Pensiero
Martiri del ritorno del matriarcato
La linea rossa, per quanto mi riguarda, è stata passata ieri, quando ho appreso che mio figlio, come i bambini di tutta Italia, a scuola ha osservato un minuto di silenzio per il caso di Giulia Cecchettin.
Lui, ovviamente, non ha capito bene di cosa si trattava. Ma è proprio così che deve andare. È così che funziona l’indottrinamento – specie nelle menti più giovani. Inserisci un’idea, per quanto non pienamente comprensibile, nella mente di qualcuno, con la forza della peer pressure, la pressione sociale della collettività. E non importa l’assimilazione, conta solo l’immissione del concetto. Il resto si vedrà dopo, il tempo per la coltivazione del seme ficcato dentro c’è tutto.
Quindi, i bambini a scuola sono obbligati (perché, hanno scelta?) a interessarsi di un fatto di un sanguinario fatto di cronaca, sposando poi una sua lettura precisa – il femminicidio… Nota bene: siamo ancora un pochino lontani dai tre gradi di giudizio previsti dalla legge, come dicono (dicevano) i garantisti di destra e sinistra. Di fatto, la magistratura tedesca ha firmato l’estradizione del sospetto poco fa.
Epperò, i bimbi devono contemplare la questione nel profondo, devono schierare il proprio essere riguardo la faccenda, il minuto di silenzio – il triste surrogato laico della preghiera (peraltro rivelatore: invece che connetterti al divino, di attacchi al niente) – serve proprio a questo.
Devo dedurne, quindi, che se a scuola perfino chi ha otto anni si deve occupare della cosa, essa è giocoforza un affare di Stato.
Parrebbe proprio così. Vale la pena, allora, guardare davvero lo scenario che ci si para innanzi, e nel profondo.
Innanzitutto, notate: la parola «femminicidio» – grande ottenimento dell’era delle pari opportunità, anzi impari: perché mai, si chiede qualche giurista rimasto tale – uccidere una donna dovrebbe essere meno grave di uccidere un uomo? – pian piano sta scemando. Si parla meno di femminicidio, stavolta, e si comincia ad usare, con voce tonante, un altro vocabolo fino a poco fa non usualissimo nella lingua comune: «patriarcato».
La parola campeggia ovunque. Manifestazioni con cori e striscioni sul patriarcato, tirate infinite nei talk show, lanci sui social dei politici, conferenze, programmi governativi.
A Padova si è vista una manifestazione a seguito della morte della ragazza di Saonara, si è visto un gonfalone chiarissimo: «Basta femminicidi e stupri! Violenza di genere: il problema è il patriarcato».
Demonstration in Padua against violence against women. They are the same pro-immigration people as "refugees welcome". We remind them that in Italy 40% of rapes are committed by immigrants who make up 8% of the population. pic.twitter.com/6UrBcfMoF5
— RadioGenoa (@RadioGenoa) November 20, 2023
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A Firenze, stesse scritte, stessi concetti.
Siamo in piazza anche a #Firenze, in tante e tanti, per dire basta #femminicidi.
???????? PASSEGGIATA RUMOROSA ???? ????#25novembre #25N #nonunadimeno #civogliamovive #losapevamotutte#GIULIACECCHETTIN #Cecchettin #Patriarcato pic.twitter.com/IuSuvIu9Qp— Firenze Possibile – Comitato Piero Calamandrei (@FI_Possibile) November 21, 2023
Lili Gruber definisce la premier Meloni «espressione della cultura patriarcale». Elly Schlein parla di «sradicare la tossica cultura patriarcale del possesso e del controllo sul corpo e sulla vita delle donne».
