Storia
Maradona, la verità

«Children, fools, and drunkards tell the truth» dice il proverbio inglese. «I bambini, gli sciocchi e gli ubriachi dicono la verità». Maradona è probabilmente stato tutte e tre le cose, se consideriamo per ubriachezza l’effetto della droga nasale e se anche a voi il suo corpo minuto, con le gambette e poco collo, sembrava quello di un bambino.
Certo, un bambino d’oro, un «bambino-idolo», direbbe qualche psicanalista: un essere adorato da chi gli sta intorno nonostante i suoi capricci malvagi. Ma non dell’infantilismo del personaggio – e del suo potere di rendere tutti noi i suoi genitori permissivi – che dobbiamo qui parlare.
Un «bambino-idolo», direbbe qualche psicanalista: un essere adorato da chi gli sta intorno nonostante i suoi capricci malvagi
Ci preme qui ammettere che Diego Armando Maradona è stato, più o meno involontariamente, una creatura della verità. Non è cosa da poco per qualcuno che ha vissuto il XX e il XXI secolo – cioè il Kali Yuga, l’era quaternaria infame in cui gli uomini non dicono più il vero – soprattutto perché el Diego lo ha fatto su ogni livello immaginabile.
Per prima cosa, voglio dire una cosa vera io: Diego Maradona non mi è mai piaciuto. Sono stato un bambino, ragazzo, uomo dell’Alta Italia, è difficile trovare qualche mio conterraneo che ami alla follia questa icona partenopea. Appunto, per anni, il mio convincimento infantile è stato che Maradona fosse napoletano, poi avrei capito che il fenomeno è ben più profondo, è regale: Maradona è Napoli, così come il Re di Francia poteva dire l’État c’est moi.
Una prima, grande verità è questa: pure nell’evo del disincanto e della finta democrazia, è ancora possibile un’identificazione popolare totale come quella che l’argentino ha offerto ai napoletani. Un fenomeno cittadino, persistente quanto lo può essere un culto di un Santo, tant’è vero che i maestri del presepe di San Gregorio degli Armeni da decenni non fanno mancare la statuetta di Maradona nelle loro vetrine. Questo sentimento popolare, nato con probabilità da meccaniche divine, non ha eguali da nessuna parte, nemmeno nella Roma che circondava con centinaia di persone urlanti («tòccame, cabidàno!») le pizzerie in cui si infilava sperando di farla franca Francesco Totti.
Ammettiamo che Diego Armando Maradona è stato, più o meno involontariamente, una creatura della verità
A cavallo dei millenni dal «DASPO SPQR» alla Camorra
No, Maradona ci ha regalato anche questa verità millenaria: il tifo definisce una città più di qualsiasi altra cosa, soprattutto delle leggi e dell’identità dei poteri dominanti. I napoletani lo sanno sin da quando il Vesuvio pietrificò i pompeiani: nel 59 a.C. Pompei, neanche vent’anni prima del cataclisma, aveva come unico grande problema civile il fatto che l’imperatore Nerone, per mezzo del Senato, decretò la squalifica del campo per 10 anni a seguito degli scontri tra tifoserie dopo il derby gladiatorio tra il Pompeii e il Nocera.
«Dapprima si scambiarono insulti e volgarità con l’insolenza propria dei provinciali, poi passarono alle sassate e alla fine ricorsero alle armi. I tifosi di Pompei, più numerosi dato che lo spettacolo si svolgeva a casa loro, ebbero la meglio. Molti uomini di Nocera furono riportati a casa feriti e mutilati, e non pochi piansero la morte di un figlio o di un genitore», scrive Tacito negli Annales (XIV, 1). Quindi, DASPO SPQR per tutti?
Da Pompei a Napoli: quale verità diacronica il pibe ha indovinato, e cavalcato: il giocatore ha il cuore del popolo, quindi ha controllo sulla città
Maddeché. Vedendo che il popolo non poteva vivere senza i suoi giuochi, il Senato ridusse la pena da 10 a 2 anni. Ora potete capire meglio quale verità diacronica il pibe ha indovinato, e cavalcato: il giocatore ha il cuore del popolo, quindi ha controllo sulla città.
È per questo che Maradona si è permesso di slatentizzare i rapporti con un altro elemento profondo e persistente nella storia di Napoli, la Camorra. Eccotelo nella foto, seduto in una vasca da bagno di marmo a forma di ostrica assieme ai fratelli della criminalità partenopea degli anni Ottanta. Il sorriso non è esattamente di circostanza. Lui può permetterselo, perché anche quella è una verità a cui non si sfugge: ci sta dicendo, se stai a Napoli a quei livelli in qualche modo li incontri – verità ancora oggi indicibile, e chissà quanti insulti mi prenderò per averlo scritto.
Ma non pensiamo solo a Napoli, pensiamo, per esempio al Giappone. Maradona ha avuto modo di dire una verità imbarazzante anche su quel lontano Paese – il quale forse poi ha inviato in risposta da San Gennaro un suo cittadino con la maglia del Napoli per dire «sono giapponese».
In Giappone con una battuta il Diego parlò di quella verità – la cedevolezza dell’Impero verso l’occidentalizzazione e l’impotenza militare dinanzi agli yankee– per cui ha fatto seppuku Yukio Mishima
Bombe atomiche e «Pelé gay»
Tokyo gli negò il visto di entrata ai mondiali nippocoreani del 2002. Lui rispose «non ho mica ucciso qualcuno. Non potevano far passare proprio me da criminale, dopo aver permesso agli americani di giocare la Coppa, loro che hanno tirato la bomba atomica su Hiroshima». Forse il lettore non se ne rende conto, ma Diego qui parla di quella verità – la cedevolezza dell’Impero verso l’occidentalizzazione e l’impotenza militare dinanzi agli yankee– per cui ha fatto seppuku Yukio Mishima. Tanti estremisti di destra giapponesi, che il sabato improvvisano comizietti in giro per la città, sottoscrivono ogni virgola. Perché abbiamo gli americani in casa, visto che ci hanno nuclearizzato due città e cambiato radicalmente la nostra bella società tradizionale? Verità che il Diego può lanciare al mondo con indifferenza.
