Politica
Mario Monti vuole censura e propaganda: «un sistema che dosi dall’alto l’informazione, con metodi meno democratici»
«Bisogna trovare un sistema che dosi dall’alto la comunicazione, con metodi meno democratici».
Lo ha detto il senatore a vita Mario Monti, già premier per la prima, breve stagione di tecnocrazia del 2011 che fu preludio dell’era dei Draghi.
L’onorevole bocconiano, già Commissario Europeo, lo ha detto in una trasmissione TV de La 7.
Mario Monti a #inonda paragona #COVID19 alla GUERRA e si lagna del fatto che non si sia attuata anche una LIMITAZIONE AL DIRITTO DI PAROLA da porre sotto CONTROLLO del governo ISTRUITO dall’AUTORITÀ SCIENTIFICA
(Una dittatura.. anzi una gerontocrazia in mano allo scientismo) pic.twitter.com/gGYXCnA637— Valeria S. (@valy_s) November 27, 2021
«Da due anni con lo scoppio della pandemia abbiamo visto che il modo in cui è organizzato il nostro mondo è desueto, non serve più»
«Da due anni con lo scoppio della pandemia abbiamo visto che il modo in cui è organizzato il nostro mondo è desueto, non serve più» ha dichiarato. La risposta a qualcosa che non va più, lo sappiamo bene, è un reset. Un Grande Reset. Ma il Monti, che nel 2013 aprì il World Economic Forum di Davos, non usa l’espressione. Pone solo la questione.
Il membro del Bilderberg se la prende quindi con un elemento in particolare: la comunicazione.
«Subito, quando è comparso il virus, abbiamo usato il termine guerra, ma non abbiamo usato una politica di comunicazione adatta alla guerra» ha detto il presidente della Bocconi, inconsapevole del fatto che la politica di comunicazione della guerra si chiama, in lingua italiana e non solo, «propaganda».
La comunicazione in stato di guerra è censura, menzogna, strategia falsa e crudele per tenere alto il morale del proprio popolo e fiaccare quello del nemico. Oggi forse si potrebbe porre solo il secondo caso: alcuni dicono oggi che il nemico delle élite è il loro stesso popolo… Ma non divaghiamo.
La cosa più strabiliante tuttavia è che una comunicazione affine alla propaganda bellica in questo biennio pandemico si è vista, eccome. La negazione di qualsiasi contradditorio, la censura di notizie contrarie all’interesse di Stato, la creazione di successivi capri espiatori (i runner, i giovani della movida, i no vax) risponde bene a forme di comunicazione politica degli anni Trenta e primi Quaranta.
Monti tuttavia non sembra averci pensato. Lui vorrebbe militarizzare la comunicazione come, del resto, è stata militarizzata (letteralmente) la campagna di vaccinazione, affidata al Generale Figliuolo.
Lui vorrebbe un diverso schema che contenga, diciamo così, la libertà di espressione.
«Io credo che bisognerà trovare un sistema che dosi dall’alto l’informazione, con metodi meno democratici»
«Io credo che bisognerà trovare un sistema che dosi dall’alto l’informazione, con metodi meno democratici». Testuale.
Nel senso, lo ha detto sul serio. Del resto è quello che non è che si è tirato indietro quando c’era da dire che l’Europa ha bisogno della crisi economica così da fare cedere alle popolazioni riluttanti ulteriori residui di sovranità nazionali rimasti loro.
Amarcord 2011.
In studio la conduttrice Concita De Gregorio osa chiedergli chi dovrà quindi stabilire quale dose di notizie debba essere trasmessa.
Ovvio: «il governo, ispirato, nutrito e istruito dalla autorità sanitarie». Cioè, una junta di politici e virologi, pronti a vagliare su quello che una testata giornalista, un sito, un profilo social media di utente singolo possono avere in cuore di dire.