In TV mi è capitato vedere un sedicente scrittore (davvero, non sappiamo davvero che lavoro faccia, né ricordiamo come si chiamasse) che faceva, in stile rivoluzione culturale maoista, autocritica: davanti ad una serqua di volti televisivi femminili che annuivano, diceva, con avvilito accento meridionale, che sì, bisogna cambiare le cose, perché anche lui, una volta, era stato con una ragazza a cui voleva bene, ma ad un certo punto aveva pensato dentro di sé che il fatto che guadagnava più di lui – capita, se si dice che si lavora come «scrittori» – forse poteva inficiare il loro rapporto. Peccato gravissimo di patriarcato interiore, vero psicoreato confessato in pubblica piazza, e non si sa se davvero perdonato.
Ma mica c’è solo la sinistra: i ministri Sangiuliano, Valditara, Roccella – espressioni del primo partito di governo –presentano istantaneamente un nuovo protocollo per la prevenzione della violenza sulle donne, e la Roccella (eccerto) ne approfitta: « Tutte noi sappiamo che il patriarcato esiste, eccome se esiste (…) gli uomini devono essere protagonisti nel modificare la cultura patriarcale».
La stura l’ha data certamente la sorella minore della ragazza morta, quella che ha inquietato molto per la mise scelta per andare in TV: una felpa della rivista di skateboard Thrasher, dove però il logo è accompagnato da una bella stella a cinque punte rovesciata, quella in cui di solito iscrivono l’immagine della testa del caprone, l’iconografia satanica nota a tutti quanti. (Di nostro, abbiamo cercato di immaginarci il ragionamento intimo: viene Rete 4 a riprendermi, cosa mi metto? Ma certo, la felpa col pentacolo…)
La ragazza, e non solo lei, ha impressionato molti che l’anno trovata fuori dall’emotività che ci si aspetta per un lutto. Un caro amico mi ha chiamato, mi ha chiesto di essere confortato: riportarmi a terra, mi stanno venendo strani pensieri… Sono quelli che sono probabilmente venuti al consigliere regionale della Lega che ha postato sui social le sue perplessità, ottenendo la reazione di Luca Zaia (eccerto), che si dissocia. Si dissocia da che? Da una persona, pure votata dal popolo, che esprime il suo pensiero?
Non abbiamo pensieri da fare sui vestiti e gli umori televisivi della ragazza, né sulle altre foto non verificate che circolano sulle app di messaggistica.
Tuttavia, le sue parole sono chiarissime.
La ragazza aveva iniziato col ministro Salvini che riguardo al Turetta, si era permesso di scrivere su Twitter «se colpevole, nessuno sconto di pena e carcere a vita». «Ministro dei trasporti che dubita della colpevolezza di Turetta. Perché bianco, perché di “buona famiglia”. Anche questa è violenza, violenza di Stato». Poi rilanciava un tweet che richiamava il rifiuto della Lega (e l’opposizione di due dei suoi eurodeputati) riguardo alla risoluzione che sollecitava l’adesione dell’Unione Europea alla convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne.
Di lì è stata una discesa in abissi politici e filosofici.
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«I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro» ha scritto la ragazza sui social, ribadendo un pensiero raccontato alle telecamere. «La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene data importanza come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura. Viene spesso detto “non tutti gli uomini”. Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini».
L’intera specie maschile è sotto accusa. C’è quindi da attuare una ribellione contro lo status quo, una rivolta contro il patriarcato moderno.
«Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio – conclude la sorella di Giulia – Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere».
Il discorso della ragazza ha quindi assunto un carattere politico, programmatico, dalle tinte incendiarie.
«Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto».
Bruciare tutto. L’immagine non è sbagliata: bruciare il patriarcato significa, di fatto, rovesciare la società nella sua interezza, resettare il consorzio umano, demolendone le fondamenta. Quando parlano del patriarcato, femministe e quanti ne ripetono a pappagallo i concetti (come i gay organizzati, apparentemente…) intendono semplicemente la radicale disintegrazione del sistema sociale vigente.
O forse c’è dell’altro?
