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Le reazioni isteriche alla verità su Ventotene continuano

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Un piccolo scandalo è scoppiato intorno a Romani Prodi a tema Manifesto di Ventotene. A latere della presentazione di un libro scritto con Massimo Giannini (il direttore de La Stampa, il giornale dove certi articoli sugli ucronazisti sparivano carsicamente) Prodi si è fermato qualche secondo con dei giornalisti.

 

Alla domanda dell’inviata della trasmissione TV di Nicola Porro Quarta Repubblica Lavinia Orefici, che chiedeva all’ex premier e presidente della Commissione UE di commentare le parole del Manifesto di Ventotene sull’abolizione della proprietà privata, Prodi sembra perdere l’aplomb, schernisce l’intervistatrice, e – dice l’interessata – le afferra i capelli.

 

«Il presidente Prodi oltre a rispondere alla mia domanda con tono aggressivo ed intimidatorio, ha preso una ciocca dei miei capelli e l’ha tirata. Ho sentito la sua mano fra i miei capelli, per me è stato scioccante. Lavoro per Mediaset da dieci anni, inviata all’estero su vari fronti e non ho mai vissuto una situazione del genere. Mi sono sentita offesa come giornalista e come donna» ha commentato la Orefici.

 

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La stampa filogovernativa si sta sgolando per la scena offerta dal padre (o sarebbe meglio dire «patriarca», scherza qualcuno) dell’Ulivo, ipotizzando cosa sarebbe accaduto se le parti fossero state invertite, e un politico di destra avesse sfiorato una giornalista di sinistra.

 

Prodi non risulta ad ora che si sia scusato, e difende dicendo di averle messo «una mano sulla spalla» – un contatto comunque non consensuale che in vari frangenti (pensiamo agli uffici) oggi può, immaginiamo, essere visto come grave e passibile di conseguenze.

 

 

Ciò che dice Prodi, dopo aver perso la calma, è già stato ripetuto dalla sinistra isterica incapace di rispondere all’evidenza: cioè che il Manifesto di Ventotene contiene un programma dittatoriale, dove le élite rivoluzionarie non badano alle masse e al «metodo democratico» per giungere al potere e istituire l’Europa super-Stato.

 

Delle origini storiche e umane del Manifesto, con tutte le sue radici e ramificazioni tra il «laicismo» (cioè, la massoneria?) e certe influenze ebraiche Renovatio 21 ha scritto negli scorsi giorni.

 

Ci si chiede come sia stato possibile, ad ogni modo, che la sinistra, sepolto il PCI (che voleva rovesciare lo Stato e istituire la dittatura del proletariato, peraltro, non quella delle élite) e introdotto il dogma democratico (PDS, DS, PD: la parola «democrazia» c’è sempre) elevasse Ventotene a testo sacro, indiscutibile e non criticabile, pena la jihad democratica contro gli infedeli blasfemi.

 

Alla domanda risponde un denso articolo su La Verità di oggi. Secondo quanto riportato, la santificazione di Ventotene ha origini recenti, ed aveva già inquietato tanti intellettuali e politici lontani dalla destra meloniana. È il caso di Giuliano Amato ed Ernesto Galli della Loggia, che scrissero nel libro del 2014 Europa Perduta? (pubblicato dall’editore «prodiano» Il Mulino) un capitolo dal titolo «Un manifesto inattuale».

 

«È abbastanza sorprendente che schiere di esponenti politici, presidenti del Consiglio, vertici della Banca d’Italia e giornalisti di grido ostentino una devozione encomiastico-celebrativa di maniera verso i propositi giabobini di Spinelli, Rossi e Colorni, elevati a Magna Charta del federalismo continentale. Non c’era proprio un testo più confacente – ci si può chiedere – qualcosa di più presentabile?» accusano l’ex premier detto «Dottor Sottile» e l’editorialista del Corriere compagno di Lucetta Scaraffia.

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Il giornale milanese nota che sì, qualcosa di meglio – decisamente più sobrio, istituzionale, condivisibile al punto da essere già stato condiviso dalle Nazioni del continente – c’era: i Trattati di Roma, cioè lo stesso fondamento della Comunità Economica Europea firmati nel 1957 dagli Stati fondatori, lanciati all’epoca dal ministro degli Esteri, il liberale Gaetano Martino (1900-1967). Il quale ha la sventura di essere padre di un ministro berlusconiano, il politologo (sempre liberale) Antonio Martino (1942-2022), ministro Esteri e Difesa nel Berlusconi I, II e III (nonché grande fautore del sonno polifasico alla romana, la cosiddetta «pennichella»).