«Noi ci siamo abituati alla possibilità incondizionata di dire qualsiasi verità o qualsiasi sciocchezza sui media»
Anche qui, a Monti deve essere sfuggito che in realtà in larga parte è già così. Qui a Renovatio 21 ne sappiamo qualcosa, e la questione era iniziata da ben prima della pandemia. Bastava occuparsi di certe cose, o anche solo accennarne, per esempio la possibile correlazione tra autismo e vaccini, e puf ti si materializzava un ente partner di Microsoft a interrogarti e schedarti. Gli stessi, mesi dopo, ti mettevano in una lista di diffusori di fake news per aver riportato la tesi della fuga dal laboratorio del virus, argomento che ti cagionava immediatamente la censura più draconiana sui social media. In molteplici occasioni.
Ma torniamo al bocconico-bilderberghiano a vita e alle sue sorprendenti, liberatorie ultime dichiarazioni TV.
«Noi ci siamo abituati alla possibilità incondizionata di dire qualsiasi verità o qualsiasi sciocchezza sui media».
Tale possibilità, vorremmo ricordare al Mario, si chiama articolo 21 della Costituzione Italiana. Potrebbe consultarla sul sito dell’istituzione che gli pagherà, con il nostro danaro, un emolumento finché campa – il Senato.
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure» Costituzione Italiana, art. 21
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».
Che volete farci, la Costituzione è per Monti divenuta come il suo partito, Scelta Civica: cioè, biodegradabile.
Quanti ricordi: Scelta Civica il partitone con cui nel 2013 voleva vincere le elezioni, dopo essere atterrato dall’alto (concetto che torna, nella sua vita) nel 2011 in una spirale infinita di eventi pazzeschi… la detronizzazione di Berlusconi (prodromo materiale della fine della democrazia rappresentativa in Italia), la morte di Gheddafi (e il conseguente Tsunami migratorio), lo spread (arma geopolitica tedesca che liquidava i nostri residui di sovranità politica ed economica anche sotto il tendone dell’Euro)…
Il tutto avveniva, enigmaticamente, nei giorni in cui il Monti veniva creato senatore a Vita dal presidente Giorgio Napolitano, mentre la Francia (quella con cui adesso si fanno misteriosi trattati in Quirinale) disintegrava i nostri interessi in Libia con l’aiuto di britannici e americani.
Scelta Civica non prese oltre il 10%: una cifra mostruosa per molti partiti, ma per il veicolo parlamentare del leader una percentuale inaccettabile. Tutti abbandonarono la barca, alcuni rivendicando tutto lo stipendio, alcuni riagglutinandosi magari nel Partito Democratico, alcuni sparendo nel niente come grillini qualsiasi. Scelta Civica era già stata ribattezzata su Dagospia «Sciolta Civica». Un partito biodegradabile, uno dei tanti che ci hanno fatto votare (ma ce ne sono tanti anche che, pur stando in Parlamento, non ci hanno fatto votare).
Vogliamo ricordare, così en passant, che alla confezione del Monti politico partecipò attivamente anche la Chiesa italiana dell’ultima era Ratzinger. A Todi, i «cattolici adulti» fecero un convegno e lo incoronarono. Lui ricambiò mettendo in lista vari personaggi dell’establishment dell’8 per mille.
Nel partito di Monti, come nel suo governo, i «cattolici» di sistema si affiancavano ad altri personaggi chiacchierati per eventuale affiliazione massonica. Sulla carta, una mistura infallibile, che copre tutto lo spettro di potere dell’Italia profonda. Nella realtà, il niente.
Quindi, eccoci di nuovo a incontrare la figura del Mario Monti.
Al quale, vogliamo ricordarlo, in campagna elettorale 2013 fu affidato un cagnolino. Era una trovata di una giornalista TV per contrastare il suo principale avversario, Silvio Berlusconi, che con Dudù e i beagle animalisti faceva sfracelli.
La presentatrice, che voleva umanizzare il tecno-premier, glielo mise in braccio. Lui farfugliò: «questo è un vile ricatto», poi tentò di spiegare perché lo si poteva trovare «empaticamente freddo» all’idea dell’adozione di un cagnolino. Il cagnolino venne ribattezzato quindi «Empy». Monti più tardi rivelò pubblicamente di essere contrariato dall’operazione.
