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«L’inganno di Medjugorje». E. Michael Jones racconta

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L’intervista riguardo a Medjugorje di Renovatio 21 allo studioso cattolico E. Michael Jones ha causato varie reazioni, anche piuttosto scomposte. Tuttavia, si trattava solo di un piccolo assaggio degli argomenti che il professore americano dispone sul fenomeno delle apparizioni in Erzegovina, che segue dal lontano 1988.

 

Jones ha raccolto tantissimo materiale in un libro inedito in Italia, The Medjugorje Deception: Queen of Peace, Ethnic Cleansing, Ruined Lives, («L’inganno di Medjugorje: Regina della pace, pulizia etnica, vite rovinate»). Il libro, un tempo liberamente ordinabile su Amazon, è sparito dai cataloghi della libreria online ancora anni fa, così come gli altri testi dell’autore, che nonostante i numerosi saggi prodotti, con tomi anche da migliaia di pagine, a questo punto parrebbe non essere mai esistito – cancellato, rimosso in una damnatio memoriae dell’era di internet prima di tanti altri. I tentativi di chi scrive acquistare il libro anche presso altre librerie online si sono rivelati infruttuosi, ed ora i libri in lingua inglese di Jones sembrano essere stati fatti sparire anche dal sito di IBS-Feltrinelli.

 

Alla luce del bizzarro Nihil obstat vaticano al culto apparizionista balcanico era inevitabile che la rilevanza del lavoro dello scrittore ed editore americano su Medjugorje tornasse a farsi sentire.

 

Renovatio 21 ha avuto modo di leggere in anteprima il nuovo saggio che Jones ha preparato su Medjugorje e il nuovo documento firmato dal cardinale Victor Emanuel Fernandez. Il testo sarà pubblicato in inglese nella prossima edizione di Culture Wars, la rivista diretta da decenni dallo studioso dell’Indiana.

 

Come sempre leggendo i suoi testi, si è travolti dalla mole di ricerca, la densità dell’informazione, oltre che dallo stile letterario preciso. Al contempo, si può venire presi di sorpresa da alcune dichiarazioni, sino a restare increduli, o sconvolti, o mortificati.

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L’allusione ad un presunto giro di riciclaggio di danaro operato da italiani ci coglie di sorpresa, perché, quantomeno a livello di chi organizza i viaggi, abbiamo personalmente conosciuto solo persone belle ed integerrime – non lo stesso forse si può dire per alcune figure innestatesi direttamente dentro il territorio. Jones tuttavia sostiene di avere per questa vaga informazione una buona fonte nella politica bosniaca connessa, secondo quanto riportato, ad un vescovo emerito locale. Non sappiamo cosa pensare, presentiamo semplicemente le parole scritte da Jones al lettore, aspettando le testimonianze in un senso o nell’altro da parte dei lettori.

 

Riguardo la presenza di attività preternaturale in loco – cioè, di azione da parte dei diavoli – le voci abbondano, ma sono in genere rubricate come una conseguenza della presenza del Bene, che attirerebbe intorno a sé l’opera del Maligno.

 

Il contesto storico e geopolitico in cui l’autore inquadra le presunte apparizioni della Gospa – i lunghi anni della mostruosa guerra civile jugoslava, con le sue stragi belluine e dietro gli interessi internazionali di NATO e altri soggetti – mai sono stati discussi davvero da chi si occupa delle apparizioni, nonostante si tratti di una questione macroscopica davvero. 

 

Per molti lettori, fedeli o meno, vi sarà molto da riflettere, e ancora di più – se se ne ha il coraggio – da discutere. Renovatio 21 chiede a tutti solo di mantenere toni degni della civiltà cristiana. L’eventuale mancanza già è di per sé un segnale forte nella comprensione del quadro generale.

 

Di seguito riportiamo in anteprima ampi stralci dell’articolo di prossima uscita del professor Jones.

 

 

Giovedì 20 settembre il Vaticano ha rilasciato una dichiarazione su Medjugorje. L’USCCB [la Conferenza Episcopale USA, ndt] ha fornito una buona sintesi della natura contraddittoria della dichiarazione contenuta nel titolo dell’articolo apparso in Our Sunday Visitor quando scrive: «il Vaticano vede il valore spirituale di Medjugorje, non lo giudica soprannaturale».

 

I cattolici, l’articolo continuava, «possono beneficiare spiritualmente dei messaggi e delle pratiche spirituali legate alle presunte apparizioni di Maria a Medjugorje, in Bosnia-Erzegovina, ha affermato il Dicastero vaticano per la Dottrina della Fede (DDF). «Ciò non implica una dichiarazione del carattere soprannaturale del fenomeno», né significa che le decine di migliaia di presunti messaggi di Maria pubblicati dai presunti “veggenti” siano autentici, afferma il dicastero in una nota diffusa oggi. Con l’approvazione di Papa Francesco, il dicastero ha però riconosciuto «i frutti abbondanti e diffusi, così belli e positivi», legati alla devozione a Maria, Regina della Pace, e ai pellegrinaggi a Medjugorje».

 

Il documento vaticano spiega poi che «è importante chiarire sin dall’inizio che le conclusioni di questa Nota non implicano un giudizio circa la vita morale dei presunti veggenti» (1). A meno che il Vaticano non abbia revocato i Dieci Comandamenti quando non stavo prestando attenzione, l’ottavo comandamento vieta di mentire. In altre parole, è impossibile giungere ad una conclusione sui presunti messaggi di Medjugorje senza che il Dicastero si pronunci sulla vita morale dei presunti veggenti. Partendo con il piede sbagliato, il Dicastero insiste su una rigorosa compartimentazione che separa il bene dal vero, il che può solo portare a ulteriore confusione.