Ci sarebbe da considerare, cosa che mi pare pochi hanno fatto in queste ore, che il patriarcato ha un suo contrario esatto, ma il termine non ancora lo si è sentito proferire: il matriarcato. Già, per qualche ragione, chi parla di distruzione del patriarcato, non ha ancora iniziato a generare slogan sul ritorno del matriarcato.
Posso capirlo. Il matriarcato è un concetto potente, ma altrettanto oscuro. Chi se ne è occupato, leggendo qualche cosa sull’argomento, lo sa. Una finestra di Overton sulla reintroduzione, dopo millenni, del matriarcato nella società umana forse è partita, ma si muove molto, molto lentamente.
Fondamentalmente, gli studi sul matriarcato risalgono ad un ricco uomo di Basilea, Johann Jacob Bachofen (1815-1887). Giurista e filologo, fece per tutta la vita il giudice, perché si irritò quando, divenuto professore di diritto romano, si sparse la voce che era stato cooptato a causa della facoltosa famiglia (la sua e della moglie, la cui collezione di arte, tra Cranach e Memling, è ora uno dei principali tesori artistici museali dello Stato elvetico). In verità, l’uomo era un appassionato di antichità, e lo era in maniera irrefrenabile, al punto da accumulare un’erudizione spaventosa, rinforzata da molteplici viaggi di studio a Roma e in Grecia.
Le sue conoscenze sul mondo arcaico crebbero fino a portarlo a concepire una visione complessa, e in parte inedita, dell’evoluzione della società umana.
Secondo la sua visione storica, i primi sviluppi della storia umana seguono una successione di fasi in cui inizialmente prevale l’elemento materno, accompagnato da simbolismi legati alla terra e all’acqua, al diritto naturale, alla promiscuità sessuale e alla comunanza dei beni.
Successivamente, emerge l’elemento paterno con i suoi simbolismi celesti, il diritto positivo, la monogamia e la proprietà privata. Il passaggio tra queste fasi sarebbe avvenuto attraverso momenti di potere violento delle donne, manifestatosi prima come una ribellione alla supremazia fisica del maschio nei primi stadi della civiltà e successivamente come una degenerazione della fase classica del matriarcato, noto come «demetrico», da Demetra, la dea che presiedeva la natura, i raccolti e le messi. Quest’ultimo periodo è descritto da Bachofen come una «poesia della storia», ordinato secondo le leggi pacifiche ed equitative della madre terra. (Quando sentite parlare di Gaia, o della Pachamama, di fatto vi stanno cercando di infliggere la nostalgia di quell’arcaica età pagana).
La storia altro non è se non la dialettica di questi principi sociali, quello ctonio, lunare della donna, legato alla materia e alla terra, e quello solare, astratto dell’uomo, legato alla mente e al cielo. La spiegazione che si tende a dare è che la donna ha un rapporto viscerale con l’esistenza, perché genera fisicamente la prole, e subisce il processo ciclico temporale-materiale del mestruo. Secondo tale teoria, l’uomo invece ha con la prole un rapporto puramente ideale, basato su convenzioni e leggi.
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«Negli stadi più profondi e oscuri dell’esistenza umana l’amore tra la madre e il nato dal suo corpo rappresenta il punto luminoso della vita, il solo chiarore nella tenebra morale, la sola beatitudine nella profonda miseria» scrive Bachofen. «L’intima relazione del figlio con il padre e il sacrificio del figlio per il genitore implicano un grado molto più alto di sviluppo morale che l’amore materno, forza piena di mistero che penetra ugualmente tutte le creature terrestri. Essa appare più tardi, e più tardi rivela la sua forza».
«Nella cura per il frutto del proprio corpo, la donna impara prima dell’uomo a spingere la propria preoccupazione amorosa oltre i confini dell’io individuale, verso un altro essere (…) Il legame della madre col bambino poggia su un rapporto materiale, è accessibile alla percezione dei sensi e resta una verità di natura; all’opposto la paternità generatrice presenta in tutti i suoi elementi caratteristiche diversissime, priva di qualsiasi rapporto visibile con il bambino essa non può perdere mai del tutto, neppure nel vincolo matrimoniale, la sua natura del tutto puramente fittizia».
