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Essere genitori

La violenza del digitale sulla scuola, tra Intelligenza Artificiale e distruzione della parola. Intervento di Elisabetta Frezza

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Renovatio 21 pubblica l’intervento di Elisabetta Frezza al convegno «Deportazione digitale. Scuola e società tra iperconnessione, virtualità e controllo» tenutosi sabato 11 maggio alla Spezia. 

 

 

Stiamo assistendo a un’invasione capillare e violenta del digitale in tutti gli spazi delle nostre vite, sin dentro gli anfratti più intimi e privati. Dico violenta non perché utilizzi la forza, anzi, ma perché subdolamente si impone senza lasciare alternative o vie di fuga – provate voi a iscrivere un figlio a scuola, a prenotare una visita, a rinnovare un documento, senza un dispositivo informatico. 

 

Sempre di più la macchina, coi suoi algoritmi, condiziona l’uomo, costringendolo a cederle pacchi di informazioni personali e pezzi della propria sfera di libertà. 

 

Il ramo della scienza che si occupa dello studio e della fabbricazione di questi strumenti capaci di compiere meraviglie, fino a simulare (a scimmiottare) alcune funzioni del cervello umano, si chiama «cibernetica».

 

Il kybernètes in greco è il timoniere. La kybernetichè (sott: tèchne) è l’arte di governare la nave. 

 

L’immagine della navigazione come metafora della vita corre lungo tutta la storia del pensiero, della letteratura e della poesia, a partire dai poemi omerici – poemi di navi e di eroi – passando per Platone (che si sofferma sulla prima e la seconda navigazione, cioè sul passaggio dalle vele ai remi quando cadono i venti); per Virgilio (rari nantes in gurgite vasto, primo libro dell’Eneide), per sant’Agostino (che nelle prime pagine del suo commento al Vangelo secondo Giovanni riprende l’immagine del Fedone e la sublima alla luce della fede, e parla con parole stupende del legno della croce a cui aggrapparsi per attraversare il mare della vita e arrivare alla meta).

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La metafora nautica sarà ripresa poi dai poeti del medioevo: da Petrarca, da Dante, col suo Ulisse: «Ma misi me per l’alto mare aperto» (Inferno, XXVI)

 

È dalla notte dei tempi che il timoniere assennato sa che deve preoccuparsi «dell’anno e delle stagioni, del cielo e degli astri», che deve guardare in alto, alle stelle sopra di sé, per trovare l’orientamento. 

 

Oggi invece il timone della nostra nave è serenamente consegnato a una guida aliena, meccanica, che provvede per noi e, così, erode la nostra libertà di decidere la rotta, il libero arbitrio (che è la cifra dell’umano), nella logica del controllo totale. 

 

Ancora una volta i greci ci dicono cos’è che abita le parole. Perché, nel processo in atto di sostituzione dell’uomo (perché di questo alla fine si tratta), nulla è nascosto, tutto è svelato a chi possieda la chiave per leggere le parole e per capire ciò che esse custodiscono. Il tema del linguaggio e delle sue radici lo riprenderemo più avanti.

 

Cerchiamo ora di vedere come siamo arrivati fino qui. Fino a subire questa penetrazione tanto aggressiva, totalizzante e prevaricatrice, della tecnologia.

 

Essa ha potuto avanzare incontrastata in groppa a molti miti: al mito seducente della efficienza, del risparmio di tempo, della comodità, della presunta oggettività delle prestazioni algoritmiche. Al mito della innovazione (il nuovo è sempre bello e buono, per definizione) e dell’eccezionalismo tecnologico, insieme a quello della presunta ineluttabilità del progresso inteso come moto lineare, inarrestabile, trionfale.

 

La sua parte l’ha avuta anche il fascino del volto anarchico e libertario della rete, che ha fatto da volano per l’esplosione delle piattaforme sociali, ma che ha messo in ombra il carattere intrinsecamente autoritario della rete stessa, legata per sua natura alla logica del controllo e del dominio. 

 

Noi siamo facile preda di questa costellazione di miti farlocchi – che sarebbe meglio chiamare superstizioni – soprattutto perché siamo immemori del nostro passato e dei traguardi speculativi raggiunti dagli antichi e da chi, dopo di loro, ha saputo raccoglierne il testimone. Abbiamo perduto le chiavi di accesso a quel patrimonio, un bagaglio di esperienza, sapienza e bellezza accumulato lungo millenni di storia, lasciando campo libero alla conquista.