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Questo ci porta al problema fondamentale con il documento. La Chiesa cattolica può pronunciarsi infallibilmente sulla fede o sulla morale, ma non ha tale carisma quando si tratta della valutazione delle rivelazioni private, che devono essere giudicate secondo i normali criteri con cui gli uomini discernono la verità, nel senso di come lo farebbe un tribunale o un giornalista investigativo nella determinazione della verità.

 

Non solo questo documento non lo fa, ma afferma ripetutamente che la verità delle circostanze relative alle presunte apparizioni non ha nulla a che fare con l’accertamento della loro validità. Il dicastero ha ripetutamente affermato che la questione se i veggenti mentissero era irrilevante e si è lanciato quasi immediatamente nell’esame dei presunti messaggi della Madonna.

 

Apetta un minuto! Come facciamo a sapere che questi messaggi sono autentici, se non possiamo esprimere un giudizio «sulla vita morale dei presunti veggenti»? Se non possiamo esprimere giudizi, come possiamo sapere se mentono o no?

 

Il DDF poi aggrava la sua affermazione affermando che: «i doni carismatici (gratiae gratis datae) – che possano essere collegati ad essa – non esigono necessariamente la perfezione morale delle persone coinvolte per poter agire». Innanzitutto, se la «perfezione morale» fosse il primo criterio, la trasmissione di rivelazioni private sarebbe impossibile perché nessuno tranne il nostro Padre celeste è perfetto.

 

Ma in secondo luogo, il DDF non propone qui un argomento circolare? Perché danno per scontato che i «doni carismatici» siano presenti in primo luogo quando non sono disposti ad assicurarci che i veggenti non mentono? Mons. Pavao Zanic, il primo vescovo di Mostar-Duvno ad interrogare i presunti veggenti, ha concluso dalle loro bugie e contraddizioni che avevano messo delle parole nella bocca della Madonna.

 

Dopo averci detto che non possono garantire sull’onestà dei veggenti, il documento mina ulteriormente la nostra fede nelle presunte apparizioni ammettendo che «certi messaggi – secondo l’opinione di alcuni – presenterebbero delle contraddizioni o sarebbero legati a desideri o interessi dei presunti veggenti o di altre persone».

 

Alcuni? Possiamo essere più specifici qui? Il DDF si riferisce forse ai vescovi Zanic e Peric, autorità legittimata nella valutazione delle rivelazioni private nella diocesi di Mostar-Duvno? Entrambi hanno ripetutamente sorpreso i veggenti a diffondere bugie e assurdità.

 

Dopo aver escluso da ogni menzione nel loro documento i due vescovi che avevano il potere di esaminare la questione, il DDF ammette poi che «non si può escludere che ciò possa essere successo nel caso di alcuni pochi messaggi».

 

Alcuni pochi messaggi? Quanti sono pochi? Considerato che la presunta Gospa ha parlato per anni accumulando oltre 50.000 messaggi, si potrebbe parlare di centinaia se non migliaia di messaggi dubbi, che, come ammette poi il Dicastero «a volte appaiono connessi ad esperienze umane confuse, ad espressioni imprecise dal punto di vista teologico o ad interessi non del tutto legittimi».

 

Questo agnosticismo morale è completamente nuovo. Uno dei criteri principali stabiliti da Papa Benedetto XIV per la valutazione delle rivelazioni private è la veridicità del veggente. Se il veggente viene sorpreso a mentire, l’apparizione viene screditata. Punto.

 

Questo è proprio quello che è successo quando mons. Pavao Zanic ha interrogato i veggenti poco dopo l’inizio delle apparizioni. Ben disposto all’inizio, mons. Zanic cambiò idea dopo aver sorpreso i veggenti in una contraddizione dopo l’altra.

 

I primi messaggi della Gospa sul fazzoletto insanguinato che avrebbe portato alla fine del mondo se fosse stato gettato nel fiume Nredva o in qualche altro specchio d’acqua furono semplicemente lasciati cadere nel buco della memoria e sostituiti da messaggi disinfettati dai frati francescani con dottorati in teologia, che è stato raccolto in un libro, che il cardinale Fernandez ha spesso brandito durante la sua conferenza stampa come per sostenere la sua causa. Quel libro è divenutol’unica base della dichiarazione del Vaticano.

 

(…)

 

Il Dicastero prosegue poi lodando i «frutti positivi» che «si rivelano soprattutto come la promozione di una sana pratica di vita di fede, d’accordo con quanto presente nella tradizione della Chiesa», inducendo a chiedersi se ci siano stati «frutti negativi».

 

(…)

 

Non dovrebbe sorprendere che Medjugorje sia infestata dai demoni, cosa che ho constatato parlando con padre Philip Pavic, che ha perso la fede nella veridicità delle apparizioni dopo aver trascorso ore in confessionale ascoltando storie di pellegrini strangolati dai loro rosari e strani fenomeni atmosferici nella stanza delle apparizioni.

 

Ho anche ricevuto una chiamata da un Unitario di Boston che è rimasto sbalordito nel vedere una donna nuda attraversare la porta aperta della sua stanza e poi attraversare la parete opposta. Quando mi chiese di spiegare cosa fosse successo, pensai che probabilmente non si trattava della Madonna, che generalmente indossa abiti quando appare nelle visioni ai veggenti. Allora gli spiegai che ciò che vedeva era un demone che aveva assunto forma umana per qualche scopo nefasto.

