Intelligence
Londra ha il suo primo premier induista. Con origini oscure e mondialiste
Londra ha il suo primo premier di religione non-cristiana. Rishi Sunak, il nuovo primo ministro britannico, ha passato anni a dire che vive il suo essere induista e indiano (cosa che troviamo non del tutto consona, ma va bene) in modo aperto. Non è esattamente così.
Sappiamo con certezza che quando è stato nominato Cancelliere dello Scacchiere – cioè ministro delle Finanze – sotto il governo Johnson, ha giurato non sulla Bibbia ma sulla Baghavad Gita, testo sacro indù.
Si tratta dell’uomo più ricco mai divenuto premier, con in linea teorica una fortuna superiore, hanno scritto, superiore a quella di re Carlo III: circa 800 milioni di sterline. Ha sposato la figlia del fondatore del colosso informatico Infosys NR Narayana Murthy, riccherrimo: l’azienda, la seconda società IT più grande in India e la 602ª al mondo secondo Forbes, è capitalizzata per 100 miliardi di dollari.
Tuttavia, i racconti che girano ci dicono che lui aveva già fatto fortuna da solo nell’altissima finanza. Sunak –come Draghi Monti e tanti altri – ha lavorato per la banca d’affari Goldman Sachs tra il 2001 e il 2004, nel ruolo di analista. Ha poi lavorato per la società di gestione di hedge fund Children’s Investment Fund Management, diventandone partner nel settembre 2006. Società interessante: un fondo nato con enormi ambizioni filantropiche, donando profitti migliorare la vita dei bambini che vivono in condizioni di povertà nei Paesi in via di sviluppo, cosa che lo ha reso nel tempo uno dei più grandi enti di beneficenza nel Regno Unito. Nell’annus horribilis 2008, il fondo subì perdite per il 43%. Il New York Times nel 2014 riporta che l’hedge fund stava terminando i legami con il suo braccio filantropico. Curiosità: al momento in cui in Italia qualche forza tentava di resistere all’ascesa di Renzi, il Corriere della Sera scrisse che The Children’s Fund era domiciliato nel medesimo edificio dell’hedge fund di Davide Serra, che all’epoca appoggiava il rampante rignanese apparendo anche fisicamente alle Leopolde.
Successivamente, avrebbe partecipato con colleghi californiani un nuovo fondo partito con 700 milioni di dollari di asset in gestione, di nome Theleme Partners. La parola «Theleme» richiama l’idea una francesizzazione della parola greca «Thelema», «volontà», un concetto di matrice neotestamentaria di cui si appropriò il noto mago parasatanista inglese Aleister Crowley: ma si tratta forse solo della nostra immaginazione.
Il fondo Theleme fu fondato dall’ex ufficiale di marina francese Patrick Degorce, fondatore a sua volta, assieme all’inglese Chris Hohn, di Children’s Fund, dove fu anche lì boss di Sunak. È interessante notare come il Degorce, due volte capo dell’attuale premier britannico, nel 2011 fu uno dei primi investitori in una piccola azienda farmaceutica chiamata Moderna, che all’epoca aveva circa dieci dipendenti. Il fine, disse, era la speranza di curare la moglie malata di cancro. Il 2011 è anche l’anno nel quale entra in Moderna come CEO un altro francese, Stephane Bancel, il quale fino ad allora era stato il CEO di BioMérieux, l’azienda di Lione che avrebbe poi costruito il famoso laboratorio di Wuhano.
Ma torniamo alle questioni apparentemente più superficiali, che appassionano i giornali e, con qualche ragione, il popolino subcontinentale.
«British Indian è la spunta che metto sul censimento, abbiamo una categoria per questo. Sono completamente britannico, questa è la mia casa e il mio Paese, ma la mia eredità religiosa e culturale è indiana, mia moglie è indiana. Sono aperto sull’essere un indù» aveva detto al Business Standard nel 2015. Il giornale scrive che il giovane finanziere e politico «fa notare, ad esempio, che non mangia carne di manzo “e non è mai stato un problema”».