«La legge materna viene dal basso, origina dalla realtà più ctonia del mondo naturale; il Dio padre, invece, viene dall’alto e origina dall’idea di una natura/realtà celeste» scrive Bachofen.
Un tempo, agli albori del mondo, regnava la «Ginecocrazia», il puro governo della femmina. Bachofen sviluppò una concezione della storia divisa in quattro fasi.
Una prima fase, chiamata «Eterismo», dove il matriarcato non era ancora regolamentato, e il concetto di paternità del tutto sconosciuto. Nella fase eterica vigeva il sesso libero e l’assenza totale di proprietà privata. In quest’era, tuttavia, era già diffusa nell’umanità la concezione della Dea Madre.
Una seconda fase, chiamata «Amazzonismo», dove le donne avrebbero utilizzato vari strumenti, compresi quelli di natura militare, per continuare a sottomettere l’uomo anche se fisicamente di forza superiore: tale periodo è contenuto in vari miti come quello della donna guerriera, da Artemide e Pentesilea.
Nella terza fase, si ha il Matriarcato vero e proprio, considerabile come «l’età dell’oro del genere umano». Durante l’era del matriarcato, la preminenza sociale corrisponde alla sola madre, l’eredità è riservata alle figlie, per l’uomo vi è al massimo il riconoscimento di un ruolo speciale al fratello della madre. Qui la donna gode del pieno diritto di scegliere autonomamente i propri partner sessuali.
Nella sfera religiosa, si sostiene che nel matriarcato il potere sia stato assunto dalle divinità femminili, iniziando con una «dea della terra» come Gea. Il culto di questa divinità è considerato all’origine di tutte le religioni successive, con le sacerdotesse occupanti una posizione superiore.
Dal punto di vista economico, la società era altamente avanzata nell’ambito dell’agricoltura, un’attività svolta in collaborazione principalmente dalle donne. Gli uomini, d’altra parte, erano dedicati principalmente alla caccia, il che spesso li rendeva assenti e lontani dalla comunità.
Dal punto di vista politico, la società seguiva i principi di uguaglianza universale e libertà. Le donne assumevano il ruolo di capo dello stato, detenendo il potere, mentre alcuni compiti venivano successivamente delegati agli uomini.
Poi venne la rivolta degli uomini, che riuscirono a sovvertire il dominio matriarcale, come testimoniato nella battaglia tra le Amazzoni e il mondo degli eroi ellenici.
Tale transizione, secondo Bachofen, è avvenuta in conformità con le regole della cosmologia. La Grande Dea è divenuta il «mistero della religione ctonia» conservando il carattere che aveva durante la fase primordiale dell’eterismo e del matriarcato, in cui la Luna è apparsa come rappresentazione simbolica del principio femminile. Questo principio si connette poi al Sole, simbolo della mascolinità e della linea di discendenza maschile. Il Sole scaccia la luna; la civiltà umana si stabilisce e prospera sotto la sua luce, e non al chiarore dell’astro notturno.
La Grande Dea, quindi, non è morta: semplicemente, vive di notte, vive sotto la terra, pronta a tornare a reclamare l’universo.
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Il Mutterecht (parola in realtà mai usata direttamente dal Bachofen, che preferiva Frauenherrschaft) o «diritto materno», fu pubblicato nel 1861. In Italia ne esistono diverse edizioni, la maggior parte parziali, perché solo l’Einaudi se l’è sentita di stampare le più di 1200 pagine in due volumi, qualcosa che il traduttore Furio Jesi definì «opera dagli infiniti recessi», con «proporzioni ipertrofiche, maniacali, raggiunte da alcuni temi».
