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Bioetica

La vita senza il dolore

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Oggi ho appreso che l’ha fatto anche R.

 

È il terzo nell’arco degli ultimi 12 mesi, ma forse sto contando solo gli amici di giovinezza della mia città natale. Se aggiungo Milano, la città dove ho passato quasi un terzo del mio tempo sulla terra, il computo probabilmente sale.

 

Sono sincero, non ho la lucidità, o forse la voglia, di mettermi a contare quanti sono.

 

Ho in mente i tre di quest’anno perché sono detonati come una bomba terrorista nel tempio d’oro dei ricordi, lasciando voragini dove un tempo era il giardino degli anni più belli.

 

R., come L. e A., si è suicidato.

 

 

Epidemia

L’Istituto Superiore di Sanità, ente che in realtà non gode della mia simpatia, dà la sua definizione: un’epidemia «si verifica quando un soggetto ammalato contagia più di una persona e il numero dei casi di malattia aumenta rapidamente in breve tempo. L’infezione si diffonde, dunque, in una popolazione costituita da un numero sufficiente di soggetti suscettibili. Spesso si riferisce al termine di epidemia con un aumento del numero dei casi oltre l’atteso in una particolare area e in uno specifico intervallo temporale».

 

Hanno gridato varie volte all’epidemia di morbillo, per giustificare l’obbligo – cioè il consumo coatto per la gioia della Glaxo – dei vaccini. Lo hanno fatto magari davanti a due o tre casi di bambini contagiati.

 

Quindi, sono qui io davanti ad una epidemia vera, reale, pericolosa? Certamente.

 

Del resto la contagiosità del suicidio è riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (un altro monstrum superstatale che avverso).

 

Del resto, iscritto all’Ordine dei Giornalisti – quindi obbligato a seguire ogni anno corsi deontologici pena la radiazione – sono informato del fatto che dei suicidi io non dovrei scrivere, neanche in questo momento:

 

«Le norme deontologiche indicano chiaramente le cautele con cui devono essere esposti questi casi per non provocare dei fenomeni di emulazione: ci sono dati dell’Organizzazione mondiale della sanità che dimostrano in modo chiaro che parlare dei suicidi fa aumentare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita. E raccomandano anche la necessità di tenere al riparo da un’inutile e crudele pubblicità i familiari e i parenti già provati da un così forte dolore.

 

Per questo, a parte pochi, straordinari casi nei quali il diritto e il dovere di cronaca prevale sul rispetto della privacy, non devono essere divulgate le generalità di chi ha deciso di togliersi la vita e altri particolari che rendano il suicida identificabile, nel pieno rispetto della persona, che è uno dei cardini della professione, come ricordano i principi della Carta dei doveri del giornalista».

 

 

Necrocultura

State pensando a DJ Fabo? A Welby? Ai suicidi in Isvizzera filmati con gaudio dalle Iene? Alla piccola epidemia di suicidi tra registi scoppiata con Lizzani e Monicelli? Alla Ripa di Meana?

 

Sì? Se lo state facendo, è perché, lapalissianamente, i giornalisti se ne fottono: delle stesse patetiche regole che si vogliono dare, della dignità dei morti, e soprattutto della responsabilità innanzi a chi potrebbe emulare.

 

Vi raccontano tutto con dovizia di particolari, perché la cosa è di estrema importanza per i loro padroni: ai Signori della Necrocultura la cronaca suicida importa eccome, perché sappiamo che è in agenda.

 

“Il suicidio è oramai legale in Italia, e nella formula del feticidio 194/78: come morte di Stato”

 

La morte volontaria è overtonizzata da mo’. Una cosa impensabile un tempo (il girone del settimo cerchio in Dante), diviene radicale («lo fanno i samurai, i kamikaze»), poi razionale («in fondo è giusto che ognuno decida per sé»), quindi popolare («lo fanno i famosi, da Hemingway a Cleopatra»), infine legalizzata: e qui sappiamo che parliamo di una questione freschissima. Come ha titolato splendidamente Repubblica lo scorso 31 gennaio: «Biotestamento: da oggi i desideri dei malati sono legge».

 

Il suicidio è oramai legale in Italia, e nella formula del feticidio 194/78: come morte di Stato.

 

Inutile nascondersi dietro ai «paletti» democristiani: oggi riguarda il fine-vita, ma, visto che abbiamo gli esempi neerlandesi e belgi, sappiamo che si fa prestissimo a domandarsi cos’è il fine-vita, e a garantire il suicidio a carico del contribuente a giovani depressi, a persone che considerano la propria vita «completa», oppure semplicemente ad ammazzare le persone senza il loro consenso (431 eutanatizzati senza il loro consenso in Olanda nel 2015), inclusi i bambini.

 

Ma non è nemmeno questo quello che voglio scrivere davvero: di geremiadi politiche pro-vita, nel Paese dei Soloni antiabortisti eunuchi e dei leader cattolici sterili o esibizionisti e della demenza pro-life generalizzata, ne abbiamo già troppe.

 

Vorrei scrivere qualcosa di più semplice, ma al contempo profondo, e tecnico.

 

I suicidi che in questo stesso momento stanno bombardando la mia esistenza sono l’effetto preciso di un fenomeno epocale non molto dibattuto, del cambio di paradigma umano che interessa l’umanità occidentale da oramai più di due secoli.

 

 

Utilitarismo

Nella mente del mondo è stato installato un nuovo software: l’Utilitarismo.

 

L’Utilitarismo, che di rado si studia al liceo e nemmeno all’Università, è quella dottrina filosofica per la quale il Bene è ciò che aumenta la felicità – cioè, il piacere – degli esseri senzienti.

 

Nell’algebra morale degli utilitaristi, la società deve perseguire con ogni mezzo quelle azioni che aumentano la quantità di piacere della popolazione, anche a discapito di una minoranza, che può essere tranquillamente sacrificata per il bene maggiore, cioè per il piacere maggiore ( sì, la logica neo-cattolica del male minore passa soprattutto da qui).

 

Non stupisce che l’Utilitarismo fiorisca tra il Settecento e l’Ottocento in Inghilterra, quando la Corona d’Albione intraprendeva il saccheggio cruento dell’Africa, dell’India, e della Cina. Al sacrificio dei selvaggi depredati, corrispondeva l’estasi della borsa di Londra, che ne trasse il lucro di immani piaceri imperiali.

 

“Nella mente del mondo è stato installato un nuovo software: l’Utilitarismo”

 

Jeremy Bentham, oggi considerabile come il pensatore principale dell’Utilitarismo, nei suoi discorsi trattò della libertà personale ed economica (è uno dei diòscuri del liberalismo), della divisione di stato e chiesa (come da tradizione di Enrico VIII), e poi dei dei diritti degli animali (di cui fu pioniere assoluto, come riconosciuto dal padre dell’animalismo contemporaneo, il super-utilitarista ultra-abortista Peter Singer), delle punizioni corporali (alle quali preferiva un potere che estendesse un subdolo e costante controllo su tutti, inventando la prigione a Panopticon, che tanto mi ricorda, oggi, internet, dove con poco sforzo ogni tuo singolo pensiero può essere scrutato e sorvegliato), il diritto al divorzio, il diritto all’usura (scrisse Difesa dell’usura), il diritto alla sodomia (scrisse Difesa dell’omosessualità).