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Sei anni dopo l’inizio delle apparizioni, mons. Zanic ne ebbe abbastanza. Il 25 giugno 1987 mons. Zanic è arrivato nella parrocchia di San Giacomo a Medjugorje per fare le cresime ma anche per esprimere le sue ultime sensazioni riguardo alle apparizioni nel giorno del loro sesto anniversario. «Coloro che mettono le parole nella bocca della Madonna», ha detto senza mezzi termini, «meritano il posto più basso all’inferno».

 

Quanto al segno miracoloso, che secondo Marinko Ivankovic sarebbe apparso entro il 13 agosto 1986, finalmente è arrivato, ha annunciato il vescovo. «È il tuo silenzio», ha detto alla folla intimidita nella chiesa riferendosi alla Madonna, «Tu non sei qui».

 

«Io, Vescovo di Mostar, davanti alla moltitudine dei tuoi ammiratori sparsi nel mondo, scopro e accetto il tuo grande segno, divenuto certo e chiaro dopo questi sei anni. È il tuo SILENZIO… Ti ringrazio mia signora per il tuo silenzio lungo sei anni. È così che ci dimostri se hai davvero parlato qui, se sei apparso, se hai diffuso messaggi… Vergine Santa, Madre di Cristo e Madre nostra, intervieni per la pace in questa inquieta diocesi di Mostar. Soprattutto intervieni per questo luogo, questa parrocchia dove tante volte il tuo nome è stato usato in discorsi non tuoi. Possa tu fermare la fabbricazione dei tuoi messaggi. Accogli, Vergine Santa, come soddisfazione le preghiere sincere delle anime devote che si tengono lontane dal fanatismo e dalla disobbedienza alla Chiesa» (2).

 

L’ossessiva insistenza del Dicastero sui «frutti positivi» inizia a suonare vuota alla fine del documento. Come avrebbe potuto dire Shakespeare, il Dicastero protesta troppo, soprattutto quando ci dice che Medjugorje è «percepito come uno spazio di grande pace, raccoglimento e pietà sincera, profonda e facilmente condivisibile».

 

A questo punto il Dicastero avrebbe dovuto condividere il messaggio con cui Marija Pavlovic ha detto al mondo che la prova dell’autenticità dei messaggi di Nostra Signora Regina della Pace era che la Jugoslavia viveva in pace, finché, sfortunatamente, la Jugoslavia è precipitata in una sanguinosa guerra civile finanziata in parte da parte croata con il denaro che i creduloni «pellegrini» avevano lasciato a Medjugorje. A quel punto, il messaggio della Gospa di Pavlovic è finito nel vuoto di memoria di Medjugorje, uno dei più grandi esistenti.

 

Nelle sue effusioni sulla pace e sui frutti positivi, il Dicastero avrebbe potuto menzionare l’assedio di Sarajevo o il bombardamento di Dubrovnik, o le presunte atrocità di Rajak con cui la NATO ha giustificato l’attacco alla Serbia, ma non lo ha fatto, minando ulteriormente la credibilità di il proprio documento. Per perpetuare il mito della «Regina della Pace», il Dicastero ha dovuto ignorare tutte queste verità scomode e dissociarle dai veggenti.

 

In un passaggio notevole, il Dicastero scrive che «frutti positivi legati a questa esperienza spirituale che, nel frattempo, si sono separati dall’esperienza dei presunti veggenti, i quali non sono più da percepire come mediatori centrali del “fenomeno Medjugorje”, in mezzo al quale lo Spirito Santo opera tante cose belle e positive».

 

E la pulizia etnica? (…) E il bombardamento della biblioteca del monastero francescano a Dubrovnik? E il tentativo sponsorizzato dalla NATO di trasformare la Serbia in una provincia del Kosovo?

 

Il Dicastero conclude il suo comunicato con una sezione dedicata ai «Necessari chiarimenti» che mette in dubbio la loro allegra affermazione secondo cui «l’insieme dei messaggi possiede un grande valore ed esprime con parole differenti i costanti insegnamenti del Vangelo», anche dopo essere costretti ad ammettere che «alcuni pochi messaggi si allontanano da questi contenuti così positivi ed edificanti e sembra persino che arrivino a contraddirli». Ma non prestare attenzione a questi messaggi, anche se «mettono in ombra la bellezza dell’insieme».

 

Il documento poi si mette decisamente sulla difensiva quando fa riferimento a «gruppi minoritari» che vogliono «distorcere la preziosa proposta di quest’esperienza spirituale, soprattutto se si leggono parzialmente i messaggi».

 

Chi sono questi piccoli gruppi senza nome? Il Dicastero si riferisce forse alla Conferenza episcopale jugoslava, che nel 1991 proclamò che non c’era nulla di soprannaturale in Medjugorje, confermando la posizione di mons. Zanic? Il Dicastero si riferisce a Fidelity Press, editrice de L’inganno di Medjugorje?

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Dimenticate i «gruppi minoritari». Una domanda migliore è: dobbiamo prendere sul serio o no gli avvertimenti del Dicastero sugli errori presenti nei messaggi? Perché il Dicastero giustifica costantemente gli errori teologici della Gospa? A che punto l’insistenza sulla legittimità dei messaggi crolla sotto gli avvertimenti del Dicastero?

 

Come quando si ritiene che:

 

«Quest’insistenza diventa ancora più problematica quando i messaggi si riferiscono a richieste di improbabile origine soprannaturale, come quando la Madonna impartisce degli ordini circa date, posti, aspetti pratici, e prende decisioni su questioni ordinarie. Anche se i messaggi di questo tipo non sono frequenti in Medjugorje, ne troviamo alcuni che si spiegano unicamente a partire dai desideri personali dei presunti veggenti. Quello che segue è un chiaro esempio di questi messaggi fuorvianti: “Il 5 agosto prossimo si celebri il secondo millennio della mia nascita […]. Vi chiedo di prepararvi intensamente con tre giorni […]. In questi giorni non lavorate” (01.08.1984)».

