltre al cordoglio, al ricordo e alla preghiera per Thomas è possibile fare alcune considerazioni.

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Come ripetuto su Renovatio 21 ormai nemmeno la cosiddetta «provincia sonnacchiosa» è al riparo da branchi di predatori su due gambe e costoro ci vengono pure a cercare nelle feste di paese, nelle occasioni in cui si rincontrano i vecchi amici o si vorrebbero fare due chiacchiere in tranquillità.

 

Lo vediamo un po’ dappertutto e pure da noi, basti pensare a quante sagre o feste popolari vengano funestate dalla presenza molesta di soggetti «a caccia di bianchi».

 

Non ci vogliono dare pace, per le strade, nei momenti di svago e neppure sui monti dove troviamo anche i grandi carnivori.

 

Quanto ancora saremo disposti a tollerarlo?

 

Victor García 

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Immigrazione

La realtà dietro all’ultimo omicidio di Perugia

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Il mese scorso, un ragazzo di origini albanesi proveniente dalle Marche è stato ucciso da una coltellata mentre si trovava a Perugia con degli amici per passare una serata nella zona universitaria. La lite, con un altro gruppo di giovani, è scoppiata per futili motivi.    La nottata in discoteca era ormai finita e da uno sfottò calcistico è partita la scintilla che ha innescato le ire di ragazzi di origini nordafricane residenti in Italia con tanto di cittadinanza.   Stando a quanto scritto dall’ANSA, «in base a quanto accertato dalla squadra mobile di Perugia, un diciottenne recentemente finito in carcere per l’aggravamento del divieto di dimora in Perugia a cui era sottoposto per un altro episodio, si era fatto raggiungere dalla fidanzata per prendere un coltello custodito nella vettura. L’aveva quindi brandito verso l’altro gruppo per poi buttarlo a terra. Nel frattempo, in un’altra parte del parcheggio, c’erano state altre colluttazioni. Dalle indagini è emerso che il ventunenne di Perugia, dopo aver raccolto il coltello lanciato a terra dall’amico e con un secondo nell’altra mano, si sarebbe scagliato contro il giovane di Fabriano, colpito con un unico fendente al torace. Quindi la fuga, per poi disfarsi del coltello utilizzato nell’aggressione (non ancora ritrovato) e di alcuni indumenti».

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Questo «omicidio universitario» non può non riportare alla mente il delitto Meredith Kercher del 2007, consumatosi fra studenti, che segnò uno spartiacque per la città di Perugia, con lo sgretolamento di quell’eden edonistico di una nightlife universitaria da far invidia alla migliore movida spagnola. Da quel momento la città fu messa sotto i riflettori per l’emergere di una strabordante e dilagante violenza – in particolar modo nella zona del centro storico – fino ad allora soffocata e tenuta come la polvere sotto il tappeto, ma poi deflagrata sotto la lente d’ingrandimento dei media.   Ciò sdegnò i perugini che fino ad allora hanno voluto credere che tutto andasse bene. Su Renovatio 21 abbiamo recentemente avuto occasione di parlare di tale delitto con due interviste all’ex magistrato Giuliano Mignini che seguì tutta l’irrisolta vicenda.   Le problematiche legate a una microcriminalità sempre più diffusa – dati alla mano – sono da attribuire per una sostanziosa percentuale ad immigrati o di immigrati di seconda generazione. Nel centro storico del capoluogo umbro qualche mese fa c’è stata un’aggressione pubblica in un negozio di kebab da parte di quattro stranieri, tre albanesi e un greco, protagonisti di quello che pare sia stata una vera e propria spedizione punitiva come spiega la cronista Francesca Marruco su un giornale locale: «col volto parzialmente coperto dai cappucci delle felpe, entrano correndo armati di bastoni e mazze».    In questi giorni, sempre nella stessa zona, un altro fatto di sangue ha sporcato il salotto buono perugino come apprendiamo dalle cronache: «Un uomo è stato soccorso sulla scalinata del Duomo, all’ingresso principale verso piazza Danti, gravemente ferito da una coltellata alla schiena. A trovarlo a terra, intorno alle 5 di mattina, sono stati alcuni addetti della sicurezza privata. Sono stati loro a richiedere l’intervento della polizia, che ha richiesto la presenza del personale medico del 118. Si tratta di un tunisino, di 33 anni, con precedenti di polizia». «Dalle prime testimonianze raccolte, la coltellata sarebbe arrivata al culmine di una lite con due uomini di nazionalità marocchina, per ragioni ancora da chiarire» scrive La Nazione   Fatti di questo genere sono parte dell’ordinario e oramai non fanno quasi più notizia nemmeno quando si palesano nelle zone residenziali e storiche delle nostre città, dove famiglie, turisti, studenti e cittadini vivono godendo le bellezze architettoniche delle nostre città d’arte.   La settimana scorsa un gruppetto di «maranza» ha gettato da un soprappassaggio pedonale un carrello della spesa su una delle vie più trafficate nei pressi della stazione ferroviaria sfiorando per pura casualità le autovetture che in quell’ora del giorno transitano freneticamente su quella che è un’arteria importante del traffico cittadino.  
 