 

Come potete ben vedere, il mondo moderno ha avuto una programmazione piuttosto evidente, leggibile, direi quasi open-source.

 

Il mondo dei diritti, il mondo del desiderio liberato dalle rivoluzioni «civili» e «sessuali» ha fatto leva sul piacere, tanto da divenire indistinguibile dalla legge stessa dello Stato: ho diritto a ciò che desidero, ho diritto a ciò che mi dà piacere, come da morale utilitarista.

 

Un matrimonio invertito, una droga sintetica, un bambino in provetta.

 

 

Piacere

Senza la trappola del piacere, tale riprogrammazione dell’umanità non avrebbe trovato clienti.

 

Un’umanità fatta di puro piacere, vecchia promessa degli anni delle rivolte giovanili, sembra tutt’ora la destinazione finale del progresso.

 

La medicina vuole curare ogni male: Mark Zuckerberg, il padrone di Facebook e di tutti i vostri dati, ha già detto che userà i suoi miliardi per eliminare ogni malattia entro la fine del XXI secolo.

 

In Nordamerica sono in corso sperimentazioni di neurotecnologie per fare sparire i cattivi ricordi, così come si può essere denunciati per aver provocato sconforto in una persona semplicemente per aver parlato di un tema per loro intimamente traumatico (è il cosiddetto Trigger Warning, strumento d’azione del politicamente corretto).

 

Sappiamo inoltre come la principale causa di morte negli Stati Uniti in questo mondo sia l’overdose da oppioidi: droghe che i dottori americani (spalleggiati da colossi farmaceutici come la Purdue) hanno prescritto a tonnellate per eliminare il dolore dei loro pazienti.

 

La vita moderna, insomma, coincide con il piacere che può percepire, nell’identità assoluta dei due elementi.

 

Una vita disgiunta dal piacere deve terminare, perché priva del suo senso.

 

“La vita moderna, insomma, coincide con il piacere che può percepire, nell’identità assoluta dei due elementi. Una vita disgiunta dal piacere deve terminare, perché priva del suo senso. L’Utilitarismo è penetrato nella logica profonda dell’uomo comune. Senza piacere, cosa è la mia vita? Il depresso, convinto nel profondo che la vita sia solo piacere, non può che essere legittimato a togliersela.”

L’Utilitarismo è penetrato nella logica profonda dell’uomo comune. Senza piacere, cosa è la mia vita?

 

Essa diviene lebenunswerten leben, espressione tedesca che dai pionieri uncinati degli anni Trenta è passata a definire con esattezza la nostra epoca: «vita indegna di essere vissuta».

 

Lo capite bene: chi è depresso è giocoforza tagliato fuori dalla logica utilitaria – la depressione è appunto definita come anedonia, cioè incapacità di provare piacere davanti a qualsiasi esperienza.

 

Il depresso, convinto nel profondo che la vita sia solo piacere, non può che essere legittimato a togliersela.

 

E questo ammesso che la depressione esista, e non sia – come sostiene qualche psichiatra controcorrente – solo un’etichetta medica affibbiata alle umanissime condizioni della miseria e della maliconia, etichetta stampata per far vendere qualche milione di ore di psicoterapia (a differenza del Sacramento della Confessione, si paga) e qualche trilione di pastiglie psicotrope, i cui effetti-paradosso sono talmente noti che in America devono recare nel bugiardino il Black Box Warning (gli antidepressivi, debbono scrivere i foglietti illutrativi bordando il tutto con colore nero, possono amentare il rischio di suicidio).

 

Gli psicofarmaci, per inciso, sono l’unica vera costante di tutte le stragi nelle scuole americane (per sapere il nome del farmaco a cui era sottoposto lo sparatore bisogna in genere aspettare mesi, perché i giornali non hanno voglia di dare un dispiacere alle Big Pharma che comprano loro tanta pubblicità) e non solo quelle, basti pensare allo Zoloft di cui era imbottito il pilota della Germanwings che fece schiantare il suo aereo con tutti i passeggeri, pochi anni fa.

 

Il depresso, nella logica utilitarista che è oggi il software del mondo, è disfunzionale, non performante, forse neppure autonomo (aspetto principale della bioetica utilitarian di Peter Singer, che sostiene che l’handicappato o il bambino piccolo possano essere ammazzati tranquillamente: non sono autonomi né funzionali).

 

Il malinconico va eutanatizzato: al momento lo fa da sé, ma da ora gli darà sempre più una mano anche lo Stato biotestamentario.

 

“Gli psicofarmaci, per inciso, sono l’unica vera costante di tutte le stragi nelle scuole americane”

Consideriamo che oltre che letteralmente inutile, egli può risultare addirittura pericoloso: il suo male sporca il principio di piacere generale, potrebbe estendersi per contagio presso la restante massa gaudente.

 

Ci sarebbe da chiedersi quindi: e prima du tutto questo, cosa c’era?

 

 

Croce

Prima, cari lettori, c’era la Croce. Prima c’era la Civiltà. La Civiltà cristiana – l’unica vera Civiltà, circondata da tradizioni umane fatte di suicidi e sacrifici umani che, se sono rimaste in piedi, è solamente perché hanno copiato lo slancio dell’Europa – aveva una base semplice, chiarissima.

 

A quel tempo, il mondo era unito dalla Passione.

 

La Civiltà adorava un Dio che soffriva.

 

Un Dio torturato a morte, umiliato, sconfitto.

 

Ogni città aveva mille croci sulle sue strade e nelle sue case: sopra le Chiese, dentro le Chiese, sopra le case, dentro le case, nei racconti e nei cuori delle persone.

 

Che il dolore fosse una parte integrante della vita era naturale: il dolore era la cifra stessa del sacrificio di Dio per l’umanità.

“La Civiltà adorava un Dio che soffriva. Un Dio torturato a morte, umiliato, sconfitto”

 

Di più. Il dolore non solo era connaturato alla vita stessa, ma era collegato con ciò che vi stava oltre: la vita eterna domandava sacrifici, nei casi dei Santi Martiri così come delle persone comuni.

 

Non è il piacere che ti porta in Paradiso, e ciò – il rovescio chirale della modernità – era iscritto nella logica profonda anche del più misero uomo.

 

La scristianizzazione era necessaria alla costruzione della nuova umanità.

 

Togliere Cristo per far dimenticare il dolore, esorcizzarlo, demonizzarlo.

 

Sconvolgere per sempre l’insiemistica dell’esistenza: la vita non contiene il piacere e il dolore, la vita coincide con il solo piacere, se vi è dolore non è vita, quindi meglio darsi alla morte.

 

Credo che questa sia la motivazione primaria dell’ecatombe di amici che sto vedendo innanzi a me.

 

Drogati dal paradigma del piacere utilitarista, nessuno di noi oggi riesce a sentire davvero il significato vitale del dolore.

 

 

Terrore

Non ho scritto di loro, anche se ne avevo tanto bisogno.

 

Scriverò qualcosa di me, allora, e con l’ovvia vergogna del caso. Tanto per aggiungere un pensiero cristiano in più.

 

Perché io ho avuto tanta fortuna, più di loro, e questo adesso mi fa pure un po’ soffrire.

 

Ho anche io, come una enorme porzione di altri uomini, attraversato momenti di tenebra vera, assoluta. Momenti in cui il mondo aveva spezzato ogni singola fibra del mio essere, e ogni pensiero si trasformava in un’apocalisse che si inghiottiva tutto.