 

Per sua stessa ammissione, il Dicastero è costretto a dire ai fedeli di far uso «della prudenza» e «del buon senso» e di «non prendere sul serio questi dettagli né tenerne conto». Va bene. Ma allora perché il Dicastero ha poi aggiunto: «ma questo fatto non deve indurre a disprezzare la ricchezza e la bontà della proposta di Medjugorje nel suo insieme», quando sembra opportuno trarre la conclusione esattamente opposta.

 

La Gospa, secondo l’ammissione dello stesso Dicastero, continua a commettere un errore teologico dopo l’altro, come quando annunciò il 17 luglio 1986: «Io sono la mediatrice tra voi e Dio». Questo passo falso ha costretto il Dicastero ad ammettere che:

 

«Utilizzata in questo modo, l’espressione “mediatrice” porterebbe erroneamente ad attribuire a Maria un posto che è unico ed esclusivo del Figlio di Dio fatto uomo; si porrebbe, infatti, in contraddizione con ciò che afferma la Sacra Scrittura quando dice che c’è un solo “mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato sé stesso in riscatto per tutti” (1Tm 2,5‒6). D’altra parte, questi presunti messaggi non riescono ad esprimere bene, come spiegava san Giovanni Paolo II, che la cooperazione di Maria è una “mediazione subordinata” a quella di Cristo (cfr. Redemptoris Mater 39), in modo che “nulla sia detratto o aggiunto alla dignità e alla efficacia di Cristo, unico Mediatore” (Lumen gentium 62)».

 

Invece di mandare la Madonna di Medjugorje a un corso elementare di Teologia al Biblicum, il Dicastero attribuisce la sua cattiva teologia all’«intercessione materna», e poi prosegue concedendo un Nihil obstat, la più alta forma di approvazione da parte del Vaticano a Medjugorje dopo averne minato completamente la credibilità.

 

A tacita ammissione di tale fatto, il Dicastero assicura che il loro Nihil obstat implica «una dichiarazione del carattere soprannaturale del fenomeno in parola» e allo stesso tempo ricorda «che i fedeli non sono obbligati» a credere alle apparizioni che hanno così ampiamente smentito nel loro stesso documento.

 

Il Dicastero conclude dicendo che «la valutazione degli abbondanti e diffusi frutti tanto belli e positivi non implica dichiarare come autentici i presunti eventi». O come direbbero gli italiani: «se non e vero, è ben trovato». Vale a dire, anche se non è vero, è davvero un’ottima invenzione.

 

Come dice Clint Eastwood al rapinatore di banche nero in Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, «so cosa stai pensando». E. Michael Jones è selettivo nella sua obbedienza all’autorità della Chiesa. Ma non è così. La Chiesa non può parlare infallibilmente di rivelazioni private, che coinvolgono circostanze storiche particolari che non rientrano né nel mandato della fede né della morale.

 

In questo caso un giornalista investigativo ha più autorità di un cardinale romano, soprattutto se nella sua inchiesta tiene conto del fatto che due successivi vescovi della diocesi di Mostar-Duvno, che hanno il dovere di occuparsi di questioni come questa, hanno dichiarato che «il fenomeno Medjugorje» era una frode.

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Il fatto che la conferenza episcopale jugoslava abbia appoggiato il suo giudizio è significativo per chi cerca di andare a fondo di questo fenomeno, motivo per cui il giudizio negativo di nessuno dei due vescovi è stato menzionato nella dichiarazione del dicastero, sebbene il cardinale Fernandez ne abbia parlato nella sua conferenza stampa in lingua italiana.

 

Perché allora il Vaticano ha rilasciato questa dichiarazione? La risposta che ho ricevuto da un membro del Parlamento della Bosnia-Erzegovina che ha stretti legami con il vescovo Peric, ora in pensione, è riciclaggio di denaro.

 

Gli italiani, mi ha detto senza entrare nei dettagli, creano a Medjugorje fondazioni esentasse che accettano denaro come contributo di beneficenza e poi inviano il denaro ai bosniaci che con quel denaro creano poi operazioni a scopo di lucro come i distributori di benzina, che poi vengono restituiti al donatore dopo che la stazione di servizio inizia a generare denaro.

 

(…)

 

Quasi 300 anni fa, Prospero Lambertini, come Papa Benedetto XIV, scrisse un libro intitolato La Beatificazione dei Servi di Dio e sulla Canonizzazione dei Beati. Il libro di Lambertini sulla canonizzazione è anche uno dei lavori fondamentali sulla valutazione delle rivelazioni private. E oltre a ciò ha molto da dire anche sui pericoli associati alle rivelazioni private.

 

Il libro di Lambertini possiede una sofisticazione quando si tratta di cose spirituali a cui questa epoca farebbe bene a prestare attenzione, spiegando che gli spiriti maligni «hanno talvolta raccomandato ciò che è bene per impedire un bene maggiore, e hanno incoraggiato le persone a compiere particolari atti di virtù affinché possano più facilmente ingannare gli incauti e col passare del tempo portarli gradualmente a commettere i peccati più orribili».