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Rammento un altro fatto di sangue che al tempo risultò prodromico per la caduta della maggioranza politica di sinistra che non aveva mai perso le amministrative nel capoluogo umbro. Era il maggio 2012. Una notte di inseguimenti e violenze nel centro storico di Perugia tra bande di stranieri, dopo che un nordafricano fu accoltellato quasi a morte. La sospetta morte scatenò le ire dei connazionali che iniziarono una serie di spedizioni punitive nei locali dell’acropoli per cercare i rivali. Si scatenò una guerriglia contro le forze dell’ordine in pieno stile far west.   «L’8 maggio 2012 il centro storico di Perugia fu teatro di una vera e propria guerriglia “tra bande” di albanesi contro tunisini, che si sfidarono a colpi di spranghe e bottigliate. La violenza aggressione degenerò, ci furono danneggiamenti alle macchine delle forze dell’ordine e vetrine dei negozi spaccati. Negli scontri fu accoltellato un tunisino che poi si è salvato dopo una lunga degenza in ospedale. Forse un regolamento dei conti tra bande di stranieri, legati al mondo della droga», come riportato da PerugiaToday.   Ricordo che i giorni appresso furono schierati carabinieri e polizia in ogni angolo per cercare di re-immettere sicurezza ai cittadini che si sentivano impauriti e smarriti. La conseguente caduta della sinistra portò alla vittoria di un sindaco di centro destra, Andrea Romizi, che con la sua giunta, quantomeno sotto il profilo della sicurezza, cercò di attuare misure atte a mitigare una situazione che di lì a poco avrebbe potuto degenerare ulteriormente, anche se poi atti vandalici commessi da immigrati ce ne sono stati lo stesso.   Al tempo Perugia fu etichettata come Gotham City, scatenando una canea social tragicomica, dove le varie fazioni politiche hanno scritto tutto e il contrario di tutto sui propri profili Facebook, enfatizzando alcuni fatti e portandoseli a loro favore a seconda delle necessità. È la solita «politica dei social network», che straparla, litiga, dibatte, urla, ma che poi di fatto, all’atto pratico, ben poco può o vuole fare in merito, stretta tra un groviglio legislativo pachidermico e uno spirito di politicamente corretto quanto mai pervasivo.   Rammento inoltre che colloquiando con un poliziotto in servizio nelle nostre regioni del nord est, parlando con dei suoi colleghi in maniera serena e informale, disse candidamente che «le lame le tirano fuori solo gli immigrati, quasi mai gli italiani». Segno evidente che vi potrebbe essere un’attitudine alla violenza più spiccata tra quelli che sono i cosiddetti italiani di seconda generazione.    Visto il trend odierno è bene ricordare che nel maggio scorso la zona della stazione ferroviaria di Perugia è diventata zona rossa – terminologia di covidica memoria – per cercare di arginare la delinquenza e sopperire alle mancanze in tema di sicurezza della nuova giunta comunale di sinistra.    Ci sarebbe da chiedersi come mai ci sia un incremento di violenza e criminalità proprio con il cambio di amministrazione locale. È difficile, a mio avviso, trovare una spiegazione logica, precisa e circostanziata. Può essere una semplice coincidenza, oppure una percezione da parte di alcuni criminali di poter essere meno controllati? Questo, in tutta onestà, non lo so.   Di certo c’è che la precedente amministrazione di centro destra ha concretamente fatto qualcosa per contenere questo tipo di reati – come detto non sempre riuscendoci – ma è altresì vero che ha comunque applicato una politica di superficie, non andando alla radice vera del problema legato alla immigrazione incontrollata, ma cercando di lustrare una facciata che tutto sommato ha distolto il cittadino, per un certo lasso di tempo, da questa criticità. Ora il problema ecco che torna a galla. Non spetta di certo alle amministrazioni locali estirpare in toto questi problemi, bensì sarebbe compito dello Stato che evidentemente esso stesso gioca e si muove in una superficie senza poter o voler scavare in profondità.   Dopo le «zone rosse» perugine ci possiamo aspettare il «lockdown maranza», già applicato in Francia, o il «lockdown adolescenziale» in salsa calabra atto a mitigare i cittadini esasperati dagli schiamazzi notturni, dalle ubriacature moleste e dalle violenze di queste bande di minori apparentemente fuori controllo, spesso anche sotto l’effetto di stupefacenti.   L’anno passato a Milano è scoppiata una rivolta etnica, ma praticamente nessuno la volle chiamare così, praticamente solo Renovatio 21. Né iniziare a pensare che il punto di non ritorno della banlieue francese è finalmente arrivato – e con esso, le no-go zone immigrate all’interno delle nostre città. Si tratta di un dato di rilevanza storica non solo per la «capitale morale», ma per l’Italia tutta. Milano, si dice, anticipa ciò che succede nel resto del Paese. Senza dimenticare i fatti di Peschiera del Garda: una cittadina messa sotto assedio da una moltitudine di giovani africani.   Tanto per cercare di essere più precisi e circostanziati è bene riportare alcuni dati ufficiali su tali questioni. Apprendiamo dal sito ufficiale del Ministero dell’Interno (dati relativi al 2022) del che i crimini commessi da stranieri, leggendo il tutto macro dimensionalmente e depurato da qualsiasi retorica qualunquista, rappresenta una criticità da non sottovalutare viste le percentuali: «La popolazione straniera residente nel 2022 sul territorio nazionale rappresenta circa l’8,5% del totale.