 

Ciò, si suppone, può aver inficiato per la gauche italica la possibilità di fare degli stessi Trattati un testo fondativo irrinunziabile. Martino senior nel discorso per la firma dei Trattati parlò di «un’Europa patria spirituale», una prospettiva lontana anni miglia dalle invettive «sovietiche», antidemocratiche e, ovviamente, anticlericali di Ventotene.

 

Ecco quindi che appare all’orizzonte Altiero Spinelli, sopravvissuto al confino e anche al fascismo, che ancora in qualche foto barbuta recente lo si può vedere in tutta la sua simiglianza con Enrico Beruschi, pur senza la tenera simpatia del comico lombardo.

 

«L’operazione Spinelli (…) fu decisa a tavolino nei primi anni Duemila da un’Europa boccheggiante, che aveva affidato la comunicazione istituzionale a una piccola élite progressista specializzata in campagna di fuffa a uso e consumo mediatico» racconta La Verità. «Al Parlamento europeo di Bruxelles, dove si stavano costruendo i nuovi locali che avrebbero dovuto ospitare i deputati dei nuovi dieci Paesi dell’allargamento a Est della UE, si cercavano i nomi da dare ai nuovi building e si decisa di dare a quello più importante il nome di “Batiment Spinelli”. Scoppiò una polemica sul perché l’immobile principale non fosse dedicato a Martino anziché a lui ma si decise di accontentare la pattuglia socialista, proiettando d’emblée Spinelli nel parterre dei “padri fondatori” dell’Europa».

 

Una manovra, se è vera questa ricostruzione, lontana dai contenuti del Manifesto ventoteniano, che – forse giustamente – nessuno ha mai letto, nemmeno coloro che oggi lo propugnano o dicono di farlo. Renovatio 21 nota che gli anni della supposta «operazione Spinelli» a Bruxelles coincidono con quelli in cui Romano Prodi, quello che oggi si arrabbia parlando del Manifesto, era volato a presiedere la Commissione Europea (1999-2004).

 

La Verità riporta anche altre reazioni passate da parte di commentatori non ascrivibili all’area sovranista. «La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria» scrive il Manifesto: «c’è molto Lenin in questo verdetto» ha scritto nel 2022 l’esperto di Geopolitica del gruppo GEDI Lucio Caracciolo nel libro La pace è finita. Così ricomincia la storia d’Europa (Feltrinelli).

 

«Leggetelo questo benedetto manifesto di cui tutti parlano» ha detto il politologo, ritenuto di sinistra, Luca Ricolfi. «Perché se non lo leggete non potete rendervi conto di quale spaventosa distopia antidemocratica avessero in mente i suoi autori. I quali avevano in mente un edificio grandioso, un unico super-Stato europeo, propedeutico a un futuro Stato unico mondiale. Ma pensavano di imporlo dall’alto, con una crisi rivoluzionarie e socialista, attraverso “la dittatura del partito rivoluzionario”, senza libere elezioni, contro le timidezze dei democratici, accusati tra le altre cose – di non ammettere un sufficiente ricorso alla violenza».

 

Apprendiamo che esiste un libro intitolato Contro Ventotene (2017), scritto dal costituzionalista Alessandro Somma, già collaboratore della pubblicazione filosofico-goscista Micromega e di altre pubblicazioni GEDI. «Tra i miti nei quali è impossibile non imbattersi occupandosi di Europa, quelli costruiti sul manifesto di Ventontene occupano un posto di tutto rispetto» scrive lo studioso, parlando di una «venerazione» che «definisce l’appartenenza alla schiera eterogenea ma pur sempre riconoscibile dei “buoni europeisti”».

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Secondo il Somma, scrive La Verità, lo Spinelli ha promosso l’unione della tecnocrazia europea e centri di potere economico, à la World Economic Forum di Davos, verrebbe da dire: un punto sul quale aveva insistito la compianta antropologa Ida Magli nel suo j’accuse La dittatura europea (2010), ricordando il rapporto stretto dello Spinelli (che nel Manifesto, oltre a distruggere la proprietà privata, parlava di redistribuzione delle ricchezze e delle industri dei grandi capitalisti) e Gianni Agnelli.

