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Storia

Maradona, la verità

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«Children, fools, and drunkards tell the truth» dice il proverbio inglese. «I bambini, gli sciocchi e gli ubriachi dicono la verità». Maradona è probabilmente stato tutte e tre le cose, se consideriamo per ubriachezza l’effetto della droga nasale e se anche a voi il suo corpo minuto, con le gambette e poco collo, sembrava quello di un bambino.

 

Certo, un bambino d’oro, un «bambino-idolo», direbbe qualche psicanalista: un essere adorato da chi gli sta intorno nonostante i suoi capricci malvagi. Ma non dell’infantilismo del personaggio – e del suo potere di rendere tutti noi i suoi genitori permissivi – che dobbiamo qui parlare.

 

Un «bambino-idolo», direbbe qualche psicanalista: un essere adorato da chi gli sta intorno nonostante i suoi capricci malvagi

Ci preme qui ammettere che Diego Armando Maradona è stato, più o meno involontariamente, una creatura della verità. Non è cosa da poco per qualcuno che ha vissuto il XX e il XXI secolo – cioè il Kali Yuga, l’era quaternaria infame in cui gli uomini non dicono più il vero – soprattutto perché el Diego lo ha fatto su ogni livello immaginabile.

 

Per prima cosa, voglio dire una cosa vera io: Diego Maradona non mi è mai piaciuto. Sono stato un bambino, ragazzo, uomo dell’Alta Italia, è difficile  trovare qualche mio conterraneo che ami alla follia questa icona partenopea. Appunto, per anni, il mio convincimento infantile è stato che Maradona fosse napoletano, poi avrei capito che il fenomeno è ben più profondo, è regale: Maradona è Napoli, così come il Re di Francia poteva dire l’État c’est moi.

 

Una prima, grande verità è questa: pure nell’evo del disincanto e della finta democrazia, è ancora possibile un’identificazione popolare totale come quella che l’argentino ha offerto ai napoletani. Un fenomeno cittadino, persistente quanto lo può essere un culto di un Santo, tant’è vero che i maestri del presepe di San Gregorio degli Armeni da decenni non fanno mancare la statuetta di Maradona nelle loro vetrine. Questo sentimento popolare, nato con probabilità da meccaniche divine, non ha eguali da nessuna parte, nemmeno nella Roma che circondava con centinaia di persone urlanti («tòccame, cabidàno!») le pizzerie in cui si infilava sperando di farla franca Francesco Totti.

Ammettiamo che Diego Armando Maradona è stato, più o meno involontariamente, una creatura della verità

 

 

A cavallo dei millenni dal «DASPO SPQR» alla Camorra

No, Maradona ci ha regalato anche questa verità millenaria: il tifo definisce una città più di qualsiasi altra cosa, soprattutto delle leggi e dell’identità dei poteri dominanti. I napoletani lo sanno sin da quando il Vesuvio pietrificò i pompeiani: nel 59 a.C. Pompei, neanche vent’anni prima del cataclisma,  aveva come unico grande problema civile il fatto che l’imperatore Nerone, per mezzo del Senato, decretò la squalifica del campo per 10 anni a seguito degli scontri tra tifoserie dopo il derby gladiatorio tra il Pompeii e il Nocera.

 

«Dapprima si scambiarono insulti e volgarità con l’insolenza propria dei provinciali, poi passarono alle sassate e alla fine ricorsero alle armi. I tifosi di Pompei, più numerosi dato che lo spettacolo si svolgeva a casa loro, ebbero la meglio. Molti uomini di Nocera furono riportati a casa feriti e mutilati, e non pochi piansero la morte di un figlio o di un genitore», scrive Tacito negli Annales (XIV, 1). Quindi, DASPO SPQR per tutti?

 

Da Pompei a Napoli: quale verità diacronica il pibe ha indovinato, e cavalcato:  il giocatore ha il cuore del popolo, quindi ha controllo sulla città

Maddeché. Vedendo che il popolo non poteva vivere senza i suoi giuochi, il Senato ridusse la pena da 10 a 2 anni. Ora potete capire meglio quale verità diacronica il pibe ha indovinato, e cavalcato:  il giocatore ha il cuore del popolo, quindi ha controllo sulla città.

 

È per questo che Maradona si è permesso di slatentizzare i rapporti con un altro elemento profondo e persistente nella storia di Napoli, la Camorra. Eccotelo nella foto, seduto in una vasca da bagno di marmo a forma di ostrica assieme ai fratelli della criminalità partenopea degli anni Ottanta. Il sorriso non è esattamente di circostanza.  Lui può permetterselo, perché anche quella è una verità a cui non si sfugge: ci sta dicendo, se stai a Napoli a quei livelli in qualche modo li incontri – verità ancora oggi indicibile, e chissà quanti insulti mi prenderò per averlo scritto.

 

Ma non pensiamo solo a Napoli, pensiamo, per esempio al Giappone. Maradona ha avuto modo di dire una verità imbarazzante anche su quel lontano Paese – il quale forse poi ha inviato in risposta da San Gennaro un suo cittadino con la maglia del Napoli  per dire «sono giapponese».