Ad oggi non si sa che fine abbia fatto Empy. Per una volta, ci uniamo ad una richiesta dell’onorevole Brambilla, che aveva domandato che fine aveva fatto il maltese.
Monti ce ne dia comunicazione, anche dall’alto. Nessuno di lui lo censurerà.
Immagine di Niccolò Caranti via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0); immagine tagliata.
Politica
I detenuti minacciano Sarkozy e giurano vendetta vera per Gheddafi
Un video girato con un cellulare nella prigione parigina La Santé sembra mostrare che i detenuti hanno minacciato l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy di vendicare la morte del defunto leader libico Muammar Gheddafi.
Sarkozy, 70 anni, ha iniziato a scontare la sua condanna a cinque anni martedì, dopo che un tribunale di Parigi lo ha dichiarato colpevole di associazione a delinquere finalizzata a finanziare la sua campagna presidenziale del 2007 con denaro di Gheddafi, contro il quale in seguito guidò un’operazione di cambio di regime sostenuta dalla NATO che distrusse la Libia e portò alla morte di Gheddafi.
Martedì hanno iniziato a circolare video ripresi da La Sante, in cui presunti detenuti minacciavano e insultavano Sarkozy, che sta scontando la sua pena nell’ala di isolamento del carcere.
«Vendicheremo Gheddafi! Sappiamo tutto, Sarko! Restituisci i miliardi di dollari!», ha gridato un uomo in un video pubblicato sui social media. «È tutto solo nella sua cella. È appena arrivato… se la passerà brutta».
A viral video shows a prisoner confronting Nicolas Sarkozy, saying, “We’ll avenge Gaddafi. Give back the billions.” The former French president, jailed for conspiracy, is accused of taking Libyan money before leading NATO’s 2011 war that killed Gaddafi. pic.twitter.com/KlAISnFVSX
— comra (@comrawire) October 22, 2025
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Il ministro degli Interni francese Laurent Nunez ha sottolineato che, a causa del pericolo, due agenti di polizia della scorta di sicurezza assegnata agli ex presidenti saranno di stanza in modo permanente nelle celle adiacenti a quella di Sarkozy.
«L’ex presidente della Repubblica ha diritto alla protezione in virtù del suo status. È evidente che sussiste una minaccia nei suoi confronti, e questa protezione viene mantenuta durante la sua detenzione», ha dichiarato Nunez mercoledì alla radio Europe 1.
Sarkozy, che ha guidato la Francia tra il 2007 e il 2012, ha negato tutte le accuse a suo carico, sostenendo che siano di matrice politica. Il suo team legale ha presentato una richiesta di scarcerazione anticipata, in attesa del procedimento di appello.
L’inchiesta su Sarkozy è iniziata nel 2013, in seguito alle affermazioni del figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, secondo cui suo padre aveva fornito alla campagna dell’ex presidente circa 50 milioni di euro.
A dicembre 2024, la Corte Suprema francese ha confermato una condanna del 2021 per corruzione e traffico di influenze, imponendo a Sarkozy un dispositivo elettronico per un anno. È stato anche condannato per finanziamento illecito della campagna per la rielezione fallita del 2012, scontando la pena agli arresti domiciliari.
Nel 2011, Sarkozy ha avuto un ruolo di primo piano nell’intervento della coalizione NATO che ha portato alla cacciata e alla morte di Gheddafi, facendo sprofondare la Libia in un caos dal quale non si è più risollevata.
Come riportato da Renovatio 21, all’inizio del 2025 gli era stata revocata la Legion d’Onore. In Italia alcuni hanno scherzato dicendo che ora «Sarkozy non ride più», un diretto riferimento a quando una sua risata fatta con sguardo complice ad Angela Merkel precedette le dimissioni del premier Silvio Berlusconi nel 2011 e l’installazione in Italia (sotto la ridicola minaccia dello «spread») dell’eurotecnocrate bocconiano Mario Monti.