 

Va ricordata, sempre in tema di eurotecnocrazia, l’appartenenza dello Spinelli al club Bilderberg.

 

Si registrano anche gli sbuffi del sindaco filosofo gnostico Massimo Cacciari, che tra il programma della Gruber e dichiarazioni alla testata Affari italiani ha ricordato che «Spinelli è stato deputato indipendente nelle liste del PCI ed è stato isolatissimo nella sinistra italiana. Questi della sinistra di oggi che protestano contro la Meloni andassero a fare un corso accelerato di storia politica e culturale, perché sono di una ignoranza impressionante».

 

Non siamo sicuri, tuttavia, che si tratti sempre di ignoranza. Gratta il piddino e trovi il comunista, verrebbe da dire: in tanti, specie tra la generazione boomer, sognano ancora la rivoluzione sovietica in casa – specie se cresciuti con stipendio e benessere garantito.

Sono gli stessi che, pur di veder realizzare il loro infantile ideale ottocentesco, sono disposti a favorire con ogni mezzo l’avvento della tecnocrazia in Europa. E lo abbiamo esattamente visto con il COVID – e a breve, con la piattaforma di controllo totale chiamata «Euro digitale», prossimamente nei vostri telefonini, cioè nelle vostre vite.

 

La maschera giacobina – ancora tenuta in piedi in tutta la sua violenza: lo abbiamo visto alle Olimpiadi parigine – dietro cela una prospettiva molto più oscura, quella del controllo totale, perfino a livello subcellulare. Cioè, la trasformazione definitiva dell’umanità in una società di schiavi.

 

Gratta Ventotene, e dietro trovi il biototalitarismo che abbiamo subìto e che, ricordiamo, non abbiamo ancora sconfitto…

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Immagine del Batiment Altiero Spinelli di Parolo Margari via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0

Politica

Un po’ di chiarezza sulla questione dei balneari

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La polemica estiva riguardo le concessioni balneari si è ripresentata anche quest’anno, con l’aggiunta del caro-ombrellone che, a detta di alcuni, ha fatto sì che molti stabilimenti siamo rimasti semivuoti.    Occorre fare chiarezza su una questione annosa che fa parte, inderogabilmente, di una nostra irrinunciabile consuetudine: le vacanze estive al mare. La stampa ne parla tanto, ma troppo spesso lo fa in maniera non approfondita, lasciando al lettore pronunciarsi più slogan che argomenti in grado di far comprendere meglio cosa stia succedendo.   Il Codice della Navigazione nel 1942 ha sancito che chi garantisce di perseguire l’interesse pubblico e una proficua utilizzazione del bene demaniale, può averlo in concessione, e questo è il caso di chi ottiene l’autorizzazione per uno stabilimento balneare. Col tempo vi è stata necessità di regolamentare maggiormente il tutto e nel 1992 è stato definito il «diritto di insistenza», ossia che il titolare della concessione balneare viene preferito rispetto a un altro che vorrebbe subentrare, così da avere la propria concessione rinnovata automaticamente ogni sei anni.