 

 

In Giappone con una battuta il Diego parlò di quella verità – la cedevolezza dell’Impero verso l’occidentalizzazione e l’impotenza militare dinanzi agli yankee– per cui ha fatto seppuku Yukio Mishima

Bombe atomiche e «Pelé gay»

Tokyo gli negò il visto di entrata ai mondiali nippocoreani del 2002.  Lui rispose «non ho mica ucciso qualcuno. Non potevano far passare proprio me da criminale, dopo aver permesso agli americani di giocare la Coppa, loro che hanno tirato la bomba atomica su Hiroshima». Forse il lettore non se ne rende conto, ma Diego qui parla di quella verità – la cedevolezza dell’Impero verso l’occidentalizzazione e l’impotenza militare dinanzi agli yankee– per cui ha fatto seppuku Yukio Mishima. Tanti estremisti di destra giapponesi, che il sabato improvvisano comizietti in giro per la città, sottoscrivono ogni virgola. Perché abbiamo gli americani in casa, visto che ci hanno nuclearizzato due città e cambiato radicalmente la nostra bella società tradizionale? Verità che il Diego può lanciare al mondo con indifferenza.

 

La verità su Pelè, fatto monumento e santo in vita. «avrei preferito (…) che si occupasse di Garrincha e non lo lasciasse morire nell’indigenza». Come noto, Garrincha morì di cirrosi epatica.  La questione fra i due storici fuoriclasse andò avanti: quando nel 2009 Pelè ebbe qualcosa da dire sui comportamenti non-esemplari fuori dal campo di gioco, Maradona rispose ai giornalisti :«Che volete che vi dica, Pelé ha perso la verginità con un uomo». E non era nemmeno la prima volta che Diego alludeva a questa storia, finita sui tabloid britannici, di «O Rei» quattordicenne con un uomo più grande, forse, scrive il Guardian nel 2000, il suo coach.

 

«Che volete che vi dica, Pelé ha perso la verginità con un uomo»

La FIFA? «Piuttosto che appartenere alla famiglia FIFA preferisco essere orfano»

 

Su Moggi: «con me è sempre stato un signore. Contro di lui non ho nulla di dire. Anzi, conservo un bel ricordo. Se ha delle colpe, sicuramente non saranno le uniche, le sue».

 

Chavez inchinato

La scena, davvero rivelatrice, in cui il compianto Chávez arringa al popolo in modo semplice e geometrico: «Que viva el pueblo! Que viva Maradona!»

Era già imbarazzante all’epoca, non oso immaginare ora, vedere il documentario di Emir Kusturica dedicato a Maradona. Sì, Emir Kusturica: il sostenitore di Milosevic finito – sinistra ebete e smemorata – ad essere un campione dell’industria culturale Repubblica/Feltrinelli col risultato di avere anni di Goran Bregovic tra le palle (ma poi giunse la vendetta via Elio: «La musica balcanica ci ha rotto i coglioni / è bella e tutto quanto ma alla lunga / rompe i coglioni»).

 

Il documentario su Maradona è un residuo dei tempi dei No Global e Porto Alegre, e infatti quella roba si vede tutta – balcanino+latinoamericano: incubo dei tormentoni radiofonici degli anni 2000! – compresa la scena, davvero rivelatrice, in cui il compianto Chávez arringa al popolo in modo semplice e geometrico: «Que viva el pueblo! Que viva Maradona!».

 

 

Proprio così: il popolo è Maradona. Chávez, che chissà se era stato a Napoli e chissà se aveva capito il capolavoro di volksgeist che aveva realizzato el pibe, ci era arrivato anche lui.

Il Popolo è Maradona, el Pueblo è el Diego.

Il Popolo è Maradona, el Pueblo è el Diego. La lotta popolare – quella socialista, comunista, terzomondista, comunque sudamericana – è Maradona.

 

Non crediate che fu un’illuminazione del solo caudillo venezuelano. Un amico che faceva il rappresentante di shampoo aveva una serie di aneddoti irresistibili sulle sue clienti, le parrucchiere, specie quelle di Paese. Una di queste al volgere dell’estate gli raccontò del suo viaggio a Cuba. Disse al mio amico di essere rimasta colpita dal fatto che su un palazzo avevano issato un’immane immagine di Maradona. Si dovette mostrare al ragazzo una foto perché egli realizzasse che si trattava del Museo de la Revolución in Plaza de la Revolución, dove campeggia gigantografato il volto di Che Guevara. Con evidenza, la coiffeuse considerava interscambiabile il Che con Maradona. Non una cosa da poco: donne, camorra, cocaina e Ferrari nera ma alla fine sia il Presidente della Republica Bolivarista de Venezuela che l’acconciatrice di provincia ti riconosce come Libertador, un eroe del popolo.