Quindi, lato cultura indiana tutto OK?
Gli indiani si sono resi subito conto che qualcosa manca nel racconto dato ai giornali, ed è proprio il caso di parlare di elephant in the room. La casta. È illegale da decenni discriminare riguardo l’origine famigliare in India, tuttavia è impossibile trovare un indiano che non faccia menzione, anche solo come retaggio (nei casi, per esempio, dei convertiti al crisitanesimo, religione anti-casta per eccellenza) della propria storia famigliare.
È sospetto, per un indiano, non comunicare apertamente la propria casta. Per cui l’internet indiana è impazzita: di che casta è l’uomo appena divenuto a capo di una potenza nucleare terrestre?
L’Indian Herald scrive che potrebbe esserci un errore di spelling: «molti esperti di nomi indù credono che il nome corretto sia Sounak piuttosto che Sunak. In sanscrito, il nome Sunak è tradotto come “cane”, ma Sounak è il nome di un santo della mitologia indù. Sulle piattaforme dei social media, ci sono diverse discussioni sul nome del nuovo Primo Ministro britannico».
C’è solo un indizio forte: la ricchissima moglie è una bramina. Proviene, cioè dalla casta più alta, quella da cui in origine venivano i sacerdoti indù. I bramini sono noti per essere molto selettivi, e non solo per i matrimoni, cosa che li espone a non poche critiche di discriminazione da parte di certi indiani di altre caste. L’India è ancora un Paese largamente basato sul matrimonio combinato, che avviene all’interno della stessa casta o addirittura della stessa sotto-casta: tuttavia i love marriage, come li chiamano laggiù, pure esistono nel Paese moderno, e le antiche regole a questi quindi non si applicano.
Quindi: se è un bramino, perché lo nasconde? E se non lo è? Non sappiamo: i giornali indiani ammettono di non conoscere la casta del Rishi.
Il dubbio che può assalire è che venga da caste più basse, o addirittura da senza-casta, i paria, gli «intoccabili»…
Quindi abbiamo già una prima menzogna: non è vero che il neopremier vive apertamente la sua origine etnica, culturale e religiosa, come dice. Non sappiamo nulla di quale tipo di induismo segua, cosa che potrebbe aiutare molto a leggere il suo modo di condurre il Regno nei prossimi mesi o anni.
Da un punto di vista occidentale, non ha nulla di cui vergognarsi: nato a Southampton nel 1980, è figlio di un medico e di una farmacista. Entrambe i rami materni e paterni della famiglia vengono dal Punjab, ma attraverso l’Africa, dove i genitori sono cresciuti nelle Colonie e Protettorati britannici in Kenya e Tanganica (oggi Tanzania): fedeli servitori indiani della corona di Londra.
Tuttavia, da un punto di vista indiano, c’è questo buco piuttosto significativo. La casta mai rivelata.
Non è la sola cosa che ci dà da pensare. Renovatio 21 vuole dirigere l’attenzione dei suoi lettori su un altro dettaglio che pochi altri vi faranno notare.
Il Sunak ha studiato a Oxford, come possiamo immaginare, e poi a Stanford, in California, come può capitare con i papaveri della sua generazione, da Chelsea Clinton in giù. Ma è interessante sapere che nella prestigiosa università privata della Silicon Valley Rishi è arrivato con una borsa di studio Fulbright.
Il Fulbright program è un enorme piano di borse di studio di cui posson beneficiare studenti di tutto il mondo. Una sorta di sistema di scambio culturale concepito su scala globale. Il fondatore del programma è il senatore americano James William Fulbright (1905-1995), considerato dai critici come «il Mahatma dei socialisti ed internazionalisti americani». Il Fulbright fu poi con ogni evidenza mentore e protettore di un astro politico nascente proveniente dal suo stesso stato, l’Arkansas: Bill Clinton.