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Così si è proseguito per oltre due decenni, fin quando l’Unione Europea ha «ha stabilito con la Direttiva Bolkestein (2006/123/CE) l’obiettivo di promuovere la parità di professionisti e imprese nell’accesso ai mercati. Dovrebbero essere indette quindi gare imparziali per assegnare le concessioni nuove oppure quelle in scadenza».   L’Italia ha però costantemente ignorato l’attuazione della direttiva, esponendosi anche al rischio di sanzioni economiche, e ha continuato a prorogare le concessioni attualmente in vigore. Ciò è avvenuto nonostante il Consiglio di Stato, già nel 2021, avesse stabilito l’impossibilità di estendere ulteriormente le concessioni oltre il 31 dicembre 2023. Per eludere l’applicazione della direttiva, il governo ha istituito un tavolo tecnico-consultivo incaricato di mappare le coste italiane, con l’obiettivo di dimostrare che tali risorse non sono scarse. Infatti, la direttiva si applica esclusivamente nei casi in cui vi sia una reale scarsità di risorse naturali.   Tra le questioni chiarite possiamo annoverare la natura delle concessioni demaniali ad uso turistico ricreativo: è oggi consolidata la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, secondo cui le concessioni balneari costituiscono autorizzazioni, e non diritti reali né meri contratti d’uso. Esse consentono l’esercizio di un’attività economica attraverso l’assegnazione temporanea e revocabile di un bene pubblico, come l’area demaniale marittima. Non si tratta di un semplice sfruttamento, ma di una forma autorizzatoria che implica, necessariamente, concorrenza per l’accesso.   Venendo invece alle questioni ancora oggi oggetto di dibattito normativo e giurisprudenziale, la prima, in ordine di importanza, riguarda la posizione del concessionario uscente, soprattutto nei casi in cui questi non si veda riassegnare l’area. Il nodo principale è quello dell’indennizzo dovuto per la perdita dell’azienda e per il valore residuo non ammortizzato degli investimenti effettuati.   Questo punto è al centro sia del dialogo in corso tra lo Stato italiano e la Commissione Europea, sia del più recente parere del Consiglio di Stato. C’è da stabilire, in caso di uscita del gestore dall’attività, una sorta di pagamento per l’attività avviata e l’eventuale compenso per tutto ciò che è stato costruito nello stabilimento, nel caso il futuro esercente entrante lo voglia mantenere anche in parte.

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Vero è che chi lascia, deve ridare agli enti pubblici il lembo di spiaggia avuto in concessione senza alcunché in più. In questo groviglio legislativo gli avvocati avranno il loro bel da fare. I tempi pare siano sempre più stringenti e occorre una soluzione, ma siamo in Italia e la burocrazia è talmente pachidermica che per trovare il bandolo dalla matassa che possa non scontentare nessuno, non sarà una missione facile.    Molti strillano alla più libera e democratica concorrenza per la partecipazione – anche in tempi brevi – ai bandi e la conseguente assegnazione in nome di una parità di diritti per tutti, ma non possiamo trascurare il fatto che, giocoforza, gli stabilimenti – a torto o a ragione – sono spesso tramandati di generazione in generazione e le famiglie che li gestiscono hanno a cuore il territorio, conoscono il mestiere, hanno l’accoglienza autoctona ed estirpare d’improvviso un’attività oramai consolidata nel tempo può avere ripercussioni non solo sui lavoratori, ma anche sulla clientela.    Poi c’è la questione prezzi, che pare siamo incrementati oltremodo. Ma sarà poi vero? Di sicuro nelle migliaia di chilometri di spiaggia che abbiamo in Italia non tutte sono uguali, non tutte raccolgono lo stesso target di clienti e non tutte offrono i medesimi servizi. Ciò detto, andrebbe fatta un’analisi territoriale specifica per capire se veramente in alcune zone c’è stata o meno un’impennata dei prezzi.   Guru dei social che in era pandemica usavano ricordare i vicini di casa perché facevano festa, non possono astenersi dal dire la loro, come riportato dal Corriere della Sera: «Cari amici gestori di stabilimenti balneari. Leggo che la stagione non sta andando bene bene. Secondo voi perché? Forse avete un po’ esagerato con i prezzi e la situazione economica del Paese spinge gli italiani a scegliere una spiaggia libera? Abbassate i prezzi e le cose, forse, andranno meglio. Capito come?». Grazie Alessandro Gassman che ci illumini con i tuoi tweet aizzando una vacua canea social altamente improduttiva ai fini pratici, ma ben congegnata per istigare risentimento tra comuni cittadini.   A chi scrive pare il solito pattern di «odio di classe orizzontale» con le varie categorie di lavoratori che ogni tanto vengono messe sotto la lente d’ingrandimento dei mass media per poi essere attaccate dai cittadini. È stato così per i tassinari, per i dipendenti pubblici, per gli artigiani e bottegai additati di non fare gli scontrini, per chi offre locazioni turistiche e affitti brevi, insomma ce n’è per tutti i gusti.   «L’odio» – passatemi il termine – dovrebbe essere invece verticale, verso lo Stato o meglio verso l’Unione Europea, che troppo spesso con le sue politiche distaccate dalla realtà partorisce leggi invasive che offendo e mettono in condizioni critiche chi cerca di fare impresa. Vero è che ogni componente in gioco dovrebbe avere un’etica per non vessare il cliente, questo comunque dobbiamo dircelo, e l’imprenditore non deve essere un «prenditore», ma offrire i servivi a un prezzo equo. Tutto si fa complesso dal momento in cui l’ex Belpaese non gode più di quel benessere del ventennio Ottanta-Novanta dove viaggiava col vento in poppa e la nostra cara vecchia lira godeva di un potere d’acquisto ragguardevole.