La verità su Pelè, fatto monumento e santo in vita. «avrei preferito (…) che si occupasse di Garrincha e non lo lasciasse morire nell’indigenza». Come noto, Garrincha morì di cirrosi epatica. La questione fra i due storici fuoriclasse andò avanti: quando nel 2009 Pelè ebbe qualcosa da dire sui comportamenti non-esemplari fuori dal campo di gioco, Maradona rispose ai giornalisti :«Che volete che vi dica, Pelé ha perso la verginità con un uomo». E non era nemmeno la prima volta che Diego alludeva a questa storia, finita sui tabloid britannici, di «O Rei» quattordicenne con un uomo più grande, forse, scrive il Guardian nel 2000, il suo coach.
«Che volete che vi dica, Pelé ha perso la verginità con un uomo»
La FIFA? «Piuttosto che appartenere alla famiglia FIFA preferisco essere orfano»
Su Moggi: «con me è sempre stato un signore. Contro di lui non ho nulla di dire. Anzi, conservo un bel ricordo. Se ha delle colpe, sicuramente non saranno le uniche, le sue».
Chavez inchinato
La scena, davvero rivelatrice, in cui il compianto Chávez arringa al popolo in modo semplice e geometrico: «Que viva el pueblo! Que viva Maradona!»
Era già imbarazzante all’epoca, non oso immaginare ora, vedere il documentario di Emir Kusturica dedicato a Maradona. Sì, Emir Kusturica: il sostenitore di Milosevic finito – sinistra ebete e smemorata – ad essere un campione dell’industria culturale Repubblica/Feltrinelli col risultato di avere anni di Goran Bregovic tra le palle (ma poi giunse la vendetta via Elio: «La musica balcanica ci ha rotto i coglioni / è bella e tutto quanto ma alla lunga / rompe i coglioni»).
Il documentario su Maradona è un residuo dei tempi dei No Global e Porto Alegre, e infatti quella roba si vede tutta – balcanino+latinoamericano: incubo dei tormentoni radiofonici degli anni 2000! – compresa la scena, davvero rivelatrice, in cui il compianto Chávez arringa al popolo in modo semplice e geometrico: «Que viva el pueblo! Que viva Maradona!».
Proprio così: il popolo è Maradona. Chávez, che chissà se era stato a Napoli e chissà se aveva capito il capolavoro di volksgeist che aveva realizzato el pibe, ci era arrivato anche lui.
Il Popolo è Maradona, el Pueblo è el Diego.
Il Popolo è Maradona, el Pueblo è el Diego. La lotta popolare – quella socialista, comunista, terzomondista, comunque sudamericana – è Maradona.
Non crediate che fu un’illuminazione del solo caudillo venezuelano. Un amico che faceva il rappresentante di shampoo aveva una serie di aneddoti irresistibili sulle sue clienti, le parrucchiere, specie quelle di Paese. Una di queste al volgere dell’estate gli raccontò del suo viaggio a Cuba. Disse al mio amico di essere rimasta colpita dal fatto che su un palazzo avevano issato un’immane immagine di Maradona. Si dovette mostrare al ragazzo una foto perché egli realizzasse che si trattava del Museo de la Revolución in Plaza de la Revolución, dove campeggia gigantografato il volto di Che Guevara. Con evidenza, la coiffeuse considerava interscambiabile il Che con Maradona. Non una cosa da poco: donne, camorra, cocaina e Ferrari nera ma alla fine sia il Presidente della Republica Bolivarista de Venezuela che l’acconciatrice di provincia ti riconosce come Libertador, un eroe del popolo.
Altra verità: quel posto, forse a livello mondiale era stato lasciato vacante. Nessun politico, né Chávez né Castro né Lula né Morales né nessun presidente sudamericano poteva assurgere al ruolo, e gli stessi sedicenti eredi di Bolivar lo capivano. Lo sapeva? Sì, alla manifestazione di cui stiamo parlando, andò e dal pueblo el pibe fu acclamato.
Donne, camorra, cocaina e Ferrari nera ma alla fine sia il Presidente della Republica Bolivarista de Venezuela che l’acconciatrice di provincia ti riconosce come Libertador, un eroe del popolo
Epperò, sempre nel documentario del serbo, si rimane elettrizzati quando si scopre che Diego aveva pure un’altra lettura di verità assoluta nel cuore: la lotta contro la Juventus era in realtà una lotta contro gli Agnelli, e ogni goal nella porta bianconera era un colpo al sistema industriale settentrionale – in particolare, era fermo all’asse MiTo, Milano Torino – che schiacciava (simbolicamente, perché tenuti in piedi da operai immigrati) i meridionali.
Contro il Papato con Wanda Nara
Il Papato non è stato risparmiato dal bambino d’oro, e già nel 1985, quando era un fringuello. Con Giovanni Paolo II «si ci ho litigato perché sono stato in Vaticano, e ho visto i tetti d’oro, e dopo ho sentito il Papa dire che la Chiesa si preoccupava dei bambini poveri. Allora venditi il tetto, amigo, fai qualcosa!».
È con il conterraneo Bergoglio che il nostro diede il massimo – e non poteva essere altrimenti
Tuttavia è con il conterraneo Bergoglio che il nostro diede il massimo – e non poteva essere altrimenti. 1° settembre, il Vaticano appronta la «Partita interreligiosa per la Pace». El pibe è invitato. Si profila un incontro etico, il Papa del Pallone con il Papa nel Pallone – ambedue argentini. Abituato a planare nello stivale una volta l’anno per gabbare la RAI o chiunque gli stacchi un assegno a 5 zeri per una ospitata qualsiasi, Dieguito sarà stato sorpreso dal fatto che questa volta il suo giretto in Italia non lo ha dovuto fare per la Carrà o Biscardi, ma per il Papa.