In molti vedono nella dottrina Clinton, che qualcuno ribattezzò come «l’Ulivo mondiale», una diligente continuazione del pensiero politico mondiale di Fulbright. E proprio per facilitare il raggiungimento di siffatte mete globaliste, è evidentemente stato costituito questo fondo miliardario che promuove studenti da tutto il mondo, compresa certamente l’Italia, dove è attiva la U.S.-Italy Fulbright Commission, ente bilaterale che è emanazione del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America (cioè il Ministero degli Esteri statunitense, che svolge, oltre che compiti di assistenza agli americani espatriati anche precisi compiti di Intelligence presso i paesi stranieri) e della Direzione generale per la promozione del sistema paese del Ministero degli Affari Esteri italiano.
È molto istruttivo gettare uno sguardo sulla lista dei borsisti italiani. Vi sono, tra gli altri, l’ex primo ministro socialista Giuliano Amato, l’ex primo ministro Lamberto Dini, l’economista ex membro del comitato esecutivo della BCE Lorenzo Bini Smaghi, l’ex divulgatrice ateista Margherita Hack, il banchiere ex ministro Corrado Passera, il potente diplomatico Umberto Vattani, la deputata montian-piddina Irene Tinagli, il giornalista americanista Gianni Riotta, il bestsellerista Umberto Eco, lo storico dell’ebraismo Paolo Bernardini, il giornalista affiliato alla Loggia Massonica P2 Roberto Gervaso, l’ex deputato catto-montiano Pier Luigi Gigli, il banchiere ex ministro Corrado Passera, e ancora Marcello Pera, Federico Zeri, Lamberto Dini . Nel listone, tra i nomi inaspettati come quelli dell’artista Mimmo Rotella o del Nobel Carlo Rubbia, scorgiamo anche il nome del professore Ugo Mattei.
Sulla Fulbright, questa borsa di studio che aiuta gli studenti ad avere una maggiore consapevolezza del contesto globale, nessuno ha fatto davvero qualche pensiero cattivo – questo a differenza della borsa di studio Rhodes, un programma simile, si sprecano i commenti, compreso quello di Mel Gibson che nel 1995 dichiarò alla rivista Playboy che essa era solo un veicolo per imporre «un nuovo ordine mondiale» di stampo marxista.
Eppure, da qualche parte, ad un certo punto, qualcuno avanzò l’idea che anche il fine del programma Fulbright non fosse completamente innocente. A far suonare il campanello d’allarme fu – guarda caso – proprio il paese che più di tutti ebbe attriti, finanche bellici, con l’«Ulivo mondiale» retto dal fulbrightiano Clinton: la Yugoslavia.
Nell’aprile 1995 compare presso il quotidiano di Belgrado Politika Ekspres un articolo dal titolo «Il Network Fulbright – la Fondazione Scientifica Americana come sponsor di una guerra speciale contro la Repubblica Federale di Yugoslavia». L’occhiello è ancora più chiaro: «Un corso di spie». Nel pezzo l’autore, tale A. Vojvodić rileva come i servizi segreti yugoslavi sapessero dall’inizio che il programma Fulbright fosse un «affare dubbio» e che gli agenti di Belgrado «tentarono di dimostrare agli organi competenti dello Stato che tra gli studenti Fulbright vi fossero alcuni che poi vennero indottrinati con la politica Occidentale e con la filosofia del Nuovo Ordine Mondiale».
Anche l’allora direttore dei Servizi yugoslavi Obren Đorđević (1927-1997) in un testo uscito in Yugoslavia nel 1986 e chiamato Leksikon bezbednosti («Lessico della sicurezza») metteva in guardia contro i «possibili rischi e abusi» del programma Fulbright. Il quotidiano yugoslavo prosegue con una lista di studenti Fulbright: vi sono, oltre che poeti e sociologi, anche diversi fisici nucleari e ingegneri di tecnologia militare. Vi sono, anche qui, scrittori, registi, direttori di museo, storici, politici.
«La loro intelligenza sociale può essere usata molto più efficacemente nel loro stesso paese [in questo caso, La Repubblica socialista federale di Yugoslavia, ndr] specialmente quando essi non abbiano cambiato il proprio impegno politico» dice Vojdović, disegnando così un vero e proprio quadro di infiltrazione: persone che continuano a dirsi socialiste (o cattoliche…) ma in realtà perseguono un’altra agenda.