 

Quante volte sentiamo dire: la tecnologia non si può fermare, è qui per rimanere e, anzi, per guadagnare sempre più terreno. È uno dei ritornelli che la gente ha fatto propri contribuendo, con entusiasmo o con rassegnazione a seconda dei casi, a farlo risuonare dappertutto come un mantra ipnotizzante. Ci siamo autoesentati – sempre per via della famosa comodità – dall’onere del ragionamento, e quindi dalla capacità di formulare qualsiasi giudizio di valore che non vada al di là della ripetizione pappagallesca di quel repertorio fisso di slogan servitici pronti per l’uso.

 

Per spianare la strada a questa cavalcata sono stati usati, poi, vari espedienti pratici. Per esempio, è stata sfruttata la fretta, che è una fretta pretestuosa, ma utile per azzerare il tempo della riflessione. Lo stiamo ora sperimentando con il famigerato PNRR, che ci rovescia addosso valanghe di denaro – denaro sottratto alle nostre tasche e restituitoci a titolo oneroso – ordinandoci come dobbiamo spenderlo entro termini perentori stabiliti da una tabella di marcia implacabile, incalzante.

 

Così, con queste copiose elargizioni, si crea una sorta di dovere di accaparramento in capo ai destinatari, frenetico, garantito dalla pressione sociale: mica puoi permetterti tu di rifiutare un malloppo che ti piove addosso, chi sei tu per rispedirlo al mittente; e pazienza se questo vuol dire cedere il timone al pilota automatico e non sapere dove questo ti condurrà (oppure saperlo benissimo, ma fare come la famosa scimmietta). Ci si conforma, e basta.

 

Tutta questa operazione è intessuta di una sottile perversione onomastica. A partire dalla trovata retorica, per nulla casuale né innocente, della antropomorfizzazione della macchina: la formula «Intelligenza Artificiale» è un termine di marketing che assimila due entità ontologicamente incompatibili: intelligenza e macchina. Ma si porta dietro l’idea di fare della macchina uno di noi, attribuendole vizi e virtù, e nel contempo contribuisce a nutrire in noi un complesso di inferiorità e a farci accettare la colonizzazione del nostro cervello (e della nostra stessa anima) da parte dell’algoritmo incorporeo. In una sorta di grottesca parodia della metafisica. 

 

In realtà tutta questa tecnologia, anche la cosiddetta IA, è fatta a mano (sull’argomento consiglio di leggere e ascoltare ciò che scrive e dice la bravissima Daniela Tafani). È un manufatto dietro il cui funzionamento c’è, invisibile, una quantità sterminata di individui in carne ed ossa, disposti gerarchicamente in una struttura piramidale di stampo feudale: per lo più sono schiavi sottopagati che, con il loro lavoro, contribuiscono a innalzare la macchina a una dignità che non le appartiene, a renderla agli occhi del mondo «intelligente», smart, affidabile, persino infallibile.

 

La gente si lascia convincere che le macchine capiscono, e possono diventare amici sintetici, consulenti virtuali, assistenti fedeli e iperefficienti. Che per esempio possono individuare un delinquente da arrestare, o un bravo lavoratore da assumere; che possono desumere da una serie di crocette se un ragazzino è un bravo studente e avrà successo nella vita, oppure se è destinato al fallimento. INVALSI è precisamente questa roba qua: è la nuova Pizia che, dal suo impenetrabile onfalòs, predice i destini e preimposta le vite, in modo peraltro incontrollabile e insindacabile da parte umana. E così ingabbia ciascuno, fin da piccolo, nella propria stia. Algoritmicamente. 

 

A scopo egemonico, hanno ideato un meccanismo di cattura che attinge alla magia, alla superstizione: le nostre attitudini naturali, in via di veloce atrofizzazione, noi le proiettiamo sulla macchina, in una specie di transfert.

 

Attenzione però che, quando si antropomorfizzano gli oggetti, succede fatalmente che, correlativamente, si de-umanizzino le persone, che vengono reificate, cosificate.

 

Se uso l’algoritmo per decidere se sarai un bravo studente e poi un lavoratore di successo, o un asino per sempre, io nego che tu sia capace di scegliere, di capire, di migliorare, ti tratto come una cosa. Se dico che il tuo futuro sarà così o colà, di nuovo, ti nego di esserne artefice. Ti rendo, di fatto, un mio schiavo, perché ti tolgo il timone della tua nave.