 

Altra verità: quel posto, forse a livello mondiale era stato lasciato vacante. Nessun politico, né Chávez né Castro né Lula né Morales né nessun presidente sudamericano poteva assurgere al ruolo, e gli stessi sedicenti eredi di Bolivar lo capivano. Lo sapeva? Sì, alla manifestazione di cui stiamo parlando, andò e dal pueblo el pibe fu acclamato.

 

Donne, camorra, cocaina e Ferrari nera ma alla fine sia il Presidente della Republica Bolivarista de Venezuela che l’acconciatrice di provincia ti riconosce come Libertador, un eroe del popolo

Epperò, sempre nel documentario del serbo, si rimane elettrizzati quando si scopre che Diego aveva pure un’altra lettura di verità assoluta nel cuore: la lotta contro la Juventus era in realtà una lotta contro gli Agnelli, e ogni goal nella porta bianconera era un colpo al sistema industriale settentrionale – in particolare, era fermo all’asse MiTo, Milano Torino – che schiacciava (simbolicamente, perché tenuti in piedi da operai immigrati) i meridionali.

 

 

Contro il Papato con Wanda Nara

Il Papato non è stato risparmiato dal bambino d’oro, e già nel 1985, quando era un fringuello. Con Giovanni Paolo II «si ci ho litigato perché sono stato in Vaticano, e ho visto i tetti d’oro, e dopo ho sentito il Papa dire che la Chiesa si preoccupava dei bambini poveri. Allora venditi il tetto, amigo, fai qualcosa!».

 

È con il conterraneo Bergoglio che il nostro diede il massimo – e non poteva essere altrimenti

Tuttavia è con il conterraneo Bergoglio che il nostro diede il massimo – e non poteva essere altrimenti. 1° settembre, il Vaticano appronta la «Partita interreligiosa per la Pace».  El pibe è invitato. Si profila un incontro etico, il Papa del Pallone con il Papa nel Pallone – ambedue argentini.  Abituato a planare nello stivale una volta l’anno per gabbare la RAI o chiunque gli stacchi un assegno a 5 zeri per una ospitata qualsiasi, Dieguito sarà stato sorpreso dal fatto che questa volta il suo giretto in Italia non lo ha dovuto fare per la Carrà o Biscardi, ma per il Papa.

 

Probabilmente, grazie al salvacondotto Vaticano, quella volta el Diego non ha nemmeno avuto noie con la Guardia di Finanza, che reclama da lui una cosa come 40 milioni di euro e si apposta per trollarlo già in aeroporto (memorabile quando gli sequestrarono un orecchino…).

 

L’incontro dei due è fotografato da ogni angolazione. Non risulta scatto della genuflessione del campione calcistico, e per fortuna nemmeno della genuflessione del campione ecclesiastico (cosa che, dopo i baciamani a popi e rabbini e gli inchini a masse varie, poteva pure capitare, anzi sarebbe stato perfino più legittimo che capitasse sul piede magico del Diego Armando).

 

Maradona, come sempre, smaschera tutti e fa vedere cosa è oggi un evento organizzato dalla chiesa cattolica: un porcaio

Sembrava più Maradona che riceve Bergoglio, che il contrario.  E Maradona, che è bene ricordare che ha ripudiato l’Italia finita la carriera, giocava pure fuoricasa.

 

Poi ecco la Partita ecumenica per la Pace, dove il campione scende in campo nel clamore in generale. In diretta, intervistato a bordo campo, Maradona più che degli sfollati siriani e le stragi ISIS, chiarisce che la cosa che lo tocca nel profondo è un’altra: «per me Icardi non doveva giocare». Ha rotto il codice d’onore dei calciatori, una volta questa cosa nel calcio non era nemmeno immaginabile, tuona el Diego. Mauro Icardi, apprendiamo, è un calciatore argentino che ha rubato la moglie ad un altro giocatore sudamericano, l’allora attaccante del Chievo Maxi López: la mitica Wanda Nara. La Nara in Argentina diviene famosa nel giro televisivo prima per aver dichiarato ripetutamente di essere vergine (per poi ammettere pubblicamente che si trattava di uno «scherzo») e poi per il rumor del rapporto con Maradona, che invece nega. Un altro rumor vuole che vi sia in giro un un sex-tape, cioè uno di quei video intimi che, purtroppo, finisce in rete, ma lei nega con decisione che sia autentico.

 

Capite: sarebbe in teoria lì per il messaggio geogoscista del Papa – la guerra, il terrorismo, le stragi, etc. etc. Lui appena parla ci dipinge in testa però un’altra storia: il triangolo tra la Nara, Icardi e Maxi López, anzi magari un quadrilatero se ci mettiamo dentro anche lui.  Maradona, come sempre, smaschera tutti e fa vedere cosa è oggi un evento organizzato dalla chiesa cattolica: un porcaio.

Dimostrò l’inesistenza de facto dell’Unità d’Italia

 

 

Maradona antirisorgimentale: dividere l’Italia in poco più di 90′

Vi è tuttavia un momento ancora più incredibile nella storia di Maradona. Egli, e fece tutto davvero da solo, dimostrò l’inesistenza de facto dell’Unità d’Italia.