Si dirà, quella dei Serbi era una tardiva paranoia da Guerra Fredda, una reazione americanofoba stressata dai bombardamenti.
Questo è certamente un modo di vederlo. I serbi, come Putin, so’ pazzi – è un pattern psicologico slavo, eccerto.
Poi però, ti sale alla mente un film di Roman Polanski, Ghost Writer, dove tutto un oscuro network americano viene svelato dietro ad un problematico primo ministro britannico, che di fatto ne è solo una marionetta nemmeno troppo consapevole.
La pellicola, come il romanzo di Robert Harris da cui era tratta, sembra indicare senza far nomi un caso preciso, che con ogni evidenza potrebbe essere quello del premier che appoggiò le guerre americane in Iraq e in Afghanistan.
Ora la guerra che Albione deve appoggiare, o financo provocare, non è contro Paesi islamici del Terzo Mondo: è contro la prima superpotenza nucleare globale, la Russia. Un antico nemico di Londra…
Il lettore può capire, ora, perché l’oscuro induista sia stato piazzato lì. E, probabilmente, cosa farà: magari un diluvio di fiamme termonucleari sul mondo non è nemmeno incompatibile con un suo eventuale credo shivaita, ma della sua religione, contrariamente a quanto dice lui e a quanto ripetono i giornali, non sappiamo nulla.
Ci viene in mente uno strano racconto della storia recente, quello del fisico atomico Robert Oppenheimer, che assistette alla prima esplosione atomica della storia ad Alamogordo, nel Nuovo Messico.
Davanti alla visione della potenza dell’atomo, dice Oppenheimer, gli spettatori reagirono in vari modi.
«Sapevamo che il mondo non sarebbe stato lo stesso. Alcune persone ridevano, alcune persone piangevano, la maggior parte delle persone rimaneva in silenzio. Ho ricordato il verso delle scritture indù, la Bhagavad-Gita. Vishnu sta cercando di persuadere il principe che dovrebbe fare il suo dovere e per impressionarlo assume la sua forma multi-armata e dice: “Ora, sono diventato la Morte, il distruttore di mondi”. Suppongo che tutti lo pensassimo in un modo o nell’altro».
Coincidenza: Sunak, come avete letto sopra, ha giurato proprio sulla Bhagavad-Gita.
Pregate il Dio della Bibbia che quel verso induista ricordato da Oppenheimer non si realizzi sopra le vostre città. Perché non è escluso che Sunak lo abbiano messo lì proprio per quello.
Roberto Dal Bosco
Immagine di HM Treasury via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0)
Intelligence
Generale Flynn: valutazione strategica della rivoluzione colorata in America
Renovatio 21 pubblica questo scritto apparso su Substack del generale Michael Flynn.
Il popolo americano ha appena tirato il primo respiro dopo essere sopravvissuto a un tentativo di soffocare la Repubblica attraverso una campagna culturale di ispirazione marxista, condotta in gran parte attraverso l’amministrazione statale, i media, il mondo accademico e gli elementi politicizzati della burocrazia della sicurezza nazionale. La maggior parte dei cittadini non se ne è resa conto appieno mentre accadeva. Molti membri della comunità dell’Intelligence l’hanno accettato passivamente o l’hanno promosso attivamente. Gli architetti di questo progetto non hanno ancora finito, ma il loro impegno è stato danneggiato e ritardato. È solo per grazia di Dio che il Paese è arrivato fino a questo punto.
La versione americana della Rivoluzione Culturale è distinta dal modello maoista che devastò la Cina nel XX secolo. Non si coalizzò attorno a una singola figura rivoluzionaria carismatica. Si diffuse invece lungo le arterie della burocrazia, dell’istruzione superiore, delle strutture aziendali e delle reti di attivisti. La lunga marcia attraverso le istituzioni, come descritta da Antonio Gramsci, divenne il modello operativo. Invece di Guardie Rosse che riempivano le strade agli ordini di un leader supremo identificabile, gli Stati Uniti hanno sperimentato una convergenza coordinata di agenzie, ONG, fondazioni, organi di stampa e fronti di attivisti, tutti promotori dello stesso progetto ideologico sotto etichette diverse.