 

I sistemi di valutazione e classificazione predittiva, che poggiano su basi statistiche, sono un colossale imbroglio: funzionano come funziona una lotteria. È evidente infatti che non è possibile predire il futuro di una persona: il processo di crescita non è mai lineare, ed è imprevedibile. Il guaio qual è? È che, in virtù di un meccanismo noto fin dalla notte dei tempi, le profezie tendono ad autoavverarsi, sono fatte per influenzare le sorti (vedere effetto pigmalione, di cui parla bene Stefano Longagnani).

 

L’IA, in realtà, dicevamo, è fatta a mano: c’è un numero sterminato di omini nel backstage. A parte la manovalanza che provvede materialmente ad assemblare la macchina e a farla funzionare – con uno spaventoso consumo di energia, ed enormi danni ambientali di cui stranamente nessuno parla: e questo fa vedere quanto grande sia l’inganno nel film che ci stanno proiettando davanti –, la materia prima che consente alla macchina di svolgere prestazioni tali da farla sembrare addirittura intelligente, qual è? (perché, come dice Daniela Tafani, non ci è mai venuto in mente di pensare che la lavatrice o la calcolatrice, che pure sono più brave e veloci di noi umani a sbrigare incombenze come fare il bucato o fare i conti, siano intelligenti).

 

La millantata «intelligenza» di certi strumenti dipende dalle informazioni di cui noi li rimpinziamo e che loro ingurgitano e poi risputano fuori sotto forma di eco sintetica di ciò che viaggia nell’etere. In pratica realizzano un’immensa operazione di plagio. Siamo noi ad addestrarli, e a perfezionare sempre più le loro prestazioni. Poi ci inchiniamo a loro e ci lasciamo mettere nel sacco.

 

L’IA insomma è un derivato della sorveglianza, si fonda su un’attività di spionaggio condotta su larga scala. Ma qual è il suo obiettivo ultimo e, quindi, anche il suo movente? Il premio, riservato a pochi, non sono solo ricavi fantasmagorici, ma è l’acquisizione di un potere immenso, perché staccato da ogni responsabilità.

 

Chi controlla «i fili elettrici» su cui transitano questi strumenti detiene il potere di decidere chi può passare e chi no, chi può parlare e chi deve tacere, chi può vivere e chi deve morire.

 

Da questa transumanza di massa nell’universo virtuale gli unici a trarre un vantaggio effettivo sono i monopolisti della tecnologia, ché è innegabile che ci sia uno strettissimo monopolio in capo a una manciata di soggetti attrezzati con le infrastrutture di calcolo e con un apparato di sorveglianza che surclassa tutti i concorrenti. 

 

Durante la pandemia questi si sono procurati un bottino mai visto, entrando dentro le nostre case a saccheggiare dati, informazioni, immagini. 

 

Ma la pandemia ha sortito un effetto catapulta anche in un altro senso. Ricordiamo tutti il distanziamento sociale, gli arresti domiciliari, l’isolamento protratto: hanno creato la tempesta perfetta per giustificare un salto mostruoso, di qualità e di quantità (e lo hanno dichiarato, questo piano). A quel punto, infatti, lo strumento elettronico era l’unico medium che permetteva di stare al mondo e di comunicare con l’altro da sé, o almeno con un suo ectoplasma.

 

L’esperimento è servito per moltiplicare a dismisura, per normalizzare e legittimare la dipendenza (in senso proprio) dal mezzo telematico, sancendo l’imprescindibilità del suo utilizzo per gli scolari. I ragazzini hanno guadagnato una investitura istituzionale per stare attaccati allo smartphone, e chi se ne importa se questo funziona anche da idrovora di informazioni personali, da braccialetto elettronico, da profilatore, da spacciatore di spazzatura. Sono effetti collaterali evidentemente trascurabili, o disconosciuti.

 

Ora, non occorrono studi scientifici particolari (per quanto ce ne siano a bizzeffe, e siano dirimenti) per capire ciò che è autoevidente: cosa provoca la consuetudine con questi strumenti fin dalla più tenera età. Il cucciolo d’uomo semplicemente smette di fare molte cose, e di apprenderne molte altre, perché al posto suo le farà un algoritmo: è chiaro che le corrispondenti funzioni, fisiche e cerebrali, appaltate alla protesi, sono inibite sul nascere o si atrofizzano. Peccato che si tratti di attitudini non marginali, ma essenziali, letteralmente fondanti. 

 

La pandemia è stata il trampolino di lancio per la scuola 4.0, in via di rapidissimo allestimento (dicevamo della fretta, appunto…), che non è altro che una immensa sala giochi in cui la tempesta di immagini sostituisce lo studio delle leggi della realtà.