 

È incredibile se ci pensate. Non ha dovuto creare partititelli regionali. Non ha dovuto minacciare le vallate della Bergamasca che stanno «oliando i kalashnikov». Non ha dovuto assaltare il campanile di San Marco con il tanko. Non ha dovuto sciorinare le glorie del Regno delle due Sicilia. Non ha dovuto scrivere libri per dire che i meridionali sono fantastici e perseguitati. Niente di tutto questo.

 

«Io voglio solo il rispetto dei napoletani (…) io e la mia nazionale sappiamo che il napoletano è italiano, solo che gli italiani devono capire che il napoletano è anche italiano». Seguirono, innegabili, i fischi del San Paolo durante l’inno di Mameli. Inaudito. Enorme. Disarmante. Grandioso.

Gli è bastato, quel giorno a Napoli dove al San Paolo si sarebbe disputata la semifinale Italia-Argentina ai nostri mondiali di Italia ’90, rivolgersi direttamente al popolo partenopeo, cioè a se stesso.  Si ebbe la risposta: i napoletani avrebbero tifato Maradona, non per Baggio e Schillaci, non per gli Azzurri. Sappiamo come andò a finire: l’Italia, grande favorita che giocava in casa, eliminata.

 

Poco prima della partita, disse alle TV: «io voglio solo il rispetto dei napoletani (…) io e la mia nazionale sappiamo che il napoletano è italiano, solo che gli italiani devono capire che il napoletano è anche italiano». Seguirono, innegabili, i fischi del San Paolo durante l’inno di Mameli. Inaudito. Enorme. Disarmante. Grandioso.

 

Ovviamente è partita la smentita storica, è un falso assoluto, una fake news persistente, quella dei napoletani che tifarono per il Diego e non per il Paese occupante – l’Italia. Per fortuna, esiste qualcuno che invece ha il coraggio di scriverlo ancora oggi, magari addolcendo la posizione: «Io, napoletano, ho tifato Maradona, non per l’Argentina né contro l’Italia». Il succo non cambia: se Maradona è più forte della Patria italiana, ma che cos’è la Patria italiana?

 

Mazzini e Garibaldi travolti dal pibe: ma quale Italia «una e indivisibile». A Maradona sono bastati poco più di  90′ per dividere l’Italia

Voi capite, dopo un’impresa come questa, il Risorgimento è spazzato via in ogni sua possibile retorica. Tutte le paginette imparate a scuola, tutta la propaganda dei giornali (ricordate, gli sputi  ideologici dei giornaloni verso la Lega fino a pochi anni fa?) sono state bruciate in una sola partita. Mazzini e Garibaldi travolti dal pibe: ma quale Italia «una e indivisibile». A Maradona sono bastati poco più di  90′ per dividere l’Italia.  Cavour, spostati. E anche tu, Bossi.

 

 

Il bambino del Re nudo

Quello che rappresentava Maradona mi fa schifo, anche se ora che è morto posso tranquillamente fare due conti e accodarmi anche io al gregge: sì, era il più grande calciatore di tutti i tempi, perché mi ricordo ancora quella palla incredibile che passò a Caniggia – ancora oggi cantata nel coro immortale dei tifosi argentini «Brasil decime que se siente...», dove si ricorda peraltro che «Maradona es màs grande que Pelé...»

 

Mi ha fatto impressione, sempre nel documentario di Kusturica, vederlo in Argentina esibirsi in un locale a cantare una canzone su stesso. Grottesco, patetico, una scena di un narcisismo senza confini.

 

 

Mi dava il vomito quando il calciatore dissoluto miliardario andava a Cuba da Castro – adorare il bambino d’oro è umano, è un fenomeno che non conosce cortina di ferro.  E ricordo, da qualche parte nei decenni, in una intervista alterata si rivolse a Shilton – il portiere inglese di Messico ’86 – per dire che sì, il gol della Mano de Dios era fatto proprio con quella mano, che in quel momento mostrava il dito medio.

 

E chi si è dimenticata la cavalcata verso le telecamere fatta a USA ’94, con gli occhi fuori dalle orbite che più che di aerospazio parlavano di qualcos’altro? E i bambini seminati in giro? (A proposito: quello che gli somigliava come una goccia d’acqua che giocava a pallone, che fine ha fatto?)

 

E vabbè, l’importante qui è altro: è che c’è stato un uomo in grado di diventare l’incarnazione di un intero popolo, di sfanculare chiunque, e vivendo come gli pare, di dividere l’Italia in pochi minuti. Un campione vero, e dello sport qui non ci frega niente.

Per dire che il Re è nudo ci vuole un bambino

 

Ci importano le tante volte in cui el pibe, il bambino, ha detto la verità – anche orrida, grottesca, ridicola – al mondo intero: per dire che il Re è nudo ci vuole infatti un bambino.