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Poiché le agenzie federali differiscono notevolmente per dimensioni, missione, cultura e resistenza interna, questa rivoluzione si è sviluppata in modo disomogeneo. Non ha mai raggiunto il dominio totale in un unico colpo decisivo. Al contrario, ha progredito con conquiste frammentarie e ha subito sconfitte frammentarie.
Ovunque il progetto ideologico conquistasse un dipartimento delle risorse umane, un percorso di formazione, un sistema scolastico pubblico o una piattaforma mediatica centrale, incontrava resistenza nei governi statali, nei media indipendenti, nei singoli tribunali e nelle reti di cittadini che si rifiutavano di conformarsi. Questa frammentarietà nell’attuazione ha rallentato il collasso e ha dato al popolo americano il tempo di rendersi conto di cosa stava accadendo e di reagire.
Anche mentre queste battaglie si svolgevano pubblicamente, correnti più oscure si muovevano sotto la superficie. Ora valutiamo che migliaia di dipendenti federali religiosi e conservatori siano stati identificati in modo discreto e indirizzati a un’entità federale poco nota, la Pre-Trial Services Agency. I resoconti e la documentazione iniziale indicano che questa agenzia potrebbe essere stata utilizzata per catalogare individui esclusivamente sulla base di ideologia e convinzioni religiose, con il pretesto del 6 gennaio e della non conformità alle vaccinazioni. L’intenzione sembra essere stata non solo la rimozione amministrativa, ma anche la potenziale criminalizzazione. Questa questione richiede un’indagine immediata e trasparente da parte di qualsiasi futura amministrazione che affermi di prendere sul serio lo stato di diritto.
Per comprendere il contesto più ampio, è necessario definire cosa intendiamo con il concetto di stato sociale. Non ci limitiamo a descrivere i programmi sociali tradizionali. Ci riferiamo invece a una costellazione di gruppi di attivisti professionisti completamente finanziati che si presentano come cause separate ma in realtà formano un unico blocco rivoluzionario. Nell’ultimo decennio, le organizzazioni sotto le insegne dell’antifascismo, della giustizia razziale, del femminismo radicale, dell’aborto su richiesta, di alcune fazioni LGBTQ+, dell’estremismo ambientalista e della difesa del controllo delle armi hanno mostrato una notevole coesione. Condividono donatori, personale, strutture narrative e tattiche di strada. I loro membri si sovrappongono. I loro messaggi sono sincronizzati. Si sostengono rapidamente a vicenda nelle campagne e nelle proteste.
Questi gruppi si presentano come movimenti di base. In realtà, funzionano molto più come una casta rivoluzionaria professionalizzata. Il loro nucleo non è composto da cittadini comuni, ma da attivisti qualificati che considerano l’agitazione un’occupazione a tempo pieno. Sono finanziati da un mix di fondazioni private, ricchi donatori e, in alcuni casi, risorse federali e statali. Fungono da braccio operativo e digitale di un progetto ideologico più ampio il cui obiettivo non è la riforma, ma la trasformazione. Sono uniti da una visione del mondo esplicitamente rivoluzionaria e implicitamente marxista, anche se molti dei loro militanti non usano questo linguaggio.
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All’interno di questa struttura, Diversità, Equità e Inclusione svolgono un ruolo centrale. La DEI non è una moda aziendale innocua. È un sistema di armi culturali e psicologiche. In pratica, la formazione e l’applicazione della DEI operano come un meccanismo di condizionamento comportamentale, utilizzando sensi di colpa, sessioni di lotta e la costante minaccia di punizioni sociali o professionali per riportare gli individui alla normalità. Il linguaggio delle microaggressioni, dei privilegi e dei pregiudizi sistemici funziona come una forma blanda di controllo ideologico. Costringe le persone a monitorare il proprio linguaggio, a mettere in discussione i propri istinti e a sottomettersi a un insieme in continua espansione di parole proibite e rituali obbligatori.