Probabilmente, grazie al salvacondotto Vaticano, quella volta el Diego non ha nemmeno avuto noie con la Guardia di Finanza, che reclama da lui una cosa come 40 milioni di euro e si apposta per trollarlo già in aeroporto (memorabile quando gli sequestrarono un orecchino…).
L’incontro dei due è fotografato da ogni angolazione. Non risulta scatto della genuflessione del campione calcistico, e per fortuna nemmeno della genuflessione del campione ecclesiastico (cosa che, dopo i baciamani a popi e rabbini e gli inchini a masse varie, poteva pure capitare, anzi sarebbe stato perfino più legittimo che capitasse sul piede magico del Diego Armando).
Maradona, come sempre, smaschera tutti e fa vedere cosa è oggi un evento organizzato dalla chiesa cattolica: un porcaio
Sembrava più Maradona che riceve Bergoglio, che il contrario. E Maradona, che è bene ricordare che ha ripudiato l’Italia finita la carriera, giocava pure fuoricasa.
Poi ecco la Partita ecumenica per la Pace, dove il campione scende in campo nel clamore in generale. In diretta, intervistato a bordo campo, Maradona più che degli sfollati siriani e le stragi ISIS, chiarisce che la cosa che lo tocca nel profondo è un’altra: «per me Icardi non doveva giocare». Ha rotto il codice d’onore dei calciatori, una volta questa cosa nel calcio non era nemmeno immaginabile, tuona el Diego. Mauro Icardi, apprendiamo, è un calciatore argentino che ha rubato la moglie ad un altro giocatore sudamericano, l’allora attaccante del Chievo Maxi López: la mitica Wanda Nara. La Nara in Argentina diviene famosa nel giro televisivo prima per aver dichiarato ripetutamente di essere vergine (per poi ammettere pubblicamente che si trattava di uno «scherzo») e poi per il rumor del rapporto con Maradona, che invece nega. Un altro rumor vuole che vi sia in giro un un sex-tape, cioè uno di quei video intimi che, purtroppo, finisce in rete, ma lei nega con decisione che sia autentico.
Capite: sarebbe in teoria lì per il messaggio geogoscista del Papa – la guerra, il terrorismo, le stragi, etc. etc. Lui appena parla ci dipinge in testa però un’altra storia: il triangolo tra la Nara, Icardi e Maxi López, anzi magari un quadrilatero se ci mettiamo dentro anche lui. Maradona, come sempre, smaschera tutti e fa vedere cosa è oggi un evento organizzato dalla chiesa cattolica: un porcaio.
Dimostrò l’inesistenza de facto dell’Unità d’Italia
Maradona antirisorgimentale: dividere l’Italia in poco più di 90′
Vi è tuttavia un momento ancora più incredibile nella storia di Maradona. Egli, e fece tutto davvero da solo, dimostrò l’inesistenza de facto dell’Unità d’Italia.
È incredibile se ci pensate. Non ha dovuto creare partititelli regionali. Non ha dovuto minacciare le vallate della Bergamasca che stanno «oliando i kalashnikov». Non ha dovuto assaltare il campanile di San Marco con il tanko. Non ha dovuto sciorinare le glorie del Regno delle due Sicilia. Non ha dovuto scrivere libri per dire che i meridionali sono fantastici e perseguitati. Niente di tutto questo.
«Io voglio solo il rispetto dei napoletani (…) io e la mia nazionale sappiamo che il napoletano è italiano, solo che gli italiani devono capire che il napoletano è anche italiano». Seguirono, innegabili, i fischi del San Paolo durante l’inno di Mameli. Inaudito. Enorme. Disarmante. Grandioso.
Gli è bastato, quel giorno a Napoli dove al San Paolo si sarebbe disputata la semifinale Italia-Argentina ai nostri mondiali di Italia ’90, rivolgersi direttamente al popolo partenopeo, cioè a se stesso. Si ebbe la risposta: i napoletani avrebbero tifato Maradona, non per Baggio e Schillaci, non per gli Azzurri. Sappiamo come andò a finire: l’Italia, grande favorita che giocava in casa, eliminata.
Poco prima della partita, disse alle TV: «io voglio solo il rispetto dei napoletani (…) io e la mia nazionale sappiamo che il napoletano è italiano, solo che gli italiani devono capire che il napoletano è anche italiano». Seguirono, innegabili, i fischi del San Paolo durante l’inno di Mameli. Inaudito. Enorme. Disarmante. Grandioso.
Ovviamente è partita la smentita storica, è un falso assoluto, una fake news persistente, quella dei napoletani che tifarono per il Diego e non per il Paese occupante – l’Italia. Per fortuna, esiste qualcuno che invece ha il coraggio di scriverlo ancora oggi, magari addolcendo la posizione: «Io, napoletano, ho tifato Maradona, non per l’Argentina né contro l’Italia». Il succo non cambia: se Maradona è più forte della Patria italiana, ma che cos’è la Patria italiana?
Mazzini e Garibaldi travolti dal pibe: ma quale Italia «una e indivisibile». A Maradona sono bastati poco più di 90′ per dividere l’Italia
Voi capite, dopo un’impresa come questa, il Risorgimento è spazzato via in ogni sua possibile retorica. Tutte le paginette imparate a scuola, tutta la propaganda dei giornali (ricordate, gli sputi ideologici dei giornaloni verso la Lega fino a pochi anni fa?) sono state bruciate in una sola partita. Mazzini e Garibaldi travolti dal pibe: ma quale Italia «una e indivisibile». A Maradona sono bastati poco più di 90′ per dividere l’Italia. Cavour, spostati. E anche tu, Bossi.
Il bambino del Re nudo
Quello che rappresentava Maradona mi fa schifo, anche se ora che è morto posso tranquillamente fare due conti e accodarmi anche io al gregge: sì, era il più grande calciatore di tutti i tempi, perché mi ricordo ancora quella palla incredibile che passò a Caniggia – ancora oggi cantata nel coro immortale dei tifosi argentini «Brasil decime que se siente...», dove si ricorda peraltro che «Maradona es màs grande que Pelé...»