Le teorie di Bachofen, che tendevano a considerare i miti come fatti storici, o come rispecchiamenti letterali di dinamiche sociale reali, furono dapprima aborrite dagli studiosi dell’epoca, che tentarono di guardare al personaggio come al classico principiante con troppi mezzi, un po’ come, immaginiamo, cercarono di fare con Heinrich Schliemann e la sua pretesa di trovare per davvero i resti della città di Troia.
Più tardi invece il pensiero di Bachofen trovò pubblici, fra loro diversissimi, pronti ad ascoltare e ad agire politicamente l’idea del matriarcato. Il Mutterrecht affascinò il filosofo conservatore Ludwig Klages come lo scrittore esoterico-tradizionalista Julius Evola, considerato il maitre à penser del neofascismo italiano. Anche la sinistra si abbeverò al pensiero del matriarcato, il particolare lo studioso suicida Walter Benjamin e, decenni prima, il socio di Karl Marx, Friedrich Engels (che parlò di «schiavitù domestica della donna»). La prima ondata della psicanalisi (Freud, Jung soprattutto) si dimostrò interessata, così come la seconda (Wilhelm Reich, Eric Fromm e Erich Von Neumann, che studiò direttamente il tema della Grande Madre).
Non sorprende che ad interessarsi della teoria del matriarcato siano state le femministe. Se Bachofen è stato tradotto in inglese si deve allo sforzo, fatto a fine degli anni Sessanta, di gruppi femministi statunitensi. Si può andare perfino oltre: chi scrive decenni fa ha intravisto a Londra come le idee di Bachofen circolassero in circoli omosessuali di carattere para-esoterico, ossia di quelli che non dissimulano il loro disprezzo (cioè, la loro totale paura) della donna.
Una quantità di persone, di tutte le risme, sognano il ritorno della Dea. È un richiamo interiore, o forse, più concretamente è l’orizzonte che si pone loro innanzi nel momento in cui si innesta il desiderio della distruzione del mondo, la voglia di «bruciare tutto».
Chi vuole cambiare e riprogrammare il mondo, può realizzare che non si tratta di sovvertire, ma di invertire. Laddove è il Sole, far vincere la Luna. Laddove il giorno, la tenebra. Laddove l’idea, l’emozione. Laddove lo spirito, la materia. Laddove la legge, la natura. Laddove l’ordine, il caos. Laddove il diritto, la crudeltà.
Ecco, possiamo spiegarci i simboli ctoni che sono rimbalzati anche in questa storia: quando dicono che vogliono far finire il patriarcato, vogliono intendere, consapevoli o meno, il parricidio finale, ossia l’uccisione del padre in senso teologico – cioè, l’uccisione di Dio. Capite da dove vengono in pentacoli e i simboli satanici?
Un mondo libero dal padre, è un mondo sprotetto: pensate alle famiglie, magari a quelle in cui manca grandemente la figura paterna, e realizzate di cosa stiamo parlando. Una famiglia senza padre espone i figli ai predatori: bisogna essere tanto in malafede per non ammetterlo.
Allo stesso mondo, un universo privo di Dio padre, quali predatori vede avvicinarsi ai suoi figli? Ancora, rimbalzano nella mente le teste di caprone, le stelle a cinque punte – le stesse, sì, che si vedono in certe logge massoniche, le stesse delle bandiere dei Paesi comunisti, le stesse del drappo degli Stati Uniti, le stesse dei valori bollati e dei passaporti della Repubblica Italiana….
L’impulso al ritorno del matriarcato potrebbe quindi essere più radicato, più complesso, più antico del previsto. Non viene dagli slogan femminista buono per le ragazzine che vivono sui social, viene da un progetto cosmico e preternaturale.
È difficile: il matriarcato porta seco un blocco di materia oscura non ancora digeribile per tutti. Ma ci stanno lavorando, il culto, pare ci vogliano dire, ha ufficialmente già le sue martiri.