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Analizzando i dati relativi all’azione di contrasto effettuata sul territorio nazionale dalle Forze di polizia, nel 2022 si rilevano 271.026 segnalazioni nei confronti di stranieri ritenuti responsabili di attività illecite, pari al 34,1% del totale delle persone denunciate ed arrestate; il dato risulta in lieve aumento, sia in valori assoluti che in termini di incidenza, rispetto a quello del 2021, allorquando le segnalazioni erano state 264.864, pari al 31,9% del totale. Significativo è risultato il coinvolgimento di stranieri in attività delittuose di natura predatoria.   In particolare: furti, le segnalazioni riferite agli stranieri denunciati e/o arrestati nel 2022 (41.462) rappresentano, per tale fattispecie, il 45,48% del totale; rapine, le segnalazioni riferite a stranieri denunciati e/o arrestati nel 2022 (9.256) rappresentano, per tale delitto, il 47,31% del totale». Vedasi anche il sito del Ministero della Giustizia che ci dice quanti detenuti italiani e stranieri sono al sicuro nelle patrie galere.   Alla luce dei fatti e dei dati, si evince un quadro ben chiaro: questa «criminalità extracomunitaria» è un macro problema e sta diventando una vera e propria emergenza sociale che andrebbe trattata come tale. In primis dovremmo pretendere un dibattito sano, costruttivo, non fazioso sul tema e non occluso dalla cappa di politically correct che pervade anche questa tematica.   È compito delle istituzioni, ma anche dei giornalisti che troppo spesso mistificano i fatti di cronaca omettendo furbescamente le identità dei criminali in nome di una inclusività e di un neo linguaggio di stile orwelliano. In verità, la stampa non lo può dire, almeno non nei titoli – per il solito effetto della Carta di Roma, (il testo deontologico imposto ai giornalisti che prevede limiti di cronaca riguardo alle cose degli immigrati) – tanto che in tali articoli bisogna leggere fra le righe: le proteste e le violenze spesso sono perpetrate da ragazzi nordafricani di secondo o financo terza generazione.   Senza entrare nel campo ampio del problema dei flussi migratori, ci accontenteremmo semplicemente di più trasparenza e correttezza, per evitare il dilagare dell’anarco-tirannia in ciabatte.   Francesco Rondolini

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