 

Ne sono uscito talvolta con uno slancio di raziocinio eroico, per esempio la comprensione che, appunto, la mia vita non coincideva con quello che mi accadeva, ma era un insieme più grande: «sono più forte di qualsiasi pensiero, di qualsiasi sensazione io possa avere», mi ritrovai un giorno a scrivere in una lettera a mia sorella. L’essere, questo dono mistico che non mi era permesso di comprendere del tutto, era più grande di qualsiasi accidente terreno. La vita era più del mio dolore e più della mia mente: comprenderlo cambiava per sempre il gioco.

“Drogati dal paradigma del piacere utilitarista, nessuno di noi oggi riesce a sentire davvero il significato vitale del dolore”

 

Altre volte, invece, ho avuto una fortuna più grande: ho avuto paura. Giunto sull’orlo terminale, ho sentito lo spavento emanato dall’unica cosa che veramente un uomo debba temere: l’Inferno.

 

Davanti alla reale prospettiva dell’Inferno, tutto cambiava: un oceano di dolore infinito, senza redenzione, un sistema illimitato di dolore sterile, dolore che – a differenza di quello della croce – non produce nulla, se non la propria dannazione.

 

Timor Dei est initium sapientiae.

 

Il terrore più estremo è stato il mio più grande alleato, la mia sfortuna sfacciata.

 

Sì.

 

 

Catastrofe

Voi lo capite: anche io, come quel santo vescovo francese, accuso il Concilio.

 

Togliere l’Inferno, svuotarlo, dimenticarlo, abolirlo come ha fatto la neo-chiesa dei Von Balthazar e dei Bergoglio è stato, al contrario, popolarlo – e, sulla Terra, aumentare a dismisura il numero dei suicidi. E degli aborti. E financo degli omicidi.

 

Il Concilio si mostra, anche in questo frangente, come la più grande catastrofe nella Storia dell’Uomo, in quanto esso ha permesso la riprogrammazione dell’Uomo verso la sua estinzione – e la sua dannazione.

 

Celebrare pubblicamente i funerali di un suicida, come oramai perfettamente normale, aggiunge una dimensione pragmatica al vortice di morte.

 

R., che ci ha lasciato sabato, era presente alla cerimonia in chiesa di A., che ci ha lasciato un anno fa. Al funerale di A., cui scelsi di non partecipare, vennero lette tante belle cose, vennero ascoltate le musiche preferite dell’amico morto. Nella mente di un ulteriore potenziale suicida, non un clic da poco: se me ne vado, mi ricorderanno così, tutti uniti, affranti sì, ma finalmente insieme sotto il mio segno…

“L’Ordine dei giornalisti e l’OMS quanto meno sulla carta si preoccupano del carattere contagioso del suicidio; la Chiesa di oggi invece no”

 

L’Ordine dei giornalisti e l’OMS, ho detto all’inizio, quanto meno sulla carta si preoccupano del carattere contagioso del suicidio; la Chiesa di oggi invece no.

 

Perché la Chiesa di oggi è davvero un ente stupido quanto assassino.

 

Perché la Chiesa di oggi è il vero problema, il vero nemico dell’Umanità e del Dio della Vita.

 

 

La vita tutta intera

Ho scritto abbastanza.

 

Infine, voglio dirvelo: A., L., R., e poi andando indietro ancora, P., M., G., vi ho voluto bene. Pagherei qualsiasi cosa, ora, per avervi potuto parlare anche solo per un minuto in più. Per godere di questa sostanza preziosissima, che ora mi sarà negata senza appello.

 

Nella mia stupida posizione di sopravvissuto, voglio farvi questa promessa.

 

Io lotterò per conservare la ferita che ci avete inferto: perché il dolore che sento è il centro della mia umanità, come lo è stato per l’umanità di Dio.

 

E quindi, la chiave della mia sopravvivenza.

 

Perché la vita senza il dolore, ho capito, è solo desiderio di annientamento, è morte.

 

E di voi invece io voglio celebrare la vita, tutta intera.

 

Che è stata – che è – immensamente più grande del dolore e del piacere.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

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Bioetica

Il Quebecco si muove per riconoscere il «diritto» all’aborto nella proposta di costituzione

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Il Quebecco ha proposto una legge per sancire un apparente «diritto» all’aborto nella bozza di costituzione della provincia canadese.

 

Il 9 ottobre, l’Assemblea nazionale del Quebecco ha presentato il disegno di legge n. 1, Legge costituzionale del 2025 sul Quebec, che mira a stabilire una costituzione per il Quebec che dia priorità ai valori della provincia, tra cui la cosiddetta «libertà» di aborto.

 

«Ora dobbiamo andare oltre», ha dichiarato il primo ministro François Legault all’Assemblea Nazionale. «Il Quebecco ha scelto di restare in Canada, ma ha anche scelto di affermare il suo carattere nazionale e distintivo».

 

«È giunto il momento di affermare, in modo chiaro, l’esistenza costituzionale della nazione del Quebecco», ha proseguito. «La Costituzione riunirà tutte le nostre regole, tutti i nostri valori fondamentali in un’unica legge. Diventerà la legge di tutte le leggi».

 

La proposta di legge costituzionale comprende diversi emendamenti contrari alla vita, tra cui l’inserimento delle leggi sull’aborto e sull’eutanasia nella costituzione provinciale. La legge è stata approvata con 71 voti favorevoli e 30 contrari. «Lo Stato protegge la libertà delle donne di abortire», promette l’articolo numero 29.

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Il Quebecco ha recentemente confermato il suo sostegno all’aborto quando la Corte superiore provinciale ha stabilito che le “zone bolla” delle strutture per l’aborto sono incostituzionali, ma «giustificate».

 

Attualmente, la legge del Quebec impedisce l’attività di advocacy pro-life entro un raggio di 50 metri da qualsiasi struttura o sede di un’attività che offre di eseguire il feticidio. Tra le attività vietate rientrano anche scoraggiare una donna dall’aborto od offrire risorse alternative per aiutare la madre a tenere il bambino.

 

Inoltre, la legge promette di prendere di mira i malati e gli anziani attraverso l’eutanasia. La legge si impegna a garantire che «qualsiasi persona le cui condizioni lo richiedano abbia il diritto di ricevere cure di fine vita», un termine che include il ricorso all’eutanasia. Da notare come l’anno scorso era emerso uno studio sul Quebecco che rivelava che più di uno su dieci bambini abortiti nel secondo trimestre nasce vivo, ma solo il 10% sopravvive più di tre ore.

 

Allo stesso tempo, il Quebecco, una provincia notoriamente liberale, ha il tasso più alto di suicidio assistito in Canada.

 

La provincia ha registrato un aumento del 17% dei decessi per eutanasia nel 2023 rispetto al 2022, con il programma che ha causato la morte di 5.686 persone. Questa cifra elevata rappresenta un impressionante 7,3% di tutti i decessi nella provincia, collocando il Québec in cima alla lista a livello mondiale. Di conseguenza, si è avuto anche il rivoltante record per la predazione degli organi, con la triplicazione dei trapianti da vittime di eutanasia.