Il mitologo Robert Graves (1895-1985), che tanto si dedicò al tema della Dea Madre, in una intervista con Malcolm Muggeridge profetizzò che il matriarcato sarebbe tornato entro il XX secolo. Potrebbe non aver sbagliato di molto.
La Grande Dea è pronta a ritornare. Per divorare il Sole, e tutti noi, per farci vivere una nuova era di tenebra.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Gm.mairo via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
Pensiero
Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri
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Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
Il presidente americano ha ancora una volta dimostrato la sua capacità di creare scherzi che tuttavia celano significati concreti – e talvolta enormi.
L’ultima trovata è stata la cerimonia della «grazia al tacchino», un frusto rito della Casa Bianca introdotto nel 1989 ai tempi in cui vi risiedeva Bush senior. Il tacchino, come noto, è l’alimento principe del giorno del Ringraziamento, probabilmente la più sentita ricorrenza civile degli americani, che celebra il momento in cui i Padri Pellegrini, utopisti protestanti, furono salvati dai pellerossa che indicarono ai migranti luterani come a quelli latitudini fosse meglio coltivare il granturco ed allevare i tacchini. Al ringraziamento degli indiani indigeni seguì poco dopo il massacro, però questa è un’altra storia.
Fatto sta che il tacchino, creatura visivamente ripugnante per i suoi modi sgraziati e le sue incomprensibili protuberanze carnose, diventa un simbolo nazionale americano, forse persino più importante dell’aquila della testa bianca, perché il rapace non raccoglie tutte le famiglie a cena in una magica notte d’inverno, il tacchino sì. Tant’è che ai due fortunati uccelli di quest’anno, Gobble e Waddle (nomi scelti online dal popolo statunitense, è stata fatta trascorrere una notte nel lussuosissimo albergo di Washington Willard InterContinental.
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax
— The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Da più di un quarto di secolo, quindi, eccoti che qualcuno vicino alla stanza dei bottoni si inventa che il commander in chief appaia nel giardino delle rose antistante la residenza e, a favore di fotografi, impartista una grazia al tacchino, salvandolo teoricamente dal finire sulla tavola – in realtà ci finisce comunque suo fratello, o lui stesso, ma tanto basta. Non sono mancati i momenti grotteschi, come quando il bipede piumato, dinanzi a schiere di alti funzionari dello stato e giornalisti, ha scagazzato ex abrupto e ad abundantiam lasciando puteolenti strisce bianche alla Casa Bianca.
Non si capisce cosa esattamente questo rituale rappresenti, se non la ridicolizzazione del potere del presidente di comminare grazie per i reati federali, tema, come sappiamo quanto mai importante in quest’ultimo anno alla Casa Bianca, visti le inedite «grazie preventive» date al figlio corrotto di Biden Hunter, al plenipotenziario pandemico Anthony Fauci, al generale (da alcuni ritenuto golpista de facto) Mark Milley. Sull’autenticità delle firme presidenziali bideniane non solo c’è dibattito, ma l’ipostatizzazione del problema nella galleria dei ritratti dei presidenti americani, dove la foto di Biden, considerato in istato di amenza da anni, è sostituita da un’immagine dell’auto-pen, uno strumento per automatizzare le firme forse a insaputa dello stesso presidente demente.
Ecco che Donaldo approffitta della cerimonia del pardon al tacchino per lanciare un messaggio preciso: appartentemente per ischerzo, ma con drammatico valore neanche tanto recondito.
Trump si mette a parlare di un’indagine approfondita condotta da Bondi e da una serie di dipartimenti su di « una situazione terribile causata da un uomo di nome Sleepy Joe Biden. L’anno scorso ha usato un’autopsia per concedere la grazia al tacchino».