Questa non è inclusione. È conformismo forzato mascherato da virtù. I risultati all’interno delle istituzioni sono paura, silenzio e autocensura. Le persone imparano rapidamente che non si possono porre domande specifiche, affermare certi fatti e riconoscere certe prospettive senza mettere a repentaglio la propria carriera. Questo non è un effetto collaterale accidentale. È il punto. Se riesci a costringere le persone a mentire pubblicamente su realtà evidenti, le possiedi. La DEI è quindi meglio intesa come un’applicazione interna della rieducazione politica, in linea con gli approcci marxisti e neomarxisti al cambiamento culturale.
Redwashing è il termine che usiamo per la cancellazione sistematica di materiale che espone la storia, le tattiche e le conseguenze del marxismo. Quando l’educazione civica e la storia tradizionale americana vengono rimosse dai programmi scolastici e sostituite da narrazioni di risentimento, si prepara il terreno per una nuova ideologia. Quando la storia delle atrocità socialiste viene sepolta o ignorata, intere generazioni perdono la capacità di riconoscere modelli che i loro nonni avrebbero visto immediatamente. Questo non è accaduto per caso. L’istruzione superiore, i media e l’intrattenimento sono diventati i principali obiettivi di questa riscrittura della memoria.
Nel 2020, gli Stati Uniti erano stati sottoposti a decenni di questo rimodellamento culturale. Il Paese era arrivato quell’anno già indebolito e diviso. L’impatto combinato di una pandemia globale, di una campagna d’informazione del Partito Comunista Cinese e di disordini civili senza precedenti aveva portato il Paese a uno stato di esaurimento. Le forze dell’ordine erano sotto organico e demoralizzate. Il sistema sanitario era al limite delle sue capacità. Le scuole di ogni ordine e grado erano chiuse o ridotte a schermi. Le funzioni basilari che contraddistinguono una nazione del primo mondo erano state messe sotto assedio.
Queste condizioni erano ideali per gli attori rivoluzionari che comprendevano il concetto bolscevico della scintilla. Nella Cina di Mao, le brigate giovanili divennero strumenti di caos una volta che l’autorità della polizia fu smantellata e le strutture tradizionali indebolite. Negli Stati Uniti, le politiche che prevedevano il definanziamento e la delegittimazione della polizia, combinate con la protezione politica dei rivoltosi, produssero qualcosa di simile nello spirito. Le rivolte a catena del 2020 non furono un’eruzione spontanea. Furono una fase di condizionamento, progettata per minare la fiducia dell’opinione pubblica, normalizzare la violenza politica da sinistra e preparare il terreno emotivo per una crisi più mirata.
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Quella crisi è scoppiata il 6 gennaio. In questo caso, è essenziale comprendere la dottrina della violenza moderata. Questa tattica cerca di provocare un avversario in un atto disperato o imprudente che può poi essere utilizzato come arma per giustificare una repressione. Per un anno, gli americani hanno visto le loro città bruciare e si sono sentiti dire che si trattava di un evento per lo più pacifico. Poi, in un solo giorno, una protesta sul terreno del Campidoglio è stata presentata come un’insurrezione, una minaccia esistenziale alla «democrazia» e il fondamento morale per una campagna di arresti, sorveglianza e persecuzioni durata anni. Le rivolte della sinistra si sono fermate all’istante. La narrazione è cambiata da un giorno all’altro. Questo brusco cambiamento rivela un disegno, non una coincidenza.
Il 6 gennaio fu il punto di svolta pianificato che permise all’alleanza tra burocrazia e attivisti di dichiarare aperta la caccia agli americani conservatori e religiosi. Divenne la lente attraverso cui ogni dissenso poteva essere etichettato come pericoloso e sleale. Le persone che entrarono al Campidoglio quel giorno, molte delle quali pacifiche e sconcertate, divennero il pretesto per un progetto più ampio volto a rimodellare l’apparato di sicurezza nazionale dall’interno.