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Da tempo i libri di testo (ciò che ne rimane) sono sempre più zeppi di immagini e vuoti di parole, e le poche parole, appunto, sono ridotte a slogan: specchio impressionante del degrado didattico e cognitivo dilagante. 

 

I quaderni sono, sempre più, sostituiti dai tablet, la penna dalla tastiera. E così si perde l’abilità, l’arte dello scrivere a mano – in particolare della scrittura corsiva – oltre che del disegnare. Si inibisce l’esercizio della manualità fine e tutte le attitudini che si sviluppano col praticarla, a partire dalla memoria (c’è un detto russo che dice «la mano ricorda, ruka pomnit»: la mente si appropria del concetto anche attraverso il corpo, la memoria muscolare che passa per la mano). Senza contare poi che la grafia è una proprietà esclusiva del suo autore, è un connotato distintivo, e il toglierla di mezzo è una via maestra per l’omologazione e la spersonalizzazione. 

 

Ma a ben vedere, è proprio nella lingua, con particolare riguardo alla scrittura (ai gràmmata) che si radica la distinzione tra uomo e animale. Anche l’animale infatti possiede un linguaggio. Ma il linguaggio dell’uomo non è un mero flusso di suoni. Questo è un argomento approfondito in modo mirabile dal prof. Agamben (nel suo saggio La voce umana). Già gli antichi avevano ben capito come il linguaggio umano consti di due piani distinti: il piano del lessico, cioè il sistema di segni (gli ònoma), e il piano del discorso (il logos).

 

I grammata (le lettere, letteralmente: ciò che è scritto) sono la struttura elementare, l’elemento indivisibile, atomico, della lingua: stanno dentro la voce (en té foné) e rendono la voce significante, intellegibile, in quanto scrivibile. Questo è un passaggio fondamentale: la grafia sposta il linguaggio da un piano sensoriale a un altro, cioè dall’orecchio allo sguardo (dal binomio voce-orecchio, a quello mano-occhio) ed è ciò che permette di vedere la voce, di leggerla. Ma non solo: permette di oggettivare la lingua, di articolarla e, quindi, di dominarla. L’uomo, separando da sé la sua lingua, fa diventare il linguaggio uno straordinario, potentissimo strumento di conoscenza. Il linguaggio animale manca di questo fondamentale momento costitutivo. 

 

Alla luce di queste pur sommarie osservazioni, pensiamo dunque a quali ricadute abbia il togliere di mezzo a scuola il magistero e l’esperienza della scrittura, la consuetudine col segno e con il processo di astrazione che vi è collegato, l’esercizio della parola: visto che, appunto, è attraverso questi elementi che l’uomo lascia traccia di sé, perché può fissare il suo messaggio e, fissandolo, lo tramanda.

 

Allora nel diluvio di scemenze di cui la scuola è divenuta teatro, vale la pena ribadire una ovvietà di cui però si sta perdendo contezza. Qual è la funzione della scuola? Alla scuola spetta l’esclusiva di un compito specifico e indispensabile in una compagine sociale, che altrimenti nessun altro svolge: quello innanzitutto di alfabetizzare e, quindi, di trasmettere la conoscenza (con particolare riguardo agli invarianti e alle conoscenze che hanno resistito alla prova del tempo); di iniziare al sapere teoretico, che vuol dire afferrare le cause, elevarsi alle leggi, agli universali, che sono strumenti di comprensione della realtà. Ma è la parola la chiave di accesso al deposito di scienza, arte, letteratura, che non va certo ascritto semplicisticamente alla categoria del passato, ma a quella del durevole, dell’essenziale, dell’eterno. Dell’irrinunciabile.

 

Il danno che si causa negando questi insegnamenti fondamentali si misura anche se si considera come sia per l’apprendimento della lingua materna, sia per quello del linguaggio matematico (i due sono strettamente apparentati), esiste una finestra temporale di opportunità, un periodo dentro il quale la natura ha posto una particolare sensibilità a fissare le parole e la musicalità della lingua, a stamparla nella memoria in modo indelebile. Passata questa fase, diventa difficile recuperare il terreno perduto.