 

Come riportato da Renovatio 21, ad agosto l’Ordine dei medici del Quebecco ha dichiarato che l’eutanasia è un «trattamento appropriato» per i bambini nati con gravi problemi di salute. L’eutanasia per i neonati era stata sostenuta dai medici quebecchesi ancora tre anni fa, mentre è discussa apertamente l’eliminazione eutanatica dei malati di demenza.

 

Gli sforzi quebecchesi si iscrivono in un contesto globale in cui, come per un silenzioso ordine dipanato in tutta la Terra, vari Paesi a trazione progressista sta cercando di costituzionalizzare l’aborto, sulla scorta di quanto fatto da Emanuele Macron in Francia due anni fa.

 

Come riportato da Renovatio 21, anche il governo spagnuolo sta lavorando per sancire il diritto al feticidio nella Costituzione.

 

Un anno fa a Brusselle è stato approvato il progetto di inclusione dell’aborto nella Carta Europea. L’anno precedente gli eurodeputati avevano chiesto che il feticidio divenisse «diritto fondamentale».

 

Altri Paesi non marciano nella stessa direzione, Cinque giorni fa il Parlamento Olandese ha respinto una risoluzione che dichiarava l’aborto come «diritto umano», idea alla base di tanti progetti di enti transnazionali

 

Due mesi fa la Repubblica Domenicana ha riconfermato il divieto totale di aborto.

 

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Bioetica

Morte cerebrale, trapianti, predazione degli organi, eutanasia: dai criteri di Harvard alla nostra carta d’identità

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Renovatio 21 pubblica la relazione del nostro collaboratore Alfredo De Matteo alla Conferenza «Il Dramma dell’eutanasia» organizzata da Federvita Piemonte a Torino lo scorso 11 ottobre.   Il tema che mi è stato assegnato è molto vasto e pieno di implicazioni mediche, giuridiche, etiche e filosofiche ed è pertanto molto difficile condensarlo nel tempo previsto per un singolo intervento. Mi perdonerete se tratterò questioni complesse in maniera non esaustiva, ma spero comunque che la mia esposizione risulti chiara, soprattutto nelle sue conclusioni.   Prima di affrontare lo spinoso tema della morte cerebrale e dell’espianto di organi vitali credo sia opportuno definire il concetto di «morte». Tradizionalmente, essa viene identificata con la cessazione di tutte le funzioni vitali di un organismo, che sono essenzialmente riconducibili a tre: sistema nervoso, respiratorio e circolatorio, ossia la cosiddetta tripode vitale. Tuttavia, la morte non è un evento che può essere osservato nel momento in cui si verifica ma solamente a posteriori, ossia dopo che essa è già avvenuta.   In altre parole, per avere la certezza dell’avvenuto decesso di un essere umano è necessario che vengano riscontrati sul cadavere i segni inequivocabili della morte, ossia l’inizio del processo di decomposizione del corpo: l’algor mortis (il raffreddamento del corpo), il rigor mortis (la rigidità cadaverica) e il livor mortis (il ristagno e la coagulazione del sangue). Tali segni rappresentano il punto di non ritorno alla vita.   La morte infatti è un evento complesso poiché l’uomo, in virtù dell’unione sostanziale con un’anima spirituale, non è un semplice agglomerato di organi, tessuti e funzioni né il suo principio vitale può essere ridotto alla funzionalità dei suoi organi o di un singolo organo. È possibile ritenere certamente viva una persona cosciente e certamente morto un corpo putrefatto o allo stato iniziale della putrefazione. La morte, intesa come il distacco dell’anima dal corpo, è collocabile nello spazio temporale compreso tra questi due stati. Un terzo stato dell’essere tra la vita e la morte, semplicemente, non esiste.

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La civiltà occidentale nel corso dei secoli ha uniformato il suo diritto e la sua morale alla tradizione filosofica secondo cui l’essere umano è composto, appunto, di anima e corpo e ha nell’anima razionale il principio vitale che lo caratterizza. È bene ribadire che questo principio vitale di natura spirituale, pur essendo nel corpo, non si trova nel cuore, nel cervello né in qualsiasi altro organo, tessuto o funzione.   Ciò che sostanzia l’uomo non è dunque l’intelletto, né l’autocoscienza e neppure l’interazione sociale, come ci vogliono far credere, bensì l’anima razionale che contiene in potenza l’uso di tutte queste funzioni. La vita umana inizia con l’infusione dell’anima nel corpo e termina con la separazione da esso, nel momento in cui l’organismo si dissolve nei suoi elementi.   I casi di morte apparente, ossia di ritorno alla vita dopo diverse ore in cui sono scomparse tutte le manifestazioni vitali, stanno a dimostrare che fra il momento della morte accertata e quella reale esiste sempre e comunque un periodo più o meno esteso di vita latente.   A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’avvento delle moderne tecniche di rianimazione ha permesso di salvare la vita di un gran numero di persone destinate a morte certa. In particolare, la ventilazione artificiale ha consentito di supportare la respirazione di tutti quei pazienti che sono parzialmente o totalmente incapaci di respirare spontaneamente.   Tuttavia, la diffusione in ambito ospedaliero di queste nuove procedure rianimatorie ha sollevato la questione di cosa fare con tutte quelle persone che sopravvivono grazie ad esse ma che non mostrano, almeno apparentemente, alcun segno di attività cerebrale e la cui prognosi risulta infausta. Parallelamente, proprio in quegli anni, alcuni chirurghi cominciarono a sperimentare la tecnica dei trapianti di organi.   Figura di spicco in questo ambito fu l’ambizioso chirurgo sudafricano Christiaan Barnard, il quale nel 1959 riuscì a portare a termine il primo trapianto di rene in Sudafrica dopo che esso era già stato effettuato con successo negli Stati Uniti nel 1953. Barnard sperimentò per anni, in gran segreto, il trapianto di cuore sugli animali, cercando di affinare la tecnica.   Il primo trapianto di cuore al mondo venne effettuato il 3 dicembre 1967: il cuore di Denise Darvall, una giovane donna caduta in coma considerato irreversibile, venne impiantato nel corpo di un atleta lituano affetto da una grave patologia cardiaca e prese a funzionare regolarmente. Il ricevente l’organo morì dopo soli 18 giorni a causa di una grave polmonite, ma la notizia fece comunque il giro del mondo e Barnard divenne una stella di fama internazionale. A questo punto però, c’era da risolvere il problema legale legato ai trapianti di organi vitali. Infatti, i chirurghi e le équipe mediche che effettuavano tali interventi correvano il rischio di venire incriminati per omicidio in quanto gli organi venivano prelevati a cuore battente e dunque da soggetti ancora in vita.   A tale scopo la comunità scientifica internazionale convocò, nel 1968, una commissione ad hoc, la famosa commissione di Harvard, composta da un certo numero di professionisti di diversa estrazione (tra costoro figurava anche uno storico), che venne incaricata di redigere un nuovo criterio di morte, basato sulla cessazione di tutte le funzioni encefaliche. La commissione stabilì, nell’agosto di quell’anno, che potevano essere dichiarate decedute non solamente le persone che non presentavano più alcun segno vitale ma anche quelle le cui sole funzioni cerebrali risultavano irrimediabilmente e irreversibilmente compromesse.   In pratica, l’escamotage utilizzato della comunità scientifica internazionale fu quello di dichiarare morte le persone ancora vive.   La commissione non presentò, di fatto, alcun argomento decisivo a supporto della nuova definizione di morte (del resto come avrebbe potuto?). Furono gli stessi membri del comitato di Harvard ad ammetterlo attraverso le seguenti dichiarazioni: «il peso è più grande per i pazienti che soffrono della perdita permanente dell’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali, e per quanti hanno bisogno di posti letto già occupati da altri pazienti comatosi (…) Criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto».   Dunque, l’introduzione del criterio della morte cerebrale o encefalica non fu il risultato di una riflessione teorica e filosofica sulla morte, ma piuttosto della volontà di risolvere due esigenze di natura pratica: contenere il numero dei pazienti bisognosi di cure adeguate a lungo termine e legittimare l’espianto degli organi vitali.    Passiamo ora ad analizzare le principali criticità di un costrutto artificiale che, è bene ricordare, non è mai stato validato da un punto di vista scientifico ma che anzi si pone sfacciatamente contro l’evidenza dei fatti.