Mi ha fatto impressione, sempre nel documentario di Kusturica, vederlo in Argentina esibirsi in un locale a cantare una canzone su stesso. Grottesco, patetico, una scena di un narcisismo senza confini.
Mi dava il vomito quando il calciatore dissoluto miliardario andava a Cuba da Castro – adorare il bambino d’oro è umano, è un fenomeno che non conosce cortina di ferro. E ricordo, da qualche parte nei decenni, in una intervista alterata si rivolse a Shilton – il portiere inglese di Messico ’86 – per dire che sì, il gol della Mano de Dios era fatto proprio con quella mano, che in quel momento mostrava il dito medio.
E chi si è dimenticata la cavalcata verso le telecamere fatta a USA ’94, con gli occhi fuori dalle orbite che più che di aerospazio parlavano di qualcos’altro? E i bambini seminati in giro? (A proposito: quello che gli somigliava come una goccia d’acqua che giocava a pallone, che fine ha fatto?)
E vabbè, l’importante qui è altro: è che c’è stato un uomo in grado di diventare l’incarnazione di un intero popolo, di sfanculare chiunque, e vivendo come gli pare, di dividere l’Italia in pochi minuti. Un campione vero, e dello sport qui non ci frega niente.
Per dire che il Re è nudo ci vuole un bambino
Ci importano le tante volte in cui el pibe, il bambino, ha detto la verità – anche orrida, grottesca, ridicola – al mondo intero: per dire che il Re è nudo ci vuole infatti un bambino.
Incosciente, capriccioso. Non mi mancherà, anche se di tante cose, che non riguardano il calcio, dovremmo essergli grati.
Addio al «bambino pazzo e ubriaco» che tante volte ha detto, senza nemmeno volerlo, la verità.
Roberto Dal Bosco
Pensiero
«Ci inseguiranno con le loro torce fiammeggianti fino al fuoco dell’inferno». Israele, il sacrificio dell’Innocente: cosa ha compreso Toaff

Sta circolando da ieri con insistenza un post fatto su Facebook dadi Ariel Toaff. Molti lo conoscono già: professore di Storia presso l’Università israeliana Bar-Ilan, è figlio di Elio Toaff, già rabbino capo di Roma, noto per gli episodi di vicinanza con Giovanni Paolo II.
Le parole di Toaff, ebreo italo-israeliano, sono di una durezza tremenda. Sarebbero immediatamente condannate come «antisemitismo», e bannate dai social, se a pronunziarle fosse stato un goy, un non-ebreo.
«Israele sotto Netanyahu sta imboccando, come un ciuco ubriaco, la strada verso una debacle economica senza precedenti e l’isolamento internazionale» scrive lo storico medievale, evocando un animale, l’asino, di certo sapore biblico.
Sostieni Renovatio 21
«Se riusciremo ad uscirne, ci vorrà del tempo per rimetterci in sesto. Dell’immagine morale di Israele non parlo, perché l’ha persa da tempo». Un’ammissione drastica, ma oramai condivisibile da chiunque: il disastro morale di Israele è ora sotto gli occhi del mondo, e le denunce all’Aia e i futuri riconoscimenti promessi alla Palestina (in ultimis, in queste ore, è arrivata anche l’Australia, che pure ha una storia di lotta contro il cosiddetto «negazionismo olocaustico») ne sono la prova schiacciante. Al punto che perfino Donald Trump, accusato ora dalla sua stessa base di favorire gli israeliani rispetto agli americani in tradimento totale del principio MAGA dell’America First, ad aprile aveva dichiarato che Israele a Gaza «sta perdendo gran parte del mondo» e alimentando l’antisemitismo.
«Gaza non rischia di essere la tomba di Netanyahu e dei suoi folli seguaci, ma la nostra» continua Toaff, senza specificare se stia parlando degli ebrei o degli israeliani. «E non abbiamo fatto niente per impedirlo. Di fatto siamo suoi complici, ignobilmente complici». Parole coraggiose, di sincerità che va ben al di là dell’autocritica di rito. Si tratta di un giudizio spirituale che sa di definitivo, di epocale.
«La giusta e crudele punizione non tarderà a raggiungerci. È uno dei capitoli più infami della storia del sionismo moderno» scrive ancora lo storico nato ad Ancona. «I morti ammazzati di Gaza, donne e bambini, ci inseguiranno con le loro torce fiammeggianti fino al fuoco dell’inferno».
Qui scatta un’immagine ancora più potente, che l’esperto di storia ha studiato e raccontato in profondità: i pogrom, gli atti di persecuzione contro gli ebrei di cui è costellata la storia di, praticamente, ogni regione del mondo. Una punizione che, incredibilmente, viene qui definita «giusta e crudele». Inseguiti con le fiamme, e poi l’inferno: sono immagini di portata spaventosa. Davanti a tanta intensità, davanti a un tale coraggio di visione e percezione, può venire la pelle d’oca. Ci togliamo il cappello.
«E ora provate a bloccarmi e a cancellare il mio post ipocriti, pavidi e vigliacchi» conclude Toaff. «Siete una vergogna nella storia del popolo di Israele». Non sappiamo a chi stia parlando ora: a chi controlla i social media? È un’implicita ammissione al fatto che gli ebrei (o i sionisti, fate voi) controllano il pubblico discorso su internet e oltre?
La carne al fuoco è tantissima. Specie se consideriamo chi sta parlando. E ricordiamo quanto accadde nel febbraio 2007, quando uscì il libro più celebre di Toaff, Pasque di sangue.
Lo studio storico, edito dalla prestigiosa casa editrice Il Mulino (in zona, diciamo così, prodiana) esamina il contesto storico e culturale dell’ebraismo ashkenazita medievale in diaspora, dove nacque l’accusa agli ebrei di compiere omicidi rituali di bambini cristiani durante la Pasqua, utilizzando il loro sangue per presunti riti anticristiani.