 

Si scopre che gli incauti si presentano nei posti in cui meno ci si aspetterebbe, ad esempio nelle più alte cariche della Chiesa cattolica. Lambertini ha citato l’esempio del suo predecessore, Papa Gregorio XI, che giaceva sul letto di morte, stringendo al petto l’Eucaristia e avvertendo coloro che lo circondavano di «guardarsi dagli uomini e dalle donne che sotto il pretesto della religione parlano di visioni della loro testa».

 

Papa Gregorio XI, proseguiva Lambertini, «sedotto da tali, aveva trascurato il ragionevole consiglio dei suoi amici e aveva trascinato se stesso e la Chiesa al pericolo di uno scisma imminente».

 

E. Michael Jones

 

NOTE

1) https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_ddf_doc_20240919_nota-esperienza-medjugorje_it.html

2) E. Michael Jones, Medjugorje Deception, p. 161.

 

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Trump e la potenza del tacchino espiatorio

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Il presidente americano ha ancora una volta dimostrato la sua capacità di creare scherzi che tuttavia celano significati concreti – e talvolta enormi.   L’ultima trovata è stata la cerimonia della «grazia al tacchino», un frusto rito della Casa Bianca introdotto nel 1989 ai tempi in cui vi risiedeva Bush senior. Il tacchino, come noto, è l’alimento principe del giorno del Ringraziamento, probabilmente la più sentita ricorrenza civile degli americani, che celebra il momento in cui i Padri Pellegrini, utopisti protestanti, furono salvati dai pellerossa che indicarono ai migranti luterani come a quelli latitudini fosse meglio coltivare il granturco ed allevare i tacchini. Al ringraziamento degli indiani indigeni seguì poco dopo il massacro, però questa è un’altra storia.   Fatto sta che il tacchino, creatura visivamente ripugnante per i suoi modi sgraziati e le sue incomprensibili protuberanze carnose, diventa un simbolo nazionale americano, forse persino più importante dell’aquila della testa bianca, perché il rapace non raccoglie tutte le famiglie a cena in una magica notte d’inverno, il tacchino sì. Tant’è che ai due fortunati uccelli di quest’anno, Gobble e Waddle (nomi scelti online dal popolo statunitense, è stata fatta trascorrere una notte nel lussuosissimo albergo di Washington Willard InterContinental.  

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Da più di un quarto di secolo, quindi, eccoti che qualcuno vicino alla stanza dei bottoni si inventa che il commander in chief appaia nel giardino delle rose antistante la residenza e, a favore di fotografi, impartista una grazia al tacchino, salvandolo teoricamente dal finire sulla tavola – in realtà ci finisce comunque suo fratello, o lui stesso, ma tanto basta. Non sono mancati i momenti grotteschi, come quando il bipede piumato, dinanzi a schiere di alti funzionari dello stato e giornalisti, ha scagazzato ex abrupto e ad abundantiam lasciando puteolenti strisce bianche alla Casa Bianca.   Non si capisce cosa esattamente questo rituale rappresenti, se non la ridicolizzazione del potere del presidente di comminare grazie per i reati federali, tema, come sappiamo quanto mai importante in quest’ultimo anno alla Casa Bianca, visti le inedite «grazie preventive» date al figlio corrotto di Biden Hunter, al plenipotenziario pandemico Anthony Fauci, al generale (da alcuni ritenuto golpista de facto) Mark Milley. Sull’autenticità delle firme presidenziali bideniane non solo c’è dibattito, ma l’ipostatizzazione del problema nella galleria dei ritratti dei presidenti americani, dove la foto di Biden, considerato in istato di amenza da anni, è sostituita da un’immagine dell’auto-pen, uno strumento per automatizzare le firme forse a insaputa dello stesso presidente demente.   Ecco che Donaldo approffitta della cerimonia del pardon al tacchino per lanciare un messaggio preciso: appartentemente per ischerzo, ma con drammatico valore neanche tanto recondito.   Trump si mette a parlare di un’indagine approfondita condotta da Bondi e da una serie di dipartimenti su di « una situazione terribile causata da un uomo di nome Sleepy Joe Biden. L’anno scorso ha usato un’autopsia per concedere la grazia al tacchino».   «Ho il dovere ufficiale di stabilire, e ho stabilito, che le grazie ai tacchini dell’anno scorso sono totalmente invalide» ha proclamato il presidente. «I tacchini conosciuti come Peach and Blossom l’anno scorso sono stati localizzati e stavano per essere macellati, in altre parole, macellati. Ma ho interrotto quel viaggio e li ho ufficialmente graziati, e non saranno serviti per la cena del Ringraziamento. Li abbiamo salvati al momento giusto».   La gente ha iniziato a ridere. Testato il meccanismo, Trump ha continuato quindi ad usare i tacchini come veicoli di attacco politico.   «Quando ho visto le loro foto per la prima volta, ho pensato che avremmo dovuto mandargliele – beh, non dovrei dirlo – volevo chiamarli Chuck e Nancy», ha detto il presidente riguardo ai tacchini, facendo riferimento ai politici democratici Chuck Schumer e Nancy Pelosi. «Ma poi ho capito che non li avrei perdonati, non avrei mai perdonato quelle due persone. Non li avrei perdonati. Non mi importerebbe cosa mi dicesse Melania: ‘Tesoro, penso che sarebbe una cosa carina da fare’. Non lo farò, tesoro».   Dopo che il presidente ha annunciato che si tratta del primo tacchino MAHA (con tanto di certificazione del segretario alla Salute Robert Kennedy jr.), l’uso politico del pennuto è andato molto oltre, nell’ambito dell’immigrazione e del terrorismo: «invece di dar loro la grazia, alcuni dei miei collaboratori più entusiasti stavano già preparando le carte per spedire Gobble e Waddle direttamente al centro di detenzione per terroristi in El Salvador. E persino quegli uccelli non vogliono stare lì. Sapete cosa intendo».   Tutto bellissimo, come sempre con Trump. Il quale certamente non sa che l’uso del tacchino espiatorio non solo non è nuovo, ma ha persino una sua festa, in Alta Italia.