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Innanzitutto, esso si basa sulla tesi secondo cui il principio vitale dell’uomo risiede nel cervello. Sulla base di tale assunto, questo meraviglioso e complesso organo rappresenterebbe, per così dire, la centralina che regola il funzionamento dell’organismo umano. Un cervello le cui funzioni sono totalmente e irrimediabilmente compromesse decreterebbe la fine dell’essere umano come un insieme integrato. In quest’ottica, i segni vitali ancora presenti nell’individuo dichiarato cerebralmente morto costituirebbero dei meri riflessi e/o funzioni mantenute in maniera artificiale mediante il supporto farmacologico o l’ausilio di macchinari.    Tuttavia, non si capisce come possa un organismo completamente disgregato, un ammasso di organi senza più alcun coordinamento centrale, mantenere inalterate praticamente tutte le funzioni di base. Ad esempio, sia il sistema metabolico che quello immunitario dei pazienti dichiarati cerebralmente morti risultano perfettamente funzionanti. Il presunto cadavere conserva responsività agli stimoli e può anche mostrare dei movimenti spontanei come il cosiddetto fenomeno di Lazzaro, durante il quale egli compie dei movimenti anche ben coordinati che lasciano supporre il coinvolgimento del cervelletto e delle aree superiori dell’encefalo. Inoltre, vengono spesso rilevate nel soggetto in morte cerebrale delle risposte che di norma sono mediate dal tronco encefalico, come l’aumento della frequenza del battito cardiaco e della pressione sanguigna sia all’inizio che nel corso dell’intervento per la rimozione degli organi.   La presenza di movimenti spontanei nella persona che viene sottoposta all’espianto è tale che durante l’operazione è sempre necessario paralizzarla e in alcuni casi si provvede a sedarla. A ben vedere, il soggetto è anche in grado di respirare visto che ciò che ha smesso di funzionare, almeno temporaneamente, sono solamente i centri respiratori ma non la sua capacità di metabolizzare l’ossigeno.   Addirittura, le donne incinte possono portare a termine la gravidanza. Recentemente, si è verificato il caso di una donna di Atlanta incinta di due mesi, dichiarata cerebralmente morta a seguito di un malore, e «costretta» a vivere (può continuare a vivere una persona dichiarata morta?) per quattro mesi perché la legge vigente in Georgia vieta l’aborto in presenza di battito cardiaco del feto. La gravidanza non è uno stato che richiede necessariamente un alto livello di integrazione corporea? E ancora: è logico anche solo ipotizzare che un morto sia in grado di custodire e generare la vita?   Ma c’è un’ulteriore difficoltà nel considerare il cervello come sede dell’essere: visto che esso è l’organo che nello sviluppo fetale si forma più tardi (intorno al terzo mese della gravidanza), come è possibile ritenere imprescindibile alla vita il funzionamento dell’encefalo? In sostanza, nella nuova definizione di morte commissionata agli «esperti» di Harvard, al cervello viene arbitrariamente attribuito il ruolo che compete invece all’anima razionale, ossia dirigere e governare tutti gli organi e le funzioni che compongono l’organismo umano.    Con l’introduzione del rivoluzionario criterio della morte cerebrale, il cogito ergo sum di cartesiana memoria entra prepotentemente nel diritto e nella prassi medica, finendo per relegare l’essere umano nell’angusto ambito dell’autocoscienza. Di conseguenza, a prescindere dalla condizione clinica e dallo stato di coscienza in cui si viene a trovare un determinato soggetto, il suo diritto alla vita è subordinato alla «qualità» della sua esistenza, che si fonda essenzialmente sulle sue capacità intellettive. I casi relativamente recenti di Vincent Lambert in Francia, di Charlie Gard e Alfie Evans in Inghilterra, di Eluana Englaro in Italia, stanno a dimostrare che una volta ridefinito il criterio di accertamento della morte si è passati consequenzialmente a ridefinire il significato stesso di essere umano, attraverso l’arbitraria distinzione tra vite degne e indegne di essere vissute.    Ma c’è un secondo grosso nodo da sciogliere nella nuova definizione di morte. Come si fa a stabilire con assoluta certezza che il cervello ha definitivamente smesso di funzionare? Allo stato attuale delle conoscenze, siamo in grado di accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tutte le funzioni cerebrali di un paziente clinicamente morto siano irreversibilmente compromesse?   Nel 2017 la rivista Current Biology ha reso noto un esperimento scientifico condotto dalla neuroscienziata Angela Sirigu, la quale è riuscita a recuperare la coscienza di un paziente in stato vegetativo attraverso una serie protratta nel tempo di elettrostimolazioni del nervo vago. La particolarità dell’esperimento effettuato dalla ricercatrice italiana è dovuta al fatto che il paziente non aveva più alcun contatto con il mondo esterno da ben 15 anni e la sua condizione era considerata irreversibile.   Anche secondo la neurologa Silvia Marino, la quale è riuscita attraverso la somministrazione di stimoli di vario genere a far passare un certo numero di pazienti dallo stato cosiddetto vegetativo a quello di minima coscienza, il termine irreversibile applicato ai disturbi della coscienza non è più utilizzabile. Dunque?

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In ogni caso, anche qualora si riuscisse a provare l’assenza di qualsiasi funzione cerebrale, è comunque privo di fondamento, come abbiamo visto, ritenere che la morte dell’encefalo sia un indicatore della morte di tutto l’organismo. Pensate, che anni fa si verificò il caso di un bambino entrato in stato di morte cerebrale all’età di quattro anni e morto, senza aver mai ripreso a respirare autonomamente, quando ne aveva ventitré!   Sulla base di questo e di altri casi simili è veramente difficile continuare a sostenere la tesi che un cervello funzionante sia la condizione necessaria per la vita di un essere umano. Tra l’altro, la stessa comunità scientifica è divisa su quali aree del cervello è necessario prendere in considerazione per decretare la morte cerebrale di un individuo.   Nel celebre documento di Harvard, la morte viene definita come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (morte cerebrale totale), ma dato che i criteri clinico-strumentali adoperati per accertarla non sono in grado di rilevare effettivamente la cessazione irreversibile di tutte le funzioni encefaliche, un neurologo inglese arrivò alla conclusione che fosse sufficiente accertare la distruzione del solo tronco encefalico (tesi anch’essa priva di fondamento scientifico).   Il risultato è che in alcuni paesi, tra cui l’Italia, è obbligatorio effettuare l’EEG, un esame diagnostico che misura e registra l’attività elettrica cerebrale, mentre in altri, come l’Inghilterra, esso non è ritenuto necessario. In effetti, oltre al fatto che un tracciato elettroencefalografico può essere normale anche se piatto (ad esempio, adulti ansiosi o neonati possono presentare un tracciato piatto non patologico), le modalità di registrazione elettroencefalografica non garantiscono risultati certi, dal momento che essi possono essere influenzati da diversi fattori, tra cui l’effetto tampone provocato da importanti addensamenti di sangue all’interno del cranio.   Non solo, il limite dei 2 microvolts di attività elettrica cerebrale sotto cui non ci sarebbe la vita costituisce una soglia convenzionale valida solo ai fini legali, visto che essa non corrisponde ad un ipotetico zero strumentale e visto che i risultati dell’esame elettroencefalografico dipendono anche dalle cangianti tarature degli apparecchi e dall’impossibilità tecnica di amplificare segnali elettrici più bassi. 