 

Incosciente, capriccioso. Non mi mancherà, anche se di tante cose, che non riguardano il calcio, dovremmo essergli grati.

 

Addio al «bambino pazzo e ubriaco» che tante volte ha detto, senza nemmeno volerlo, la verità.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

 

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Intelligence

Harvey contro Philby, storie di spie e lotte intestine agli albori della CIA

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L’FBI non riuscì ad aggiudicarsi il controllo dell’Intelligence americana nel dopoguerra ma non per questo John Edgar Hoover (1895-1972) si ritirò dalla competizione. Lo sforzo profuso da William Harvey (1915-1976) nell’estrarre delle prove soddisfacenti dalla spia sovietica Elizabeth Bentley (1908-1963) non diede i suoi frutti ma i successivi approfondimenti degli interrogatori misero in luce la reale penetrazione sovietica negli apparati statunitensi. 

 

Harvey lasciò l’FBI e poco dopo entrò nella CIA, secondo la versione formale ebbe a ridire con Hoover in seguito al fiasco del caso Bentley. La versione di Joseph J. Trento nel suo The Secret History of the CIA invece racconta come Harvey divenne la talpa di Hoover all’interno della CIA. Sia Hoover che Harvey erano convinti che i vecchi membri dell’OSS passati alla CIA avevano un passato che li rendeva vulnerabili all’essere reclutati come spie sovietiche. 

 

Kim Philby (1912-1988), britannico, uno dei più famosi agenti doppiogiochisti nella storia dello spionaggio, nella sua autobiografia descriveva le differenze tra gli uomini dell’FBI e della CIA: «gli uomini dell’FBI sono orgogliosi della loro ignoranza, di essere cresciuti nell’ordinarietà, bevono whiskey dissetandosi con la birra. Al contrario, gli uomini della CIA hanno un atteggiamento cosmopolita. Discutono sull’assenzio e servono un Borgogna appena sopra la temperatura ambiente. Non è solo una questione di frivolezza è una fondamentale spaccatura sociale tra le due organizzazioni».

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Harvey possedeva una tenacia che nessun altro aveva. Il vantaggio sui suoi colleghi era che lui stava combattendo contro un nemico al contrario degli altri. Per Harvey i servizi segreti sovietici dell’NKVD e in seguito il KGB i servizi segreti sovietici, erano criminali. Lui era un poliziotto e la sua visione del controspionaggio rimaneva quella del poliziotto. 

 

Bill Harvey era l’uomo giusto al momento giusto, proprio in quel momento la United States Army Security Agency, il precursore della NSA, National Security Agency, stava cominciando a decriptare un codice sovietico chiamato VENONA. Molti dei messaggi stavano confermando le dichiarazioni rilasciate dalla Bentley proprio ad Harvey. Il quadro che ne stava uscendo era che i Sovietici avevano spiato America e Inghilterra durante tutto il periodo bellico. 

 

Harvey era stato commissionato a seguire il nuovo ufficio dell’OSO, Office of Special Operation, chiamato «Staff C» e dedito al controspionaggio. Il suo nuovo ufficio si trovava non lontano dal Lincoln Memorial e il suo nuovo collega era l’ex agente dell’OSS, reclutato dall’ufficio di Roma, James Jesus Angleton (1917-1987). Nonostante le differenze tra classi sociali e interessi i due legarono immediatamente. 

 

Harvey era estremamente colpito dal lavoro di controspionaggio portato avanti da Angleton negli anni da agente dell’OSS ma la cosa che più affascinava e disturbava l’ex FBI era la sua strettissima relazione con la superspia Kim Philby. I loro incontri erano talmente abituali che si sentivano praticamente ogni giorno e i pranzi assieme avvenivano più volte a settimana. Philby a sua volta aveva stretti contatti anche con Allen Dulles e con il suo braccio destro, Frank Wisner, responsabile dei Clandestine Services

 

Nel 1949 quando il codice VENONA venne decriptato per la prima volta, Philby venne mandato dall’MI6 nella capitale americana per lavorare con la CIA sull’individuazione dei doppiogiochisti. In particolare il britannico avrebbe dovuto lavorare su HOMER, identificato come colpevole di aver sottratto informazioni dal progetto Manhattan a favore dei sovietici. Sia gli americani che gli inglesi erano convinti che fosse impiegato nell’ambasciata britannica a Washington. 

 

Harvey iniziò a sviluppare crescenti sospetti su Philby e sul suo compagno di università a Cambridge, Donald Maclean (1913-1983), di cui era fermamente convinto fosse HOMER. Cercò il supporto di Angleton e di chiunque altro avesse volontà ad ascoltare nella CIA ma senza incontrare alcun appoggio. Improvvisamente Maclean venne promosso all’ambasciata inglese del Cairo e sostituito con Guy Burgess (1911-1963), anche lui compagno d’università di Philby a Cambridge. 

 

I sospetti di Harvey crebbero sempre più, rendendosi conto che Philby aveva accesso al progetto VENONA e che contemporaneamente diverse operazioni clandestine non avevano portato i frutti sperati come in Albania, Lettonia, Lituania ed Estonia.