«Ho il dovere ufficiale di stabilire, e ho stabilito, che le grazie ai tacchini dell’anno scorso sono totalmente invalide» ha proclamato il presidente. «I tacchini conosciuti come Peach and Blossom l’anno scorso sono stati localizzati e stavano per essere macellati, in altre parole, macellati. Ma ho interrotto quel viaggio e li ho ufficialmente graziati, e non saranno serviti per la cena del Ringraziamento. Li abbiamo salvati al momento giusto».
La gente ha iniziato a ridere. Testato il meccanismo, Trump ha continuato quindi ad usare i tacchini come veicoli di attacco politico.
«Quando ho visto le loro foto per la prima volta, ho pensato che avremmo dovuto mandargliele – beh, non dovrei dirlo – volevo chiamarli Chuck e Nancy», ha detto il presidente riguardo ai tacchini, facendo riferimento ai politici democratici Chuck Schumer e Nancy Pelosi. «Ma poi ho capito che non li avrei perdonati, non avrei mai perdonato quelle due persone. Non li avrei perdonati. Non mi importerebbe cosa mi dicesse Melania: ‘Tesoro, penso che sarebbe una cosa carina da fare’. Non lo farò, tesoro».
Dopo che il presidente ha annunciato che si tratta del primo tacchino MAHA (con tanto di certificazione del segretario alla Salute Robert Kennedy jr.), l’uso politico del pennuto è andato molto oltre, nell’ambito dell’immigrazione e del terrorismo: «invece di dar loro la grazia, alcuni dei miei collaboratori più entusiasti stavano già preparando le carte per spedire Gobble e Waddle direttamente al centro di detenzione per terroristi in El Salvador. E persino quegli uccelli non vogliono stare lì. Sapete cosa intendo».
Tutto bellissimo, come sempre con Trump. Il quale certamente non sa che l’uso del tacchino espiatorio non solo non è nuovo, ma ha persino una sua festa, in Alta Italia.
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Parliamo dell’antica Giostra del Pitu (vocabolo piementose per il pennuto) presso Tonco, in provincia di Asti. La ricorrenza deriverebbe da usanze apotropaiche contadine, dove, per assicurarsi il favore celeste al raccolto, il popolo scaricava tutte le colpe dei mali che affligevano la società su un tacchino, che rappresentava tacitamente il feudatario locale. Secondo la leggenda, questi era perfettamente a conoscenza della neanche tanto segreta identificazione del tacchino con il potere, e lasciava fare, consapevole dello strumento catartico che andava caricandosi.
Tale mirabile festa piemontese va vanti ancora oggi, anticipata da un corteo storico che riproduce la visita dei nobili a Gerardo da Tonco, figura reale del luogo e fondatore dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni in Gerusalemme, poi divenuto Sovrano Militare Ordine di Malta.
Subito dopo il gruppo che accompagna Gerardo avanza il carro su cui troneggia il tacchino vivo, autentico protagonista della celebrazione. Seguono quindi i giudici e i carri delle varie contrade del paese, che mettono in scena, con grande realismo, momenti di vita contadina tradizionale. Il passaggio del tacchino è tra ali di folla che non esitano ad insultare duramente il pennuto sacrificale.
Il clou dell’evento è il cosiddetto processo al Pitu, arricchito da un vivace botta-e-risposta in dialetto piemontese tra l’accusa pubblica e lo stesso Pitu, il quale tenta inutilmente di difendersi. Dopo la inevitabile condanna, il Pitu chiede come ultima volontà di fare testamento in pubblico, dando vita a un nuovo momento di ilarità.
Durante la lettura del testamento, infatti, egli si vendica della sentenza rivelando, sempre in stretto dialetto, vizi grandi e piccoli dei notabili e dei personaggi più in vista della comunità. Fino al 2009, al termine del testamento, un secondo tacchino (già macellato e acquistato regolarmente in macelleria, quindi comunque destinato alla tavola) veniva appeso a testa in giù al centro della piazza. Dal 2015, purtroppo, il tacchino è stato sostituito da un pupazzo di stoffa, così gli animalisti sono felici, ma il tacchino in zona probabilmente lo si mangia lo stesso.