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Parliamo dell’antica Giostra del Pitu (vocabolo piementose per il pennuto) presso Tonco, in provincia di Asti. La ricorrenza deriverebbe da usanze apotropaiche contadine, dove, per assicurarsi il favore celeste al raccolto, il popolo scaricava tutte le colpe dei mali che affligevano la società su un tacchino, che rappresentava tacitamente il feudatario locale. Secondo la leggenda, questi era perfettamente a conoscenza della neanche tanto segreta identificazione del tacchino con il potere, e lasciava fare, consapevole dello strumento catartico che andava caricandosi.   Tale mirabile festa piemontese va vanti ancora oggi, anticipata da un corteo storico che riproduce la visita dei nobili a Gerardo da Tonco, figura reale del luogo e fondatore dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni in Gerusalemme, poi divenuto Sovrano Militare Ordine di Malta.     Subito dopo il gruppo che accompagna Gerardo avanza il carro su cui troneggia il tacchino vivo, autentico protagonista della celebrazione. Seguono quindi i giudici e i carri delle varie contrade del paese, che mettono in scena, con grande realismo, momenti di vita contadina tradizionale. Il passaggio del tacchino è tra ali di folla che non esitano ad insultare duramente il pennuto sacrificale.   Il clou dell’evento è il cosiddetto processo al Pitu, arricchito da un vivace botta-e-risposta in dialetto piemontese tra l’accusa pubblica e lo stesso Pitu, il quale tenta inutilmente di difendersi. Dopo la inevitabile condanna, il Pitu chiede come ultima volontà di fare testamento in pubblico, dando vita a un nuovo momento di ilarità.   Durante la lettura del testamento, infatti, egli si vendica della sentenza rivelando, sempre in stretto dialetto, vizi grandi e piccoli dei notabili e dei personaggi più in vista della comunità. Fino al 2009, al termine del testamento, un secondo tacchino (già macellato e acquistato regolarmente in macelleria, quindi comunque destinato alla tavola) veniva appeso a testa in giù al centro della piazza. Dal 2015, purtroppo, il tacchino è stato sostituito da un pupazzo di stoffa, così gli animalisti sono felici, ma il tacchino in zona probabilmente lo si mangia lo stesso.   Ci sarebbe qui da lanciarsi in riflessioni abissali sulla meccanica del capro espiatorio di Réné Girard, ma con evidenza siamo già oltre, siamo appunto al tacchino espiatorio.   Il tacchino espiatorio diviene il dispositivo con cui è possibile, se non purificare, esorcizzare, quantomeno dire dei mali del mondo.   Ci risulta a questo punto impossibile resistere. Renovatio 21, sperando in una qualche abreazione collettiva, procede ad accusare l’infame, idegno, malefico tacchino, che gravemente nuoce a noi, al nostro corpo, alla nostra anima, al futuro dei nostri figli.   Noi accusiamo il tacchino di rapire, o lasciare che si rapiscano, i bambini che stanno felici nelle loro famiglie.   Noi accusiamo il tacchino di aver messo il popolo a rischio di una guerra termonucleare globale.   Noi accusiamo il tacchino di praticare una fiscalità che pura rapina, che costituisce uno sfruttamento, dicevano una volta i papi, grida vendetta al cielo.   Noi accusiamo il tacchino di essere incompetente e corrotto, di favorire i potenti e schiacciare i deboli. Noi accusiamo il tacchino di essere mediocre, e per questo di non meritare alcun potere.   Noi accusiamo il tacchino di aver accettato, se non programmato, l’invasione sistematica della Nazione da parte di masse barbare e criminali, fatte entrare con il chiaro risultato della dissoluzione del tessuto sociale.   Noi accusiamo il tacchino di favorire gli invasori e perseguitare gli onesti cittadini contribuenti.   Noi accusiamo il tacchino di aver degradato la religione divina, di aver permesso la bestemmia, la dissoluzione della fede. Noi accusiamo il tacchino di essere, che esso lo sappia o meno, alleato di Satana.   Noi accusiamo il tacchino di operare per la rovina dei costumi.   Noi accusiamo il tacchino per la distruzione dell’arte e della bellezza, e la sua sostituzione con bruttezza e degrado, con la disperazione estetica come via per la disperazione interiore.   Noi accusiamo il tacchino di essere un effetto superficiale, ed inevitabilmente tossico, di un plurisecolare progetto massonico di dominio dell’umanità.   Noi accusiamo per la strage dei bambini nel grembo materno, la strage dei vecchi da eutanatizzare, la strage di chi ha avuto un incidente e si ritrova squartato vivo dal sistema dei predatori di organi.   Noi accusiamo il tacchino del programa di produzione di umanoidi in provetta, con l’eugenetica neohitlerista annessa.   Noi accusiamo il tacchino di voler alterare la biologia umana per via della siringa obbligatoria.   Noi accusiamo il tacchino di spacciare psicodroghe nelle farmacie, che non solo non colmano il vuoto creato dallo stesso tacchino nelle persone, ma pure le rendono violente e financo assassine.   Noi accusiamo il tacchino per l’introduzione della pornografia nelle scuole dei nostri bambini piccoli. Noi accusiamo il tacchino per la diffusione della pornografia tout court.   Noi accusiamo il tacchino per l’omotransessualizzazione, culto gnostico oramai annegato nello Stato, con i suoi riti mostruosi di mutilazione, castrazione, con le sue droghe steroidee sintetiche, con le sue follie onomastiche e istituzionali.   Noi accusiamo il tacchino di voler istituire un regime di biosorveglianza assoluta, rafforzato dalla follia totalitaria dell’euro digitale.   Noi accusiamo il tacchino, agente inarrestabile della Necrocultura, della devastazione inflitta al mondo che stiamo consegnando ai nostri figli.   Tacchino maledetto, i tuoi giorni sono contati. Sappi che ogni giorno della nostra vita è passato a costruire il momento in cui, tu, tacchino immondo, verrai punito.   Roberto Dal Bosco

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Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.