 

Philby nel frattempo aveva sposato una ragazza ebrea austriaca, comunista dichiarata, al suo matrimonio era presente anche Teddy Koellek futuro sindaco di Gerusalemme, che ammonì Angleton di rimuovere immediatamente Philby dalla sede della CIA. Ma Angleton, anche per non portare alla luce i suoi contatti con il Mossad, mantenne il riserbo sul loro scambio. 

 

Una sera durante una cena a casa di Philby, complice l’elevato tasso alcolico di Burgess, i rapporti con Harvey si ruppero definitivamente. Successivamente alla cena, precisamente dal venticinque maggio 1951, Guy Burgess e Donald Maclean scomparvero. Era l’inizio della loro personale odissea verso l’Unione Sovietica e non sarebbero riapparsi in superficie per almeno altri cinque anni. 

 

Il generale Smith, direttore della CIA in quel momento, pretese un documento scritto da chiunque avesse avuto rapporti personali con le talpe sovietiche. Bill Harvey dopo aver letto il resoconto di Angleton ci scrisse sopra: «qual’è il resto della storia?». I due ruppero i loro rapporto da quel momento in avanti, Harvey non riuscì a capire la posizione di Angleton, chiedendosi quale potesse essere il movente che avesse spinto il suo collega.

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La conclusione della storia scosse alle fondamenta le basi dell’intero sistema dell’intelligence inglese e americano. Il generale Smith ottenne che Philby venisse rimosso da Washington e contemporaneamente il controspionaggio inglese aprì un indagine su di lui. 

 

Per Harvey però non si poteva parlare di vittoria, come con il caso Bentley non c’erano abbastanza prove per un accusa definitiva. Sarebbe dovuto diventare un eroe a Langley ma invece venne sempre trattato con sospetto per aver accusato un membro del club. Il futuro della CIA non sarebbe stato lui ma Allen Dulles e Richard Helms che impersonificavano appieno lo spirito dell’agenzia.

 

«La gerarchia della CIA rimaneva immutata nel suo sistema inglese», disse William Corson, autore e colonnello della CIA in pensione, «amicizia, OSS e la rete dei vecchi commilitoni. Questo era esattamente il modo in cui Dulles misurava le persone». Philby rimaneva un membro del club, mentre Harvey non lo sarebbe mai potuto diventare. Nessuno lo voleva più nella sede centrale e proprio per questo Harvey accettò il trasferimento a Berlino, dove il generale Smith gli accordò il controllo totale dell’ufficio. 

 

La BBC pubblicò nel 2016 un video in cui Philby raccontava nel 1981 la sua esperienza a membri della Stasi. La spia descriveva la sua carriera come doppiogiochista di successo debitrice verso alcune variabili che gli vennero in aiuto.

 

La mitologica efficienza dell’MI6 era, durante la guerra, semplice propaganda, infatti potè ogni notte tornare a casa con i documenti segreti, fotografarli e consegnarli a corrieri sovietici senza mai incorrere in alcun ostacolo, sino a divenire a capo del dipartimento di controspionaggio con il compito di scovare spie sovietiche, libero dal rischio di accuse grazie all’appartenenza all’alta classe sociale inglese. Nessuno si sarebbe mai permesso di accusarlo con il rischio di venire distrutto da un terribile scandalo.

 

Marco Dolcetta Capuzzo

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; modificata

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Intelligence

Conflitti nell’Intelligence americana: la storia dell’OSS contro l’FBI e la creazione della CIA

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Con la fine della guerra e il profilarsi della futura suddivisione del pianeta in due mondi, la questione di chi avrebbe dovuto prendersi in carico la gestione dell’Intelligence nel dopoguerra prese il sopravvento negli alti piani dirigenziali americani. Nell’estate del 1947 la cosiddetta Red Scare, paura dei rossi comunisti, aveva preso piede negli States   Secondo Joseph J. Trento nel suo The Secret History of the CIA l’America si stava chiedendo quale fosse la direzione intrapresa dal governo a stelle e strisce. In Cina i Nazionalisti di Chiang Kai-shek, sostenuti dall’intelligence americana, stavano perdendo terreno a favore dei comunisti di Mao, i sovietici non dimostravano nessuna intenzione a lasciare la Germania ed era di pubblico dominio come Mosca fosse riuscita a sottrarre documenti segreti del Progetto Manhattan. Voci di corridoio dicevano che Hoover, direttore dell’FBI, non fosse contento.   J. Edgar Hoover fu uno degli uomini più potenti d’America per un lungo periodo di tempo. A ventiquattro anni nel 1919 gli venne assegnata la carica di capo della nuova General Intelligence Division del BOI (Bureau of Investigation), la cosiddetta Radical Division perché aveva come obiettivo principale quello di ricercare e distruggere le cellule di radicali presenti nell’intera repubblica federale nord-americana. Era entrato a far parte del BOI già nel 1921, nel 1924 ne era diventato il direttore.