Ci sarebbe qui da lanciarsi in riflessioni abissali sulla meccanica del capro espiatorio di Réné Girard, ma con evidenza siamo già oltre, siamo appunto al tacchino espiatorio.
Il tacchino espiatorio diviene il dispositivo con cui è possibile, se non purificare, esorcizzare, quantomeno dire dei mali del mondo.
Ci risulta a questo punto impossibile resistere. Renovatio 21, sperando in una qualche abreazione collettiva, procede ad accusare l’infame, idegno, malefico tacchino, che gravemente nuoce a noi, al nostro corpo, alla nostra anima, al futuro dei nostri figli.
Noi accusiamo il tacchino di rapire, o lasciare che si rapiscano, i bambini che stanno felici nelle loro famiglie.
Noi accusiamo il tacchino di aver messo il popolo a rischio di una guerra termonucleare globale.
Noi accusiamo il tacchino di praticare una fiscalità che pura rapina, che costituisce uno sfruttamento, dicevano una volta i papi, grida vendetta al cielo.
Noi accusiamo il tacchino di essere incompetente e corrotto, di favorire i potenti e schiacciare i deboli. Noi accusiamo il tacchino di essere mediocre, e per questo di non meritare alcun potere.
Noi accusiamo il tacchino di aver accettato, se non programmato, l’invasione sistematica della Nazione da parte di masse barbare e criminali, fatte entrare con il chiaro risultato della dissoluzione del tessuto sociale.
Noi accusiamo il tacchino di favorire gli invasori e perseguitare gli onesti cittadini contribuenti.
Noi accusiamo il tacchino di aver degradato la religione divina, di aver permesso la bestemmia, la dissoluzione della fede. Noi accusiamo il tacchino di essere, che esso lo sappia o meno, alleato di Satana.
Noi accusiamo il tacchino di operare per la rovina dei costumi.
Noi accusiamo il tacchino per la distruzione dell’arte e della bellezza, e la sua sostituzione con bruttezza e degrado, con la disperazione estetica come via per la disperazione interiore.
Noi accusiamo il tacchino di essere un effetto superficiale, ed inevitabilmente tossico, di un plurisecolare progetto massonico di dominio dell’umanità.
Noi accusiamo per la strage dei bambini nel grembo materno, la strage dei vecchi da eutanatizzare, la strage di chi ha avuto un incidente e si ritrova squartato vivo dal sistema dei predatori di organi.
Noi accusiamo il tacchino del programa di produzione di umanoidi in provetta, con l’eugenetica neohitlerista annessa.
Noi accusiamo il tacchino di voler alterare la biologia umana per via della siringa obbligatoria.
Noi accusiamo il tacchino di spacciare psicodroghe nelle farmacie, che non solo non colmano il vuoto creato dallo stesso tacchino nelle persone, ma pure le rendono violente e financo assassine.
Noi accusiamo il tacchino per l’introduzione della pornografia nelle scuole dei nostri bambini piccoli. Noi accusiamo il tacchino per la diffusione della pornografia tout court.
Noi accusiamo il tacchino per l’omotransessualizzazione, culto gnostico oramai annegato nello Stato, con i suoi riti mostruosi di mutilazione, castrazione, con le sue droghe steroidee sintetiche, con le sue follie onomastiche e istituzionali.
Noi accusiamo il tacchino di voler istituire un regime di biosorveglianza assoluta, rafforzato dalla follia totalitaria dell’euro digitale.
Noi accusiamo il tacchino, agente inarrestabile della Necrocultura, della devastazione inflitta al mondo che stiamo consegnando ai nostri figli.
Tacchino maledetto, i tuoi giorni sono contati. Sappi che ogni giorno della nostra vita è passato a costruire il momento in cui, tu, tacchino immondo, verrai punito.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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