 

Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.

 

Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.

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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.

 

Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.

 

Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.

 

Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.

 

Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.

 

O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.

 

Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.

 

Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.

 

Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».

 

Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.

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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.

 

Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.

 

Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.

 

Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.

 

Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.

 

Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.

 

la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.

 

La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.

 

Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.

 

Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.

 

Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.

 

Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.

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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.

 

Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.

 

Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.

 

Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».

 

E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.

 

Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.

 

Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.

 

Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.

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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.

 

Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.

 

Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.

 

Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.

 

Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.

 

Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.

 

Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.

 

Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.

 

Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.

 

Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.

 

Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.

 

Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».

 

Patrizia Fermani

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Eutanasia

Il vero volto del suicidio Kessler

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Vi è tutta una tradizione di geremiadi sulle stragi perpetrate dai tedeschi in Italia, che va dal Sacco di Roma dei Lanzichenecchi (1527) agli eccidi compiuti dai soldati nazisti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una strage ulteriore è partita in queste ore, ma pare non ci sia nessuno a cercare di fermarla: anzi, consapevoli o no, i funzionari dell’esablishment, e di conseguenza il quivis de populo, sono impegnati ad alimentarla.   Esiste infatti un fenomeno sociologico preciso, conosciuto ormai da due secoli, chiamato «effetto Werther», che descrive l’aumento dei suicidi in seguito alla diffusione mediatica di un caso di suicidio, per imitazione o suggestione emotiva. Esso prende nome dal romanzo I dolori del giovane Werther di Goethe (1774), la cui pubblicazione fu seguita da una serie di suicidi imitativi tra i giovani europei, tanto da spingere alcune nazioni a vietarne la vendita. Quella del suicidio come contagio non è un residuo dello scorso millennio. Vogliamo ricordare, specie all’Ordine dei Giornalisti e alle autorità preposte, che le direttive per il discorso pubblico sui suicidi sono molto precise: le cronache del suicidio vanno limitate, soppesate, controllate, perché è altissima la possibilità che i lettori ne traggano un’ulteriore motivazione per farla finita. Perfino nei motori di ricerca, alla minima query sulla materia, spuntano come funghi i numeri di telefono delle linee anti-suicidio.

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«Le norme deontologiche indicano chiaramente le cautele con cui devono essere esposti questi casi per non provocare dei fenomeni di emulazione: ci sono dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dimostrano in modo chiaro che parlare dei suicidi fa aumentare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita» scrive l’Ordine, che sull’argomento organizza pure abbondanti corsi di aggiornamento.   Tutto questo pudore civile e spirituale è stato completamente inghiottito dalla propaganda sulle nuove frontiere dell’autodeterminazione, quella che vuole convincere tutti di essere padroni incontrastati della propria vita e della propria morte, e ci sta riuscendo alla grande. La morte assistita assume pure, in quest’era grottesca, le forme delle gambe delle Kessler – che, forse temendo un cortocircuito di senso, non si sono rivolte per la pratica all’Associazione Coscioni.    Il loro è stato un bel finestrone di Overton aperto sull’autosoppressione pianificata: basta guardare come ne parlano i giornali, le TV, gli ebeti al bar, per comprendere come esso serva a sdoganare definitivamente il suicidio come valore.   E per giunta una forma di suicidio nuova, con conseguenze sul racconto pubblico ancor più insidiose: par di capire infatti che si tratti di un suicidio per «vita completa», cioè il caso in cui l’aspirante morituro sente di aver esaurito, con più o meno soddisfazione, la sua esistenza. In Olanda, dove la fattispecie trova la naturale assistenza dello Stato eutanatico fondamentalista, la chiamano voltooid leven, e si adatta agli anziani (di solito tra i 70–75 anni) che non soffrono gravemente e spesso godono di una salute relativamente buona, ma che vogliono concludere la vita dettando loro le condizioni: i tempi, il contesto, la scenografia.   Le Kessler avevano deciso di morire. La piccola autostrage omozigotica era perfettamente programmata: la disdetta dell’abbonamento al quotidiano bavarese spedita per lettera con la data esatta del suicidio (la precisione tedesca!), i regalini inviati per arrivare a destinazione post mortem, la disposizione di essere cremate (ovvio) e di mettere in un’urna unica le proprie ceneri insieme a quelle della madre e del cane Yello. Particolare, quest’ultimo che, nel finestrone, apre un altro finestrino.   Le gemelle erano, come tante persone morbosamente legate a cani e gatti, nullipare: niente figli, per scelta emancipativa (tra le cronache che le immortalavano accompagnate a questo o quel divo, dicevano di aver visto il papà picchiare la mamma i fratelli morire in guerra: come in effetti non è mai accaduto a nessuno).   Morire così, facendosi trovare in una casa vuota, è qualcosa che ripugna al pensiero di chiunque abbia una famiglia. Perché, nella scansione naturale per cui si è figlie, ragazze, fidanzate, spose, madri, nonne, la casa si riempie di consanguinei e nemmeno solo di quelli. Nella famiglia (non fateci aggiungere l’aggettivo «tradizionale») non si può morire soli: la tua mano è stretta tra quelle di tante persone di generazioni diverse. Abbiamo in mente il caso di una nonna veneta, che, attorniata da una dozzina di figli, nipoti e pronipotini, mentre moriva pronunciò due semplici e inaspettate parole: «me spiaze», mi dispiace. Del resto, si accingeva a lasciare un intero universo che non solo non era vuoto, ma che materialmente, incontrovertibilmente, le voleva bene.