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Nel 1935 il BOI divenne FBI e fino all’inizio della guerra rappresentò il più importante servizio di intelligence nel suolo americano. Famoso il suo lavoro sulla banca dati di impronte digitali e l’implementazione di laboratori per studiare le prove dei diversi casi. Notissimi anche i suoi rapporti con la malavita americana e i metodi affini alle sue frequentazioni sotterranee.   Con l’inizio della guerra, il capo della sezione dei servizi inglesi negli Stati Uniti, BSC (British Security Coordination), William Stephenson, aveva ricevuto l’ordine da Stewart Menzies, direttore del MI6, di connettersi al più alto livello possibile dei servizi americani, in quel momento rappresentati dall’FBI di Hoover.   La ricercatrice Whitney Webb raconta nel suo One Nation Under Blackmail come la BSC avesse consegnato a Hoover oltre centomila rapporti confidenziali in cambio di resoconti sui movimenti marittimi tedeschi. I rapporti tra i due però si ruppero definitivamente nel 1941 all’alba dell’entrata in guerra, da quel momento in avanti Stephenson cominciò a coltivare William «Wild Bill» Donovan.   Donovan era un famoso avvocato della grande mela, veterano della Grande guerra, il classico e consumato membro della «Eastern Establishment», la classe dirigenziale della costa levantina americana che comprendeva soggetti come Thomas E. Dewey o i fratelli Allen e John Foster Dulles. Venne nominato da Roosevelt a capo della COI (Office of the Coordinator of the Information) l’embrione da cui scaturì in seguito l’OSS, Office of Strategic Service, che Donovan diresse fino alla fine del conflitto.    Sempre secondo varie fonti citate nel testo della Webb, quando «Wild Bill» venne nominato a capo della COI, nacque una forte tensione con l’altra faccia della medaglia del controllo americano, Hoover e i suoi alleati. Questa lotta intestina portò Donovan a utilizzare i suoi contatti con la malavita, come Meyer Lansky, per colpire Hoover. Donovan lo ricattò grazie a delle foto recuperate da Lansky mentre si trovava in atteggiamenti intimi con l’FBI deputy director Clyde Tolson.    La Webb descrive l’OSS come un associazione vista spesso e volentieri come un club. Nonostante nelle sue fila operassero un elevato numero di ufficiali militari provenienti da varie agenzie governative, il comando era saldamente in mano ai figli delle più facoltose famiglie americane. I migliori ruoli degli uffici di Londra, Madrid, Parigi o Ginevra erano tenuti dai rampolli dei Mellon, dei Morgan, dei Du Pont o dei Vanderbilt.    Una volta terminata la guerra, negli Stati Uniti, una rete di spie comuniste sembrava operare indisturbata. Hoover, nel pieno di questa fobia rossa, cercava un colpo sensazionale per guadagnarsi il merito nei confronti del presidente Truman e depennare l’OSS dalla lista dei suoi nemici. L’agente William King Harvey, considerato il migliore da Hoover, aveva raccolto ventisette nomi dalle interrogazioni con Elizabeth Bentley, che aveva confessato di essere un corriere sovietico. Secondo la Bentley, tutti loro lavoravano per il governo e ben 5 facevano parte dell’OSS.    Hoover, intravedendo il colpo gobbo contro Dulles e Donovan inviò un messaggio segreto e personale al presidente Truman. Nonostante appena un anno prima avesse assolutamente negato ogni possibilità che vi potesse essere una rete comunista nel suolo americano, non resistette e si giocò tutto sulla questione dei rossi.   Harvey lavorò incessantemente sul caso per i successivi due anni senza riuscire a cavarne fuori una singola prova che potesse convincere un giudice a formulare un arresto.    La fiducia di Truman versò Hoover terminò in quel momento assieme a qualsiasi possibilità di diventare il nuovo gestore dei futuri servizi segreti americani. A quel punto Truman prese tempo e decise di lasciare la futura nascita dell’apparato nelle mani del dipartimento di stato e dei militari. Fu in questo momento che la figura di Allen Dulles fece capolino nella storia.   Come racconta Douglas Waller in Disciples, Allen Dulles coltivava il sogno di diventare segretario di Stato proprio come suo nonno e suo zio. Entrò a far parte del Council on Foreign Relations (CFR), scrivendo pezzi per il suo giornale Foreign Affairs. Frequentava il circolo chiamato amichevolmente dai suoi habitué «The Room», un appartamento dove si incontravano per una chiacchiera informale i finanzieri di New York di ritorno dai loro viaggi in giro per il mondo. Venne assunto dal Dipartimento di Stato nel 1927 come consulente legale, situazione che sarebbe impossibile oggi per via del palese conflitto di interessi con il suo lavoro.    Dulles non voleva lasciare il futuro dei servizi in mano al Congresso o al presidente e decise di crearne uno privato. Voleva creare la struttura e al momento opportuno presentarla al presidente che a quel punto l’avrebbe riconosciuta come fatto compiuto e assorbita all’interno degli apparati statali. Utilizzando il CFR come sua base aveva organizzato un strategia in tre parti, formare un agenzia privata e nascosta, piazzare nel governo suoi uomini fedeli alla causa, plasmare l’opinione pubblica attraverso il potere che esercitava sui media. Non soddisfatto concorse a esasperare il terrore dell’avanzamento dei sovietici in Europa e in Cina.    Truman soverchiato dalla situazione non vide altra soluzione che agire in fretta e furia e si adagiò comodamente nel solco creato da Dulles. Secondo Trento nel suo The Secret History of the CIA, la combinazione tra la spinta della propaganda organizzata da Dulles e la reale situazione mondiale accelerò l’approvazione della struttura da parte del presidente.