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Oggi la moneta unica, tanto amata dai burocrati di Bruxelles, insieme a un impoverimento del tessuto industriale nostrano e a un caro-vita fuori controllo, rende la nostra esistenza più incattivita nei confronti di chi ancora riesce a guadagnarsi qualche soldo in più della media a fine mese.   La villeggiatura, un cliché irrinunciabile che contraddistingue le nostre vite e ci fa godere di quel giusto e meritato riposo dopo mesi di lavoro, oggi non è più quel diritto che accomunava i cittadini di ogni censo.   Il cerchio si restringe e le classi meno abbienti sono costrette a ridurre sensibilmente i giorni di vacanza se non, nel peggiore dei casi, rinunciarvi proprio. Già nelle «estati pandemiche» dal 2020 al 2022, hanno provato a rovinarci le ferie estive con mascherine, distanziamenti, green pass e chi più ne ha più ne metta.   Domani Renovatio 21 pubblicherà un’intervista ad una balneare, che spiegherà cosa sta accadendo dal di dentro.   Francesco Rondolini

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Bolsonaro condannato per aver pianificato un colpo di Stato

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La Corte Suprema brasiliana ha condannato l’ex presidente Jair Bolsonaro per aver tentato di ribaltare le elezioni del 2022, condannando il politico a una pena decennale per aver guidato quella che i pubblici ministeri hanno definito una «cospirazione criminale».

 

Quattro giudici su cinque della Corte Suprema hanno ritenuto Bolsonaro colpevole di tutti e cinque i capi d’accusa a suo carico, condannandolo a 27 anni e tre mesi di carcere.

 

Le accuse includevano la pianificazione di un colpo di stato, la partecipazione a un’organizzazione criminale armata, il tentativo di abolire con la forza l’ordine democratico del Brasile, il danneggiamento di proprietà pubbliche protette e il compimento di atti violenti contro le istituzioni statali.

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Bolsonaro ha cercato di «annientare i pilastri essenziali dello stato di diritto democratico» e di ripristinare «la dittatura in Brasile», ha affermato il giudice della Corte Suprema Alexandre de Moraes annunciando il verdetto giovedì.

 

Secondo i pubblici ministeri, il piano golpista è iniziato nel 2021 con l’intento di erodere la fiducia del pubblico nel sistema elettorale brasiliano. Dopo la sconfitta di Bolsonaro nel 2022, i suoi sostenitori sono stati esortati a mobilitarsi nella capitale, Brasilia, dove hanno assaltato e vandalizzato i tre rami del governo nazionale l’8 gennaio 2023.

 

Bolsonaro e gli altri imputati hanno negato ogni illecito e gli avvocati della difesa potrebbero ancora presentare ricorso.

 

Il caso ha acuito le tensioni con gli Stati Uniti, dopo che il presidente Donald Trump l’ha definito una «caccia alle streghe» e ha imposto dazi doganali del 50% al Brasile. L’amministrazione Trump ha anche sanzionato il giudice Alexandre de Moraes per quelle che ha descritto come «gravi violazioni dei diritti umani» e ha annunciato restrizioni sui visti nei suoi confronti e di altri funzionari giudiziari.

 

Il presidente Luiz Inacio Lula da Silva ha condannato le tattiche di pressione di Trump, accusando Washington di aver «contribuito a organizzare un colpo di Stato» e giurando che il Brasile «non lo dimenticherà».

 

Bolsonaro era stato messo agli arresti domiciliari mesi fa.

 

Come riportato da Renovatio 21, due settimane fa gli Stati Uniti hanno revocato il visto al De Moraes.

 

In un recente post su Truth Social, il presidente Trump ha affermato che il Brasile «sta facendo una cosa terribile» a Bolsonaro, a cui è stato vietato di candidarsi a cariche politiche fino al 2030 e che dovrà affrontare un processo alla Corte Suprema per il suo ruolo in un tentato colpo di Stato per rovesciare l’elezione di Lula, cosa che lui nega strenuamente.