Nell’affaire Gheddafi finì accusata di «falsificazione di testimonianze» e «associazione a delinquere allo scopo di preparare una frode processuale e corruzione del personale giudiziario» anche la moglie del Sarkozy, l’algida ex modella torinese Carla Bruni, la quale, presentatole il presidente dall’amico comune Jacques Séguela (pubblicitario autore delle campagne di Mitterand e Eltsin) secondo la leggenda avrebbe confidato «voglio un uomo dotato della bomba atomica».
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Politica
Il Giappone elegge una donna conservatrice come primo ministro
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Politica
Elezioni in Bolivia, il Paese si sposta a destra
Domenica si è svolto in Bolivia il ballottaggio per le elezioni presidenziali, che ha visto contrapporsi due candidati di destra: il senatore centrista Rodrigo Paz Pereira e l’ex presidente conservatore Jorge Quiroga.
I risultati preliminari indicano che Paz ha ottenuto il 54,6% dei voti, mentre Quiroga si è fermato al 45,4%. Sebbene sia prevista un’analisi manuale delle schede, è improbabile che il risultato definitivo differisca significativamente dal conteggio iniziale, basato sul 97% delle schede scrutinate.
Le elezioni segnano la fine del ventennale dominio del partito di sinistra Movimiento al Socialismo (MAS), che ha subito una pesante sconfitta nelle elezioni di fine agosto. Il presidente uscente Luis Arce – che ha recentemente accusato gli USA di controllare l’America latina sotto la maschera della «guerra alla droga» – non si è ricandidato, e il candidato del MAS, il ministro degli Interni Eduardo del Castillo, ha raccolto solo il 3,16% dei voti, superando di poco la soglia necessaria per mantenere lo status legale del partito.
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Nel primo turno, la destra ha dominato: Paz ha ottenuto il 32,1% dei voti e Quiroga il 26,8%. Il magnate di centro-destra Samuel Doria Medina, a lungo favorito nei sondaggi, si è classificato terzo con il 19,9% e ha subito appoggiato Paz per il ballottaggio.
Entrambi i candidati hanno basato la loro campagna sullo smantellamento dell’eredità del MAS, differendo però nei metodi. Paz ha promesso riforme graduali, mentre Quiroga ha sostenuto cambiamenti rapidi, proponendo severe misure di austerità per affrontare la crisi.
Il MAS non si è mai ripreso dai disordini del 2019, quando l’ex presidente Evo Morales fu deposto da un colpo di Stato subito dopo aver ottenuto un controverso quarto mandato. In precedenza, Morales aveva perso di misura un referendum per modificare la norma costituzionale che limita a due i mandati presidenziali e vicepresidenziali. Più di recente, Morales ha accusato tentativi di assassinarlo ed è entrato in sciopero della fame, mentre i suoi sostenitori hanno dato vita ad una ribellione. Il Morales, recentemente accusato anche di stupro (accuse che lui definisce «politiche»), in una lunga intervista aveva detto che dietro il suo rovesciamento nel 2019 vi erano «la politica dell’impero, la cultura della morte» degli angloamericani.
Il colpo di Stato portò al potere la politica di destra Jeanine Áñez, seconda vicepresidente del Senato. Tuttavia, il MAS riconquistò terreno nelle elezioni anticipate dell’ottobre 2020, mentre Áñez fu incarcerata per i crimini commessi durante la repressione delle proteste seguite al golpe.
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Il passaggio storico è stato definito da alcuni come la prima «guerra del litio», essendo il Paese ricco, come gli altri Stati limitrofi, della sostanza che rende possibile la tecnologia di computer, telefonini ed auto elettriche.
Come riportato da Renovatio 21, un tentato colpo di Stato vi fu anche l’anno scorso quando la polizia militare e veicoli blindati hanno circondato il palazzo del governo nella capitale La Paz.
Sotto il presidente Arce la Bolivia si era avvicinata ai BRICS e aveva iniziato a commerciare in yuan allontanandosi dal dollaro.
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