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
L’esempio più noto è quello di Simonino di Trento, noto da tutti come San Simonino (1472-1475), bambino di due anni e mezzo trovato morto durante la Pasqua del 1475, venerato come beato dalla Chiesa cattolica sino al Concilio Vaticano II. A seguito del ritrovamento in una roggia del corpo (che, secondo voci, da qualche parte ancora dovrebbe esserci…), quindici ebrei di Trento furono interrogati con la tortura, e confessarono. Furono messi a morte. Il culto di Simonino divenne nei secoli, e non solo per il mondo cattolico, la prova dell’esistenza dell’omicidio rituale ebraico, la cosiddetta «Accusa del sangue»: l’idea, diffusa dall’Inghilterra Medievale all’Europa rinascimentale alla Germania nazista al mondo arabo odierno, secondo cui gli ebrei consumano sangue umano, specialmente di bambini, durante la Pasqua ebraica (Pesach) per scopi magici o rituali.
In Pasque di sangue, se da un lato Toaff rigetta l’idea di omicidi rituali come mito cristiano, in linea con la storiografia tradizionale che considera tali accuse una montatura delle autorità cristiane, dall’altro suggerisce che, pur mancando prove dell’uso magico o superstizioso del sangue, non si può escludere che singoli individui, forse legati a gruppi estremisti ashkenaziti, possano aver compiuto tali pratiche. In particolare, vi sarebbero elementi che farebbero pensare a collegamenti con culti cabalistici dell’ebraismo dell’Europa orientale.
In pratica, Toaff ammette che l’omicidio rituale ebraico potrebbe essere realtà. Secondo Toaff, non è corretto rigettare completamente i documenti processuali, ritenuti dalla vulgata attuale come «inattendibili». Ad esempio, si riscontra una chiara corrispondenza tra le confessioni del processo di Trento e le fonti ebraiche relative all’uso magico e simbolico del sangue in riti e liturgie specifiche durante la Pasqua ebraica, tipici di gruppi estremisti ashkenaziti, con intenti anticristiani (il cosiddetto «rituale della maledizione»). Ciò conferma che, nonostante le confessioni ottenute sotto tortura, è possibile estrarne elementi autentici della cultura sotto processo. Nelle confessioni del processo di Trento emergono frasi in ebraico ashkenazita – invettive anticristiane corroborate da altre fonti – trascritte erroneamente dai notai, dimostrando che i giudici non conoscevano né l’ebraico né lo yiddish, il che avvalora l’autenticità di tali espressioni.
Lo scandalo all’uscita del libro fu immediato. In una reazione di velocità e potenza mai prima vedute, il volume fu ritirato prepotentemente dalle librerie (un fenomeno che avremo visto anni dopo con il libro sul COVID dell’allora ministro della Sanità Speranza), ma l’effetto fu l’opposto di quello desiderato dai censori: in un classico della golemica ebraica, l’interesse verso le tesi del libro accrebbero ancora di più. Nel momento in cui scrivo, su eBay una copia di Pasque di sangue prima edizioni si può comprare per 550 euro, mentre se volete risparmiare e comprarlo su Amazon dovete sborsarne 480. Racconterò pure di aver scoperto che un’amica serba, moderatamente religiosa, aveva pure lei sentito parlare del caso, che evidentemente viene discusso anche dalle comunità ortodosse in Italia.
Sì, Golem. Il mostro sfugge dal controllo: la seconda edizione, uscita nel 2008, pure ribadiva in qualche modo le tesi, ma voleva mettere in chiaro i concetti espressi «per non consentire equivoci di sorta», ma lo scandalo non viene dimenticato, il segno lasciato dal saggio è indelebile.
Vale la pena qui notare come dentro al mondo ebraico le reazioni non siano state univoche, e per un motivo che tenteremo di spiegare.
Iscriviti al canale Telegram
Le reazioni dell’ebraismo italiano, e di conseguenza dell’intellighenzia democratica tutta (con paginoni su Corriere e Repubblica, ma anche, ma guarda un po’, sul giornale dei vescovi Avvenire) fu di rigetto alle tesi di Toaff. Valga la risposta del rabbino Elio Toaff, massimo rappresentante del giudaismo nazionale, nonché padre dell’autore: «la cultura ebraica è basata sulla pace e sul perdono. Si tratta di leggende che non hanno nessun fondamento».
Al contrario, l’università di Tel Aviv dove insegna il professor Toaff, la Bar-Ilan, difese le ricerche del suo cattedratico. Lì per lì, uno si potrebbe chiedere perché: stiamo parlando di un rito diabolico, di combustibile per l’antisemitismo nei millenni, di un argomento ancora usato oggi da palestinesi e altri musulmani mediorientali. Com’è possibile che non abbiano negato a basta?
Il motivo riesco a spiegarmelo ricordando le parole di uno sconosciuto incontrato per caso nell’estate del 2007. Ero a Roma, e non potevo resistere all’idea di una passeggiata serale. Davanti alla fontana di Piazza Navona incontro, incredibilmente, un amico compaesano trasferitosi a Los Angeles, che era lì con la famiglia messa su in America – che coincidenza incredibile trovarlo lì. Quando ci salutiamo, vedo seduto lì a fianco un ragazzo calvo, dall’aspetto anglo. Sta leggendo una fotocopia con un articolo su Pasque di Sangue. Non resisto e attacco bottone.
Voglio chiedergli come mai si interessa della questione. Nasce una conversazione più generale, durata ore, del perché si trovava a Roma: è un ragazzo britannico, che viveva in America, mi racconta la sua storia di conversione, lavorava per una ricca signora cattolica, ma lui non aveva tanta fede. Poi un giorno davanti a altre persone si mette a parlare di Cristo e della sua chiesa, e si rende conto di avere dentro di sé qualcosa di simile ad una vocazione. Era volato nel centro della cristianità, quindi, per capire il da farsi: non so se sia entrato in qualche seminario, non so se ora sia un consacrato, posso però dire che credevo completamente all’energia della sua conversione.