 

Come riportato da Renovatio 21, il giudice supremo De Moraes è da sempre considerato acerrimo nemico dell’ex presidente Jair Bolsonaro, che lo ha accusato di ingerenze in manifestazioni oceaniche plurime. Ad alcuni sostenitori di Bolsonaro, va ricordato, sono stati congelati i conti bancari, mentre ad altri è stata imposta una vera e propria «rieducazione».

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Come riportato da Renovatio 21, di recente con De Moraes si era scontrato anche Elone Musk, quando il giudice supremo aveva ordinato il blocco dei conti finanziari di Starlink nel Paese, nel contesto di una faida in corso sulla piattaforma di social media X riguardante la libertà di parola: l’establishment brasiliano chiedeva la censura di determinate voci politiche, cosa che Musk si era rifiutato di fare.

 

Musk aveva reagito in modo duro nei suoi post sui social, tornando a paragonare De Moraes – di cui ha chiesto le dimissioni o la messa in stato di accusa – a Darth Vader e a Lord Voldemort, e pubblicando un’immagine generata artificialmente del giudice supremo in galera.

 

L’imprenditore sudafricano è arrivato a dire che il vero potere in Brasile è nelle mani di De Moraes, definito tiranno travestito da giudice, mentre il presidente Lula è solo il suo cane da salotto. «Alexandre de Moraes è un dittatore malvagio che fa cosplay come giudice» dichiarato il Musk.

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Immagine di Agenzia Senado via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

 

 

 

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Politica

Orban dice che l’UE potrebbe andare al «collasso» e chiede accordi con Mosca

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L’UE è sull’orlo del collasso e non sopravvivrà oltre il prossimo decennio senza una «revisione strutturale fondamentale» e un distacco dal conflitto ucraino, ha avvertito il primo ministro ungherese Viktor Orban.   Intervenendo domenica al picnic civico annuale a Kotcse, Orban ha affermato che l’UE non è riuscita a realizzare la sua ambizione fondante di diventare una potenza globale e non è in grado di gestire le sfide attuali a causa dell’assenza di una politica fiscale comune. Ha descritto l’Unione come entrata in una fase di «disintegrazione caotica e costosa» e ha avvertito che il bilancio UE 2028-2035 «potrebbe essere l’ultimo se non cambia nulla».   «L’UE è attualmente sull’orlo del collasso ed è entrata in uno stato di frammentazione. E se continua così… passerà alla storia come il deprimente risultato finale di un esperimento un tempo nobile», ha dichiarato Orban, proponendo di trasformare l’UE in «cerchi concentrici».

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L’anello esterno includerebbe i paesi che cooperano in materia di sicurezza militare ed energetica, il secondo cerchio comprenderebbe i membri del mercato comune, il terzo quelli che condividono una moneta, mentre il più interno includerebbe i membri che cercano un allineamento politico più profondo. Secondo Orbán, questo amplierebbe la cooperazione senza limitare lo sviluppo.   «Ciò significa che siamo sulla stessa macchina, abbiamo un cambio, ma vogliamo muoverci a ritmi diversi… Se riusciamo a passare a questo sistema, la grande idea della cooperazione europea… potrebbe sopravvivere», ha affermato.   Orban ha accusato Brusselle di fare eccessivo affidamento sul debito comune e di usare il conflitto in Ucraina come pretesto per proseguire con questa politica. Finché durerà il conflitto, l’UE rimarrà una «anatra zoppa», dipendente dagli Stati Uniti per la sicurezza e incapace di agire in modo indipendente in ambito economico, ha affermato.   Il premier magiaro ha anche suggerito che, invece di «fare lobbying a Washington», l’UE dovrebbe «andare a Mosca» per perseguire un accordo di sicurezza con la Russia, seguito da un accordo economico.   Il primo ministro di Budapest non è il solo a nutrire queste preoccupazioni. Gli analisti del Fondo Monetario Internazionale e di altre istituzioni hanno lanciato l’allarme: l’UE rischia la stagnazione e persino il collasso a causa di sfide strutturali, crescita debole, scarsi investimenti, elevati costi energetici e tensioni geopolitiche.

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