Un capitolo a parte è rappresentato dalle procedure atte a stabilire la morte cerebrale. Innanzitutto, è possibile constatare come la morte da evento naturale, oggettivo ed osservabile sia stata di fatto trasformata in un evento artificiale, niente affatto oggettivo né tantomeno osservabile, ma riscontrabile unicamente attraverso la tecnica medica.   In altri termini, la morte viene tolta allo sguardo dell’uomo e confinata nei reparti di rianimazione degli ospedali. Ciascuno di noi, in un modo o nell’altro, ha fatto l’esperienza della morte e ciascuno di noi è capace di riconoscerla, indipendentemente dal livello di istruzione o dalle conoscenze nel campo della medicina.   Un corpo freddo, bianco e rigido è certamente quello di un cadavere, mentre un corpo caldo, colorito e con un cuore che pulsa è certamente quello di una persona viva. Ebbene, con l’introduzione del nuovo criterio l’accertamento della morte diventa una questione riservata esclusivamente agli addetti ai lavori.   Anzi, a ben vedere nemmeno i medici sono in grado di stabilire se un uomo è deceduto oppure no (ai sanitari spetta solo il compito di applicare pedissequamente i protocolli); a certificarlo sono unicamente dei test clinici effettuati con specifici macchinari.   Ma quali sono questi test? In cosa consistono?   Innanzitutto, la prima cosa da rilevare è che essi non sono gli stessi in tutti i paesi del mondo oppure vengono applicati in maniera differente. Ad esempio, il tempo di osservazione della morte, il cosiddetto silenzio cerebrale, varia da paese a paese e va da un minimo di due ore di osservazione ad un massimo di sei ore.   Abbiamo già visto come in alcuni paesi l’elettroencefalogramma è obbligatorio ai fini della dichiarazione di morte mentre in altri non lo è. Per quanto riguarda la cosiddetta morte cardiaca (di cui parleremo meglio più avanti) il tempo di arresto necessario affinché si possa decretare la morte del cervello per mancanza di ossigeno è di 20 minuti in Italia, mentre è di soli 5 minuti in Spagna e in altri paesi.   È dunque possibile affermare senza timore di smentita che, in linea teorica, lo stesso paziente può essere dichiarato morto in Inghilterra o in Spagna e vivo in Italia (alla faccia dell’oggettività della morte cerebrale).

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Vale la pena soffermarsi su una procedura in particolare: il famigerato test di apnea, l’ultimo esame diagnostico che viene effettuato al termine dell’esplorazione dei riflessi del tronco encefalico, quando questi risultano assenti.   L’obiettivo del test è dimostrare la perdita della funzione del centro del respiro situato a livello bulbare attraverso l’accumulo di CO₂. In pratica, il paziente viene disconnesso dal respiratore e, una volta raggiunto un certo valore soglia di CO₂ nel sangue, se non si attiva la respirazione spontanea viene dichiarata la morte encefalica.   Per la legge italiana questo «esame» deve essere effettuato per ben due volte, all’inizio e al termine del periodo di osservazione.   Le linee guida per l’esecuzione del test di apnea raccomandano di sostituirlo con il test di flusso cerebrale qualora, nonostante le opportune precauzioni, la procedura causi la comparsa di gravi complicanze tali da compromettere seriamente le funzioni biologiche del paziente (quindi il fatto che sia potenzialmente letale è scritto nero su bianco)    Pertanto, l’attivazione di una simile procedura in un paziente con estremo bisogno di cure non è esattamente un toccasana per la sua salute. Spesso, infatti, il test di apnea non fa che peggiorare il quadro clinico del paziente, riducendo se non addirittura azzerando le sue possibilità di recupero.   È un po’ come se una persona caduta in una piscina venisse salvata dalla morte per annegamento attraverso le tecniche di rianimazione cardiopolmonare, per poi essere gettata di nuovo nella piscina al fine di verificare la sua capacità di riemergere dall’acqua per riuscire a respirare…   Non rappresenta, domandiamo, una chiara violazione dei diritti del malato sottoporre il comatoso a dei test potenzialmente letali quando egli, fino a prova contraria, è ancora in vita?   Non solo: quando il paziente viene sottoposto ai test di accertamento deve essere libero dai farmaci che possono influenzare lo stato di coscienza o deprimere la respirazione. In altri termini, al paziente vengono sospese le cure.   C’è da sottolineare poi un fatto: di norma, le procedure di accertamento della morte encefalica vengono attivate molto in fretta, ossia poco tempo dopo il ricovero in ospedale; parliamo di pochi giorni o addirittura poche ore.   Allora ci si domanda: perché tutta questa fretta nell’avviare i protocolli e attivare una serie di procedure che non sono a rischio zero per i pazienti, ma che possono causare loro ulteriori danni?   C’è il fondato sospetto che questa immotivata celerità nel dichiarare la morte cerebrale risponda all’esigenza di evitare che la vittima possa dare segni di ripresa – ovvero che esca dal coma – rendendo vani gli sforzi delle strutture sanitarie nel reperire organi freschi da trapianto.   È noto come i centri autorizzati ad effettuare i trapianti sparsi nel territorio abbiano dei budget di produzione da rispettare e come il raggiungimento di questi obiettivi sia necessario all’acquisizione di rilevanti finanziamenti pubblici e privati. Del resto, i direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere sono dei veri e propri manager d’azienda.