E allora, caro amico, perché ti interessi di Pasque di sangue? Al momento trovai la risposta ingenua, «dilettantistica», direi, ma ora capisco meglio. «Perché gli ebrei stanno rivendicando questo segno di forza sanguinaria, di violenza a fondamento della loro storia. I cattolici non hanno niente del genere». Parlava quasi come la cosa gli dispiacesse, forse perché lui sognava uno Stato Cattolico come Israele è lo Stato Ebraico, e nella sua foga di neoconvertito si rendeva conto che la chiesa moderna ha tolto ogni fondamento all’idea di uno Stato Cristiano.
È la prima parte del discorso di questo ragazzo conosciuto casualmente (che ha un nome, che non farò) che ora mi risuona dentro: gli ebrei rivendicano la propria forza sanguinaria. Pure se essa è ingiusta, orrenda, crudele, inumana – esoterica, infernale. E quindi: per sfuggire all’immagine di passività inane, gli ebrei rivendicano il sacrificio umano…?
Ciò sicuramente può venire dalla vulgata ebraica del Novecento, che vedeva l’ebreo come debole prima, come vittima poi: si va dall’idea dell’ebreo come razza femmina espressa in Sesso e Carattere (1903) di Otto Weininger – libro apparso in Italia con traduzione di Giulio Evola e apprezzato da Adolfo Hitler, malgrado l’autore fosse ebreo: il führer tuttavia apprezzava il fatto che il Weininger si fosse suicidato – alla successiva presentazione dell’ebreo come vittima definitiva con i campi di sterminio, quella che Norman Finkelstein ha chiamato L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei (2000).
L’etichetta di razza debole, insomma, non va più bene agli ebrei. Non è vero che sono stati eterne vittime, e mai hanno alzato un dito contro i cristiani maggioritari: «Anche gli ebrei avevano voce. E non era sempre una voce sommessa e soffocata dalle lagrime» scrive Toaff in Pasque di Sangue.
Aiuta Renovatio 21
Quello dell’ebreo che non ne può più del senso di vittimismo, della narrativa dell’impotenza della propria genìa è un tema che meglio di ogni saggio accademico descrive il film capolavoro The Believer (2001), con un giovane e bravissimo Ryan Gosling nei panni di uintern naziskin americano che in realtà è ebreo. Una storia che riprende quella, vera, di Dan Burros (1937-1965), esponente del Partito Nazismo Americano (ANP) e della frangia più violenta del Ku Klux Klan che era in realtà di una famiglia di ebrei di Nuova York.
Burros, definito come non plus ultra post-bellico di jüdische selbsthass («odio dell’ebreo verso se stesso»), finì, come Weininger, suicida. Non era l’unico ebreo a finire ai vertici dell’ANP. Era il giro che parlava di Washington come il luogo dello ZOG, cioè Zionist occupied Government («Governo di occupazione sionista»), espressione classica dei neonazisti statunitensi desunta dal loro libro-manifesto The Turner Diaries, di cui anni fa era apparsa finalmente una traduzione in italiano chiamata La seconda guerra civile americana. I diari di Turner, ora – abbiamo appena visto – misteriosamente sparita da Amazon, dove poco tempo fa pure l’avevamo comprata. Notiamo che che in questi giorni l’espressione del «governo occupato dagli israeliani» sionisti si sente tranquillamente in bocca a commentatori americani critici dell’influenza di Israele che magari nemmeno sono di destra.
Qui si introduce un discorso più ampio, che è quello della sostituzione dell’olocausto. Alcuni hanno sostenuto che la propaganda del dopoguerra ha tentato di sostituire presso la spiritualità cristiana l’Agnello, cioè l’Innocente, cioè Cristo, con il massacro degli ebrei: di fatto, proprio il termine per descrivere il sacrificio, «Olocausto», è ora occupato dalla questione dello sterminio operato dai tedeschi.
Il popolo ebraico massacrato diviene il vero Agnello, il vero sacrifizio dell’Innocente. Per questo, è stato detto, si può considerare l’Olocausto come «unica religione rimasta», l’unica di cui lo Stato moderno, Stato laico (cioè, massonico) obbliga il culto: ecco le «Giornate della Memoria». Ecco le leggi sul «negazionismo dell’Olocausto». Ecco la censura sui social se anche solo si prova a dire qualcosa contro non l’ebraismo, ma il sionismo…
Tutto questo è finito, e non solo Toaff sembra averlo capito. La vittima è divenuta carnefice. L’abusato, abusatore. Chi ha gridato per quasi un secolo al genocidio subìto, ora è accusato all’Aia di genocidio.
Il nuovo agnello mostra le forme di un lupo sanguinario: bombarda civili, uccide bambini, affama un intero popolo. Il rovesciamento del paradigma, sembrano dire tanti come Toaff, è incontrovertibile. Nessuna carta di vittimismo pare funzionare più: non il genocidio nazista, non la strage del 7 ottobre 2023.
Per chi scrive è evidente che la volgare esibizione di potenza di Israele, mostrata in tutta la sua crudeltà gratuita non solo sui canali social interni dei soldati IDF, sia animata proprio dalla volontà di sembrare, finalmente, non più vittime. Con il problema che, dicotomicamente, se non si è vittime, si diviene carnefici…
Dal dolore della vittima, all’estasi del carnefice: non possiamo non vedere come, davvero, ciò avvicini alle versioni più caricaturali, fumettistiche, del nazismo, inteso come sadismo massivo nei confronti del più debole.
Memento Golem: quello che non viene calcolato qui, come non lo era stato l’altra volta, sono le conseguenze di quanto si fa. Certo non ce lo dice la storiografia dell’establishment, ma sappiamo che i nazisti pagarono non solo con la distruzione del loro Stato (e la creazione di uno Stato castrato, uno Stato in istato di umiliazione e impotenza permanente) ma con l’uccisione e la diaspora, nel dopoguerra, di milioni di tedeschi.