Ciò che accadde in seguito andò oltre l’attivismo di strada o la cattura culturale. Entrò nel flusso sanguigno dello Stato di sicurezza nazionale. Le conseguenze del 6 gennaio, il crollo dell’Afghanistan e gli obblighi federali sui vaccini si combinarono in un tentativo senza precedenti di rimodellare la forza lavoro federale attraverso la coercizione, l’intimidazione e la purificazione ideologica. All’interno della CIA e in tutto l’apparato di sicurezza nazionale, la rivoluzione interna raggiunse il suo apice, per poi iniziare a frantumarsi a causa delle sue stesse contraddizioni.
Il collasso sociale non è mai un evento isolato. È un processo.
Michael T. Flynn
Ex generale statunitense, già consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente degli Stati Uniti
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Immagine di Mike Shaheen via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
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La CIA, il KGB e il mistero di Igor Orlov detto Sasha
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Il capo dell’Intelligence iraniana accusa Stati Uniti e Israele di complottare per assassinare Khamenei
Il capo dei servizi segreti iraniani ha accusato Stati Uniti e Israele di aver ordito un complotto per assassinare la Guida Suprema Ayatollah Ali Khamenei, al fine di destabilizzare l’Iran, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa ISNA.
Sabato il ministro dell’Intelligence Esmail Khatib ha dichiarato che «il nemico cerca di colpire il leader supremo, a volte con tentativi di omicidio, a volte con aggressioni ostili», alludendo esplicitamente a Washington e Tel Aviv. Non è chiaro se si riferisse a un piano specifico, ma tali accuse pubbliche su minacce alla vita di Khamenei erano rare prima della guerra di 12 giorni tra Israele e Iran di giugno.
In quel conflitto, i raid israeliani hanno eliminato diversi alti ufficiali e scienziati nucleari iraniani, culminando in un cessate il fuoco mediato dagli USA il 24 giugno. Il premier Benjamin Netanyahu ha rivendicato gli attacchi come necessari per impedire a Teheran di sviluppare armi nucleari – una linea condivisa da Washington, che il 22 giugno si era unita ai bombardamenti su impianti nucleari iraniani. L’Iran, che nega ambizioni nucleari militari, ha bollato le operazioni come ingiustificate.
Khatib ha ammonito che «chi agisce in questa direzione, consapevolmente o meno, è un agente infiltrato del nemico». Ha poi rivelato che Israele sta affrontando «un’epidemia di infiltrazioni e spionaggio a favore dell’Iran nelle sue istituzioni», citando l’arresto recente di un ufficiale dell’aeronautica israeliana accusato di tradimento per Teheran. Secondo il ministro, l’Iran ha acquisito documenti segreti su programmi nucleari e sicurezza israeliana.
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Per Khatib, questa falla nel controspionaggio israeliano, unita alla «ferma posizione» iraniana durante la guerra, segnala un mutamento negli equilibri di potere regionali.
All’inizio dell’anno Netanyahu aveva smentito voci su un veto opposto dal presidente Donald Trump a un piano israeliano per eliminare Khamenei durante il conflitto, aggiungendo tuttavia che un tale strike «avrebbe posto fine alla guerra». Trump aveva replicato con minacce, definendo Khamenei un «bersaglio facilissimo» e precisando che Washington non lo avrebbe «eliminato, almeno non ora»; in seguito, su Truth Social, ha vantato di aver risparmiato al leader iraniano «una morte molto brutta e ignominiosa».
Come riportato da Renovatio 21, la Guida Suprema della Rivoluzione rispose al presidente americano promettendo «danni irreparabili» agli USA e annunciando che la Repubblica Islamica non avrebbe accettato una pace imposta.
Più tardi sarebbe emerso che lo stesso Trump avrebbe posto un veto al piano israeliano di assassinare l’ayatollah.
Khamenei, 86 anni, guida suprema dell’Iran dal 1989, detiene l’autorità ultima su ogni aspetto dello Stato. A inizio anno aveva definito «né saggio, né intelligente, né onorevole» iniziare dei colloqui con il presidente statunitense.
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Immagine di Mehr News Agency via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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