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A questo punto è quanto mai opportuno porsi la seguente domanda: per la legge, siamo tutti potenziali donatori di organi?   Dunque, la normativa italiana ha stabilito il principio del consenso o dissenso esplicito, sulla base di cui ad ogni persona maggiorenne viene data la possibilità di dichiarare validamente la propria volontà in merito alla cosiddetta donazione degli organi.   Nello specifico, la legge 91/99 agli articoli 4 e 5 ha istituito il principio del silenzio-assenso, in base a cui la mancata dichiarazione di volontà viene considerata come consenso alla donazione. Tuttavia, tale enunciato non può essere applicato, in quanto – come previsto dalla legge stessa – non è stata ancora costituita un’anagrafe informatizzata che consenta la notifica ad ogni cittadino, da parte di un Pubblico Ufficiale, di un modulo per la dichiarazione di volontà.   Per cui, allo stato attuale, le principali modalità con cui è possibile esprimersi in un senso o nell’altro sono le seguenti:  
  • presso gli uffici comunali, firmando un apposito modulo predisposto al momento del rilascio o del rinnovo della carta d’identità;
  • presso gli sportelli delle Aziende sanitarie locali;
  • attraverso una dichiarazione in carta libera completa di tutti i dati personali, datata e firmata.
  Le dichiarazioni di volontà sono considerate valide ai sensi di legge e sono registrate all’interno del Sistema Informativo Trapianti.   Nel caso in cui si scelga di non esprimersi secondo le modalità previste, il consenso viene chiesto ai parenti più stretti o agli aventi diritto. Pertanto, l’espianto può essere effettuato solo in presenza di un esplicito consenso.   È dunque sufficiente opporsi al trapianto per sfuggire alla trappola della morte cerebrale? Purtroppo no. Anche in caso di mancato assenso alla donazione, la legge impone il distacco dai supporti vitali del soggetto dichiarato cerebralmente morto, il quale viene così lasciato morire per mancanza di cure (del resto se il paziente è dichiarato deceduto deve essere necessariamente trattato alla stregua di un cadavere, quantomeno per coerenza).   Comunque, malgrado la massiccia propaganda massmediatica messa in atto dalle istituzioni – che tende a far leva sui sentimenti e sull’emotività per tentare di convincere più cittadini possibili a diventare donatori di organi (la cosiddetta «cultura del dono») – la percentuale di opposizioni ai trapianti si attesta, almeno nel nostro paese, intorno al 40% (una percentuale decisamente alta).   È anche per tale motivo che la macchina delle predazioni è sempre alla ricerca di nuove tecniche per reperire organi. Una di queste è la cosiddetta donazione a cuore fermo (donation after cardiac death o DCD), che mette in evidenza lo stretto legame tra la predazione degli organi e l’eutanasia.   Schematicamente, esistono due tipi di donatori a cuore fermo: controllati e non controllati.   La DCD non controllata concerne tutti i pazienti nei quali la morte per arresto cardiaco avviene in modo improvviso, solitamente fuori dall’ospedale o in pronto soccorso. In tali situazioni non è possibile controllare l’evento acuto che determina la morte e non è possibile studiare clinicamente il paziente come potenziale donatore, per cui a differenza degli altri organi il cuore non può essere prelevato.

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Diverso è il caso della DCD controllata, in cui l’arresto cardiaco è atteso, ossia previsto. Essa fa seguito alla sospensione dei trattamenti intensivi a motivo della loro supposta mancanza di proporzionalità. In altre parole, il malato viene staccato dai supporti vitali, in particolare dal supporto ventilatorio, in una circostanza prevista e medicalmente controllata.   In questo caso il cuore è sano e può essere prelevato dopo i venti minuti di assenza di battito e di circolo, come prescritto dalla legge italiana. Il muscolo cardiaco, già prima del prelievo e del trapianto, viene accuratamente valutato e spesso collegato ad un sistema di circolazione artificiale che permette di verificarne la funzionalità in vista del trapianto.   In pratica, si tratta di pazienti terminali che non soddisfano i criteri della morte encefalica e che hanno in qualche modo manifestato la loro volontà di sospendere i sostegni vitali, oppure che siano stati i familiari (si discute tanto in Italia di questi tempi di rischio eutanasico ma come possiamo constatare l’eliminazione programmata del malato terminale già viene fatta e sotto l’egida della legge).   In un articolo pubblicato sul New York Times il 20 luglio scorso sono stati riportati diversi casi di pazienti la cui morte è stata programmata in anticipo affinché potessero diventare donatori di organi.   C’è da considerare che il periodo di mancanza di battito cardiaco considerato necessario affinché l’ipossia danneggi irreversibilmente il tessuto cerebrale varia, in America, dai due ai cinque minuti, quando l’esperienza clinica dimostra che il cuore può riprendere a battere anche diverso tempo dopo.   In un caso descritto dal New York Times, una donna sottoposta alla DCD controllata ha cominciato ad ansimare in cerca d’aria mentre i chirurghi le segavano lo sterno e il suo cuore ha ripreso a battere. A quel punto l’operazione è stata annullata e dodici minuti dopo la sfortunata signora è stata dichiarata morta per la seconda volta.   Ora, è necessario comprendere che il problema non è solamente legato alla rigorosità delle procedure di accertamento o al fatto che ci sono casi come quelli descritti negli USA in cui le diagnosi di morte risultano, per così dire, «affrettate».   Il problema vero è la definizione stessa di morte cerebrale e la concezione filosofica dell’essere umano che c’è dietro.   E visto che non c’è, né ci potrà mai essere, un protocollo universalmente valido con cui si possa accertare ciò che semplicemente non esiste in natura, le scorciatoie procedurali per rendere più facile l’approvvigionamento degli organi sono inevitabili e tenderanno sempre più ad essere utilizzate in ambito ospedaliero.   A dimostrazione di quanto sia presente tale deriva, sempre il New York Times ha pubblicato un editoriale dal titolo: «Donor Organs Are Too Rare. We Need a New Definition of Death» («Gli organi donati sono troppo rari. Abbiamo bisogno di una nuova definizione di morte»), in cui alcuni cardiologi di fama mondiale sembrano lanciare un appello affinché la comunità scientifica elabori una nuova definizione di morte. Di seguito un breve estratto:   «Una persona può diventare donatrice di organi solo dopo essere stata dichiarata morta (…) La morte cerebrale è tuttavia rara (…) La soluzione, a nostro avviso, è ampliare la definizione di morte cerebrale per includere i pazienti in coma irreversibile sottoposti a supporto vitale».   «Le funzioni cerebrali più importanti per la vita sono la coscienza, la memoria, l’intenzione e il desiderio» – continuano i cardiologi intervistati – «Una volta che queste funzioni cerebrali superiori sono irreversibilmente perdute, non è forse corretto affermare che una persona (in contrapposizione a un corpo) ha cessato di esistere?»   È dunque evidente come la nuova definizione di morte sdoganata dai cosiddetti esperti di Harvard contenga al suo interno tutte le premesse per un suo superamento.   Infatti, privata del fine soprannaturale, l’esistenza umana perde il suo valore intrinseco e finisce per acquisire significato solamente in relazione a quanto essa può essere utile a qualcun altro.