Toaff sembra averlo capito quando parla della punizione in arrivo, con «i morti ammazzati di Gaza, donne e bambini, ci inseguiranno con le loro torce fiammeggianti fino al fuoco dell’inferno». L’inferno di Israele, al di là della questione personale e metafisica, potrebbe coincidere con la sua fine: non si tratta di un’idea peregrina, almeno non più, nemmeno presso gli stessi ebrei, con alcuni che si stanno convincendo della «maledizione dell’ottava decade»: lo Stato degli ebrei non dura più di ottant’anni, non visse più a lungo il Regno di re Davide, né il regno di Giudea (140-37 a.C.) degli asmonei che, per beghe interne tra fazione giudaiche, finì come protettorato romano.
Ora ci avviciniamo all’ottantesimo anniversario della nascita di Israele. Che sia questo che forza la mano dei sionisti? Che vi sia questo senso di apocalisse politica dietro alla frenesia assassini di questi mesi? Non sappiamo rispondere. Vediamo, tuttavia, come costoro possono immaginare, e temere, un mondo post-Israele…
Sostieni Renovatio 21
Se la sono cercata, potrebbe essere il commento superficiale. Forse in realtà non avevano scelta: con boria, ti prendi gioco dell’Innocente, sgozzi sghignazzando l’Agnello, pretendendo pure di essere tu, l’Agnello – e credi che ciò non chiamerà l’Ira di Dio?
Chiudo con una nota personale. Sono stato a Trento, per un gita domenicale, mesi fa. Parcheggiato davanti al Duomo, siamo entrati, e dopo un po’ abbiamo cercato qualcosa che ricordasse San Simonino, da qualche parte nella mia testa c’è l’idea che ci fosse una statua, forse poi cancellata con l’abolizione voluta dal Concilio Vaticano II del culto del beato bambino. Non si tratta di una figura minore per la città e per la Chiesa cattolica: fino al 1965, il Martirologio Romano in data 24 marzo segnava la celebrazione a Trento della «passione di san Simone, fanciullo trucidato crudelmente dai Giudei, autore di molti miracoli».
Chiediamo a quello che sembra un lavoratore della cattedrale. Ci dice che sì, c’è un segno rimasto, è un dipinto, dove, tra tanti altri soggetti, si intravede San Simonino… andiamo a vederlo, sulla navata sinistra: c’è, il bimbo beato è appena accennato. Quindi chiediamo dove sia la chiesa di San Simonino, e il ragazzo ci risponde che non c’è, c’è una cosa che si chiama «Aula del Simonino», è uno spazio pubblico, «laico», è un luogo FAI, ci fanno conferenze, cose così, è in fondo alla via fuori dal Duomo, che si chiama ancora via del Simonino. Andiamo a verificare: tutto vero. Tuttavia, apprendiamo che lo scorso 27 gennaio (l’immancabile «giorno della memoria») è stata piazzata in Piazza Duomo una targa commemorativa degli ebrei uccisi nel processo di quasi sei secoli fa…
Ora non ci sorprenderemmo se l’interesse per San Simonino, sepolto da decenni come hanno cercato di sotterrare il libro di Toaff, facesse un’impennata. Magari tracimando pure in altri casi della zona, come quello di Lorenzino da Marostica, bambino trovato cadavere nel 1485 e per il cui omicidio furono accusati gli ebrei di Bassano: un altro infanticidio rituale giudaico, con culto del bambino martire abolito, anche quello, dal Concilio nel 1965.
Simonino, Lorenzino, potrebbero essere tra quei «bambini, ci inseguiranno con le loro torce fiammeggianti fino al fuoco dell’inferno». Qualcuno lo sta capendo. Sta capendo che le conseguenze, quando si tocca l’Innocente, possono davvero seguirti sino alla fine, sino al giudizio. Perché il giudizio, alla fine, ci sarà.
Sì: il sacrificio umano ha un costo. Lo diciamo non solo per quanto riguarda la guerra di Gaza, ma anche per i nostri ospedali: forse chi uccide i bambini, ad un certo punto, dovrà pagare.
Davvero.
Roberto Dal Bosco
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Immagine: Bassorilievo rappresentante l’assassino di San Simonino di Trento
Immagine di Andreas Caranti via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic; immagine modificata
Economia
Gruppi ebraici chiedono un nuovo risarcimento per i conti bancari svizzeri legati ai nazisti

Sostieni Renovatio 21
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Pensiero
Il samurai di Cristo e il profeta del nulla: un sabato a Kanazawa

Sabato scorso ho avuto la fortuna di passare la giornata a Kanazawa, un piccolo gioiello di città situato nell’Ovest del Giappone.
Sul lato sud dell’area del castello, il centro ideale della città, poco meno di un chilometro separa due luoghi che rappresentano i due estremi della storia della regione. Vicino alla zona commerciale di Korinbo, si trova la chiesa Cattolica di San Giuseppe, dove, appena entrati, da subito si fa sentire la presenza del Beato Giusto Takayama Ukon.
Ho già avuto modo di rievocare la sua figura sulle pagine di Renovatio 21, ma vale la pena di ricordare ancora una volta la meravigliosa figura di questo samurai cristiano: dopo avere preferito rinunciare alle ricchezze garantite dal suo status di signore feudale pur di non abiurare la sua fede (una specie di San Francesco nipponico), Giusto Takayama passò a Kanazawa gli ultimi anni della sua vita giapponese, prima dell’esilio nelle Filippine e della morte ivi presto soppravvenuta a causa dei lunghi anni di persecuzione.
La sua presenza a Kanazawa ha lasciato tracce che esulano dalla sola testimonianza religiosa: visitando la ricostruzione del castello, si trovano cartelli illustrativi che ricordano il suo ruolo nella progettazione delle mura esterne e del fossato, oltre che del complesso sistema di canali che ancora attraversano la città.