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Nel gennaio 1946 Truman creò temporaneamente la CIG Central Intelligence Group, che non avendo il permesso di portare avanti operazioni coperte però non aveva ancora ereditato il grosso dell’OSS. Fu Dulles che con la sua organizzazione ereditò il controllo del segmento nascosto.    Nel 1947 Truman con il National Security Act diede vita alla CIA (Central Intelligence Agency) e al NSC (National Security Council). Micheal H. Hunt nella sua opera The American Ascendancy descrive l’obiettivo della nascita del NSC come corpo centrale di coordinamento sotto il controllo del presidente dedito alla formulazione della politica nazionale e al supporto delle decisioni presidenziali.    Il presidente non volendo partecipare pubblicamente alle operazioni clandestine, adottò in toto lo schema proposto da Dulles, dando la possibilità di operare con istituzioni private di carità e fondazioni. Dulles divenne inizialmente l’uomo ombra dei servizi americani per poi assurgere a direttore della CIA nel 1953 sotto Eisenhower.   Di fatto fu l’uomo che gestì i servizi segreti americani dal dopoguerra in avanti fino all’arrivo di JFK e del disastro della Baia dei Porci nel 1961 dove venne costretto a rassegnare le dimissioni.   Marco Dolcetta Capuzzo

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Immagine: Il capo dell’FBI Edgar J. Hoover consegna i diplomi ai diplomati della National Police Academy. Washington, 2 aprile 1938. Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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La CIA ha cercato di reclutare Winston Churchill

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Negli anni Cinquanta la CIA tentò di coinvolgere l’ex primo ministro britannico Winston Churchill, figura di spicco durante la Seconda Guerra Mondiale, per trasmettere messaggi di propaganda attraverso Radio Liberty, un’emittente finanziata dall’agenzia, con l’obiettivo di indebolire l’Unione Sovietica. Lo riporta il giornale britannico Telegraph.

 

Durante il culmine della Guerra Fredda, Radio Liberty, sostenuta dalla CIA, colpiva l’URSS con trasmissioni propagandistiche, mentre la sua controparte, Radio Free Europe, si concentrava sugli alleati di Mosca. Entrambe le emittenti erano segretamente controllate e finanziate dall’agenzia di intelligence statunitense fino al 1972, per poi fondersi in RFE/RL nel 1976.

 

Nel 1958, i responsabili di Radio Liberty proposero di sfruttare il «revisionismo» che stava emergendo in Unione Sovietica, capitalizzando le divisioni ideologiche nel marxismo-leninismo per destabilizzare il regime, come indicato sabato dal Telegraph, che cita documenti CIA declassificati.

 

Secondo i documenti, la CIA puntava a utilizzare i «pensatori revisionisti», che si opponevano a un blocco sovietico compatto, promuovendo invece stati comunisti indipendenti.

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Churchill, all’epoca 83enne e ritirato dalla politica attiva, fu una delle figure di spicco considerate per condurre queste trasmissioni, scrive il Telegraph. Sebbene fosse un convinto anticomunista, come dimostrato dal suo celebre discorso sulla «cortina di ferro» a Fulton nel 1946, non vi sono prove che abbia accettato l’offerta, secondo il rapporto.

 

I programmi avevano l’obiettivo di «stimolare il pensiero eterodosso» e «minare la fiducia nel marxismo, suggerendo che i suoi principi fondamentali, il suo metodo storico e le sue previsioni fossero errati», secondo una nota informativa della CIA citata dal giornale.

 

Churchill aveva un rapporto personale con l’allora direttore della CIA, Alan Dulles. Tuttavia, nella primavera del 1958, quando gli fu proposto di partecipare a un programma di propaganda, declinò l’invito a visitare Washington per motivi di salute, come riportato dal Telegraph.

 

Più recentemente, RFE/RL ha continuato a ricevere finanziamenti da Washington attraverso l’Agenzia statunitense per i media globali (USAGM), fino ai tagli di bilancio imposti dal presidente Donald Trump, nell’ambito del suo programma di riduzione della spesa pubblica.

 

Il mese scorso, l’USAGM ha annunciato il licenziamento di oltre 500 dipendenti, dopo centinaia di tagli nei mesi precedenti.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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