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Non è dunque così improbabile che si arrivi a rendere obbligatoria la donazione degli organi. La cardiologa Maria Frigerio, ex direttrice del reparto di cardiologia dell’ospedale Niguarda di Milano, in un’intervista pubblicata lo scorso febbraio dal Corriere della Sera preconizza l’obbligatorietà dei trapianti.   Secondo la Frigerio, l’elevata percentuale di opposizioni ai trapianti limita pesantemente la possibilità di salvare delle vite ed è «per questo che la donazione potrebbe diventare un obbligo».   Per concludere, vorrei accennare ad un aspetto poco conosciuto che riguarda l’aspettativa e la qualità di vita dei trapiantati.   L’uso continuo e a vita dei farmaci immunosoppressori, necessari a sopprimere la risposta del sistema immunitario verso l’organo trapiantato, riduce la capacità del sistema immunitario stesso di combattere le infezioni e di distruggere le cellule tumorali.   Sussiste dunque un rischio molto elevato di contrarre alcuni tipi di cancro, in particolare i tumori della pelle, alcuni dei quali potenzialmente letali.   Attraverso una ricerca scientifica è stato scoperto inoltre che i trapiantati hanno un rischio particolarmente elevato di sviluppare melanomi che hanno già raggiunto uno stadio avanzato al momento della diagnosi.   Sempre a causa dei farmaci immunosoppressori, le persone che hanno ricevuto un trapianto di fegato, cuore o polmone hanno il 64% in più di probabilità, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare patologie cardiovascolari.   Un altro aspetto che rende più probabile l’incidenza di tali malattie è l’obesità: ben il 50% dei trapiantati subisce un aumento di peso che oscilla tra il 10% e il 35% del loro peso corporeo.   Questo breve e niente affatto esaustivo elenco di problemi a cui vanno incontro i trapiantati ci fa comprendere meglio come la «medicina» dei trapianti, pur presentandosi come una vittoria della scienza, in realtà trasformi il malato in un paziente cronicizzato, dipendente a vita dai farmaci e costretto a sottoporsi a frequenti screening clinici, quindi inserito in una filiera che alimenta enormi interessi economici.   Questo non significa negare la sofferenza di chi è malato e ripone le sue speranze nel ricevere un organo, ma ci invita a guardare più in profondità: quando la vita viene piegata alle logiche di mercato e ridotta a un mezzo, essa perde il suo valore autentico. Ed è proprio qui che si gioca la posta più alta: riconoscere e difendere la dignità dell’uomo, che non è mai un insieme di funzioni biologiche, ma una persona unica, creata a immagine e somiglianza di Dio.   Ho concluso, grazie a tutti voi per l’attenzione.   Alfredo De Matteo

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Ambiente

Studi sui metodi per testare le sostanze chimiche della pillola abortiva nelle riserve idriche

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I funzionari governativi USA stanno valutando se sia possibile sviluppare metodi per rilevare le sostanze chimiche contenute nella pillola abortiva nelle riserve idriche degli Stati Uniti, in seguito all’iniziativa del gruppo Students for Life. Lo riporta LifeSite.

 

Quest’estate, i funzionari dell’Agenzia per la Protezione Ambientale americana (EPA) hanno incaricato gli scienziati di determinare se fosse possibile sviluppare metodi per rilevare tracce di pillole abortive nelle acque reflue. Sebbene al momento non esistano metodi approvati dall’EPA, è possibile svilupparne di nuovi, hanno recentemente dichiarato al New York Times due fonti anonime.

 

La divulgazione fa seguito alla richiesta di 25 membri repubblicani del Congresso USA che hanno chiesto all’EPA di indagare sulla questione.

 

«Esistono metodi approvati dall’EPA per rilevare il mifepristone e i suoi metaboliti attivi nelle riserve idriche?», chiedevano i deputati in una lettera del 18 giugno. «In caso contrario, quali risorse sono necessarie per sviluppare questi metodi di analisi?»

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I legislatori hanno osservato che il mifepristone è un «potente bloccante del progesterone» che altera l’equilibrio ormonale e potrebbe «potenzialmente interferire con la fertilità di una persona, indipendentemente dal sesso».

 

Dopo l’annullamento della sentenza Roe v. Wade, Students for Life aveva rilanciato una campagna per indagare sulle tracce di pillole abortive e sui resti fetali nelle acque reflue. Il gruppo ha affermato che il mifepristone e i resti fetali potrebbero potenzialmente danneggiare gli esseri umani, gli animali e l’ambiente.

 

Nel novembre 2022, i dipendenti di Students for Life si sono lamentati del fatto che le agenzie governative non controllassero le acque reflue per individuare eventuali sostanze chimiche contenute nelle pillole abortive e hanno deciso di assumere i propri «studenti investigatori» per analizzare l’acqua.

 

La campagna era fallita sotto l’amministrazione Biden. Nella primavera del 2024, undici membri del Congresso, tra cui il senatore Marco Rubio della Florida, attuale Segretario di Stato, scrissero all’EPA chiedendo in che modo il crescente uso di pillole abortive potesse influire sull’approvvigionamento idrico.

 

Secondo due funzionari, l’EPA ha scoperto di non aver condotto alcuna ricerca precedente sull’argomento, ma non ha avviato alcuna nuova indagine correlata.

 

Kristan Hawkins, presidente di Students for Life, ha annunciato venerdì: «tre presidenti democratici hanno promosso in modo sconsiderato l’uso della pillola abortiva chimica. Ora l’EPA sta finalmente indagando sull’inquinamento causato dalla pillola abortiva».

 

«Ogni anno oltre 50 tonnellate di sangue e tessuti contaminati chimicamente finiscono nei nostri corsi d’acqua», ha continuato su X. «Spetta al presidente Trump e al suo team ripulire questo disastro».

 

A giugno un rapporto pubblicato da Liberty Counsel Action indicava che più di 40 tonnellate di resti di feti abortiti e sottoprodotti della pillola abortiva sono infiltrati nelle riserve idriche americane.

 

«Come altri farmaci noti per causare effetti avversi sul nostro ecosistema, il mifepristone forma metaboliti attivi», spiega il rapporto di 86 pagine. «Questi metaboliti possono mantenere gli effetti terapeutici del mifepristone anche dopo essere stati escreti dagli esseri umani e contaminati dagli impianti di trattamento delle acque reflue (WWTP), la maggior parte dei quali non è progettata per rimuoverli».

 

Non si tratta della prima volta che vengono lanciati gli allarmi sull’inquinamento dei fiumi da parte della pillola abortiva RU486, detta anche «pesticida umano».

Come riportato da Renovatio 21, le acque di tutto il mondo sono inquinate da fortemente dalla pillola anticoncenzionale, un potente steroide usato dalle donne per rendersi sterili, che viene escreto con l’orina con effetto devastante sui fiumi e sulla fauna ittica. In particolare, vi è l’idea che la pillola starebbe facendo diventare i pesci transessuali.

 

Danni non dissimili sono stati rilevati per gli psicofarmaci, con studi sui pesci di fiume resi «codardi e nervosi».

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Nonostante i ripetuti allarmi sul danno ambientale dalla pillola, le amministrazioni di tutto il mondo – votate, in teoria, all’ecologia e alla Dea Gaia – continuano con programmi devastatori, come quello approvato lo scorso anno a Nuova York di distribuire ai topi della metropoli sostanze anticoncezionali. A ben guardare, non si trova un solo ambientalista a parlare di questa sconvolgente forma di inquinamento, ben più tremenda di quello delle auto a combustibile fossile.

 

Ad ogni modo, come Renovatio 21 ripeterà sempre, l’inquinamento più spiritualmente e materialmente distruttore è quello dei feti che con l’aborto chimico vengono espulsi nel water e spediti via sciacquone direttamente nelle fogne, dove verranno divorati da topi, pesci, insetti, anfibi e altri animali del sottosuolo.

 

Su questo non solo non si trovano ambientalisti a protestare: mancano, completamente, anche i cattolici.

 

Come riportato da Renovatio 21, l’OMS poche settimane fa ha aggiunto la pillola figlicida alla lista dei «medicinali essenziali». Il segretario della Salute USA Robert Kennedy jr. aveva promesso una «revisione completa» del farmaco di morte (gli sarebbe stato chiesto dallo stesso Trump) ma negli scorsi giorni esso è stato approvato dall’ente regolatore FDA.

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