Il clan Maeda, che ha continuativamente detenuto il potere sulla regione fino alla fine dello shogunato di Edo e all’ingresso del Giappone nell’era moderna, aveva dato asilo a Takayama quando questi si era trovato ormai senza più casa né averi a causa della sua fede religiosa, il che fa davvero onore a questo clan di guerrieri e mecenati.
Il beato Giusto, oltre che rinomato capo militare e ingegnere civile, era anche uno dei sette principali maestri della cerimonia del tè dell’epoca. Sul sado (茶道, la via del tè), ovvero la cerimonia del tè giapponese, bisognerebbe aprire un capitolo a parte: la maniera in cui in esso si fondono austerità e disciplina militare, ricercatezza estetica, enfasi sulla finitezza e l’imperfezione delle cose, attenzione nei confronti dell’ospite e umiltà nell’atteggiamento di chi officia rappresenta una delle vette assolute raggiunte dalla cultura di questo popolo contraddittorio e meraviglioso.
La chiesa di Kanazawa è appunto dedicata a San Giuseppe, ma già nel parcheggio ci dà il benvenuto una statua del samurai di Cristo. Nelle vetrate della chiesa, l’unica figura distintamente giapponese è quella del beato (con tanto di chonmage, la caratteristica pettinatura dei samurai!), e, a coronare il tutto, si trova anche in esposizione costante una reliquia della veste del Beato Giusto Takayama (per la sua santificazione si richiedono cortesemente le preghiere dei lettori).
La chiesa risulta suggestiva, vi si celebra una Messa post conciliare un po’ raffazzonata ma visibilmente molto sentita dalla comunità, come spesso capita qui in Giappone.
Sostieni Renovatio 21
Il contrasto con il museo D.T. Suzuki, a soli 15 minuti di distanza, non potrebbe essere più grande. In mezzo al verde delle piccole colline a sud del castello e del meraviglioso giardino Kenrokuen, in una zona punteggiata di musei (e vicino a un santuario shintoista dedicato al demone Inari: Quoniam omnes dii gentium daemonia), si trova questa austera e minimale struttura in cemento: in tutta onestà si tratta di un edificio indiscutibilmente bello, opera dell’architetto Yoshio Taniguchi.
Il problema è il personaggio a cui è dedicato: Daisetsu Teitaro Suzuki, probabilmente il principale divulgatore del nichilismo zen in occidente. Ci sono entrato senza sapere nulla del soggetto, su consiglio di un amico che aveva apprezzato l’architettura del museo, ma dopo pochi metri già la faccenda puzzava.
Foto del Suzuki con Erich Fromm, copia de Le porte della percezione del mefitico Aldous Huxley nella biblioteca del museo e altri cascami del milieu venefico che ha fatto da brodo di cultura ai vari sessantotti, sono gli indizi che mi hanno fatto capire di essere di fronte a una celebrazione del degrado morale e culturale militarizzato.
Una scorsa alla biografia del Suzuki sull’enciclopedia online basta a fare cadere dubbi, braccia e altre appendici. Riporto a seguire: «nel 1911, Suzuki sposò Beatrice Erskine Lane Suzuki, una laureata di Radcliffe e teosofa con molteplici contatti con la fede Baháʼí sia in America che in Giappone. In seguito Suzuki stesso si unì alla Società Teosofica Adyar e fu un teosofo attivo». Perché scrivere semplicemente che era un burattino dei servizi britannici pareva brutto. Direi che può bastare.
Ci tengo a riportare uno dei cartoncini con le profondissime massime del nostro distribuiti nel museo, che vale come promemoria della sconfinata inanità delle bubbole zen che sono state inoculate in occidente negli anni critici del dopoguerra. Si tratta chiaramente di frasette da imbonitore che devono apparire profonde e intimidire il lettore, ma che di fatto non sono degne di un Bacio Perugina scaduto.
Dietro a un linguaggio complesso, che senza definizioni precise non significa niente, si nasconde a stento il nulla. Che vuol dire trascendere? Cos’è un oggetto? Scapellamento a destra come fosse antani per due?
Di fronte a tanta aria fritta si capisce come lo zen d’accatto si sia diffuso così rapidamente in un ambiente culturale perennemente adolescente come quello statunitense, perché un adulto che legge cotante dabbenaggini risponde di regola a pernacchie o, se ha studiato, a rutti.
Il contributo che il popolo giapponese può dare all’umanità risiede altrove, nei gesti sobri di chi, attraverso il linguaggio della sua gente, celebrava la bellezza che emana dall’Unica Verità.
Mi piace pensare che, in questo momento, Giusto Takayama stia servendo il matcha a San Pietro in Paradiso.
Taro Negishi
Corrispondente di Renovatio 21 da Tokyo
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
-
Spirito2 settimane fa
Vescovo messicano «concelebra» la messa con una «sacerdotessa» lesbica anglicana «sposata» che ha ricevuto l’Eucaristia
-
Armi biologiche1 settimana fa
I vaccini COVID «sono armi biologiche» che «hanno provocato danni profondi»: nuovo studio
-
Spirito1 settimana fa
Leone punisca l’omoeresia: mons. Viganò sull’udienza papale concessa a padre Martin
-
Vaccini7 giorni fa
Vaccino COVID, mentre Reuters faceva «fact-cheking sulla «disinformazione» il suo CEO faceva anche parte del CdA di Pfizer
-
Spirito2 settimane fa
Don Giussani, errori ed misteri di Comunione e Liberazione. Una vecchia intervista con Don Ennio Innocenti
-
Gender2 settimane fa
Transessuale fa strage in chiesa in una scuola cattolica: nichilismo, psicofarmaci o possessione demoniaca?
-
Salute2 settimane fa
I malori della 35ª settimana 2025
-
Geopolitica2 settimane fa
Mosca conferma attacchi missilistici ipersonici contro l’Ucraina