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Ecco la condanna definitiva che proviene dal mondo creatosi con il dopoguerra e il boom economico: egotismo infinito e terminale che arriva ad impedire, oltre che la trascendenza, pure la discendenza. Persone narcotizzate e sterilizzate dalla TV, o per chi come loro stava dall’altra parte, catturate dal culto dell’immagine e del successo; soggetti che, programmaticamente rifiutando di procreare – e quindi di tramandare un pezzo della propria vita biologica, un pezzo di codice, un pezzo di cuore – coltivano una visione solipsista dell’esistenza suscettibile di sfociare nel nichilismo sociopatico. Si precludono così quella forma istintiva di empatia che, antivedendo il danno che un gesto estremo può provocare ad altri, tiene in conto la possibilità concreta che questo si traduca in pedagogia distorta.    Le Kessler in apparenza incarnavano il simbolo di un’era di gioia morigerata, di eleganza e di innocenza – mostravano al massimo le gambe chilometriche, mentre l’economia prosperava e il mondo costruiva una pace con il tetto di armi termonucleari – ma quell’era (che mai dobbiamo rimpiangere!) non ha fatto altro che preparare il terreno all’ambiente malato in cui ci tocca vivere nell’ora presente. Dove non c’è nulla al di fuori di me, non c’è l’al di là, ma neppure l’al di qua: no figli, no nipoti, no amici, no consorzio umano in generale. Perché, sì, l’utilitarismo edonista caricatosi nelle menti dei boomer così come nel sistema della medicina di Stato e dello Stato moderno tutto, è un orizzonte disumano e disumanizzante.   La vita svuotata di ogni dimensione che non sia il piacere, la vita che non contempla il dolore, non può non portare che al desiderio di morte quando la percezione del piacere sfuma, o quando appare il dolore, o anche quando, in assenza di dolore, c’è la paura che esso prima o poi si manifesti. La soglia che legittima la compilazione del modulo con la richiesta di morte si anticipa sempre di più, e lo Stato genocida è pronto ad assolverla sotto la maschera bugiarda della pietà anche per chi semplicemente desideri allestire il proprio teatrino funebre curando e controllando ogni dettaglio della scena, per chiudere il sipario definitivo sotto la propria esclusiva regia.      Lo scrittore francese Guy Debord, proprio negli anni in cui le Kessler allungavano i loro arti a favore di telecamere RAI, aveva pubblicato un piccolo saggio, invero un po’ sopravvalutato, intitolato La società dello spettacolo. Ebbene, ora che quella generazione è arrivata alla raccolta, potremmo aggiungerci una specificazione e parlare di società dello spettacolo della morte.   Come fosse il loro ultimo balletto, la morte procurata delle soubrette non è dipinta dai media alla stregua di un fatto tragico – anzi. Se neanche troppi anni fa di un suicidio si dava conto sulle pagine della cronaca (con relativa descrizione di particolari squallidi e disturbanti), oggi potrebbe finire tranquillamente nella rubrica degli spettacoli perché, in fondo, anche quello fa parte della carriera.   Quando una decina di anni fa, lanciandosi dalla finestra, si suicidò il regista Mario Monicelli, il cui successo fu coevo a quello delle Kessler, non fu del tutto possibile, per questioni organolettiche, esaltarne il gesto. Ora invece sì, perché non c’è la star spiaccicata sull’asfalto, non c’è nulla da pulire, il quadretto è asettico come nella brochure di un mobilificio.

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Forse, inzuppati e inflacciditi dentro il brodo avvelenato della pubblicità progresso, non ci rendiamo più nemmeno conto di cosa alligni dietro la stomachevole apologia della carriera televisiva delle ballerine e del loro gesto orrendo, impacchettati entrambi nello stesso cartoccio mediatico che vuole profumare di teutonica, himmleriana, perfezione – quando in realtà puzza di cadavere e di impostura.   Non ci rendiamo conto di cosa significhi un messaggio patinato così violento nella sua apparente dolcezza per chi ne viene investito quando magari debba ancora capire, perché nessuno glielo ha trasmesso, il senso del vivere e il senso del morire, l’ineludibilità della sofferenza e la nobiltà che risiede nella forza di farsene carico.    Ci resta, ora, la conta impossibile di quanti ci faranno un pensiero a togliersi di mezzo dopo l’esempio delle gemelle suicide. Magari persone che un tempo le guardavano ballare in TV, che hanno lavorato e penato una vita intera, alle quali il suicidio di due soubrette VIP dovrebbe suonare come uno schiaffo in faccia e invece un sistema putrescente vuole far apparire come un addio di gran classe.   Chi può contrapponga subito a loro, nella mente, l’antidoto più naturale: il ricordo della propria nonna, che ha figliato, patito, lavorato per la discendenza con infinite ore-uomo, con un’eternità di pranzi della domenica e di racconti e di ricami, la nonna saggia e piena di affetto per chi veniva dopo di lei.   Perché dopo di lei qualcosa c’è: ci siamo noi, c’è la vita e c’è un mondo da ricostruire.    Roberto Dal Bosco Elisabetta Frezza

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