 

Ecco perché il primo dei servizi che la scuola dovrebbe onorare è proprio quello di coltivare il linguaggio affinché tutti siano in grado di esprimersi, e siano in grado di ascoltare e di comprendere gli altri, e così di uscire dal proprio guscio autoreferenziale superando la limitatezza e l’istintività della propria esperienza contingente attraverso la conoscenza delle leggi che la regolano. È solo così che la scuola può essere davvero vivaio e palestra di libertà, e può restituire ai più giovani, insieme alla cognizione della realtà e insieme al senso delle dimensioni che servono a prendere le misure della realtà – vale a dire l’altezza, la profondità, la distanza – anche una solidità interiore andata quasi completamente distrutta. 

 

Senza la parola, infatti, non c’è comunicazione, col suo valore catartico. Prima ancora, senza la parola non c’è ragionamento. Nello sforzo di parlare, di leggere, di scrivere, cova il seme della libertà – dove libertà è il sapersi emancipare da visioni settarie, parziali, ideologiche, imposte dall’esterno, per imparare a interpretare autonomamente la realtà, sulla scorta delle scoperte di chi ci ha preceduto. 

 

Tutto questo è contrario esatto di ciò che fa oggi la scuola: la scuola oggi serve pacchetti ideologici pronti, preconfezionati e prescrittivi. Non insegna, fa propaganda; fa da ripetitore dei media e si appropria dei suoi stessi slogan, dei suoi codici corrivi.

 

Nel giugno 2023 Giorgio Agamben pubblicava uno dei suoi interventi brevi che ci hanno accompagnato in questi ultimi anni di delirio, dal titolo «Virgole e fiamme».

 

«A un amico che gli parlava del bombardamento di Shanghai da parte dei giapponesi, Karl Kraus rispose: “So che niente ha senso se la casa brucia. Ma finché possibile, io mi occupo delle virgole, perché se la gente che doveva farlo avesse badato a che tutte le virgole fossero nel punto giusto, Shangay non sarebbe bruciata”. Come sempre, lo scherzo nasconde qui una verità che vale la pena di ricordare. Gli uomini hanno nel linguaggio la loro dimora vitale e se pensano e agiscono male, è perché è innanzitutto viziato il rapporto con la loro lingua».

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«Noi viviamo da tempo in una lingua impoverita e devastata (…) la nostra lingua si è ridotta a un piccolo numero di frasi fatte, il vocabolario non è mai stato così stretto e consunto, il frasario dei media impone ovunque la sua miserabile norma, nelle aule universitarie si tengono lezioni in cattivo inglese su Dante: come pretendere in simili condizioni che qualcuno riesca a formulare un pensiero corretto e ad agire in conseguenza con probità e avvedutezza? Nemmeno stupisce che chi maneggia una simile lingua abbia perso ogni consapevolezza del rapporto tra lingua e verità e creda pertanto di poter usare secondo il suo tristo profitto parole che non corrispondono più ad alcuna realtà, fino al punto di non rendersi più conto di star mentendo»

 

«La verità di cui qui parliamo non è solo la corrispondenza tra discorso e fatti, ma, ancor prima di questa, la memoria dell’apostrofe che il linguaggio rivolge al bambino che proferisce commosso le sue prime parole. Uomini che hanno smarrito ogni ricordo di questo sommesso, esigente, amoroso richiamo sono letteralmente capaci, come abbiamo visto in questi ultimi anni, di qualsiasi scelleratezza. Continuiamo, pertanto, a occuparci delle virgole anche se la casa brucia, parliamo tra noi con cura senz’alcuna retorica, prestando ascolto non soltanto a quello che diciamo, ma anche a quello che ci dice la lingua, a quel piccolo soffio che si chiamava un tempo ispirazione e che resta il dono più prezioso che, a volte, il linguaggio – che sia canone letterario o dialetto – può farci».

 

La parola ha un valore fondante. C’è un legame inscindibile tra lingua e pensiero, tra categorie grammaticali e categorie logico-filosofiche. Tanto che è difficile per il pensiero sfuggire alla struttura grammaticale in cui si esprime. E le nostre categorie grammaticali riprendono la terminologia aristotelica: per noi, cioè, l’alfabeto del pensiero sono le categorie della lingua greca – non è certo un caso che da tempo cerchino di uccidere il liceo classico, che possiede l’esclusiva dello studio della lingua greca: e ce la faranno grazie all’orientamento vincolante, che non vi orienterà più nessuno, così morirà per asfissia. 

 

Ma il rapporto tra lingua e pensiero è biunivoco, cioè: se è vero che la lingua determina il pensiero, è d’altra parte vero che il pensiero a sua volta plasma la lingua nella quale si esprime. E il luogo privilegiato in cui si manifesta questa tensione, questo scambio, è la poesia, regno dei mille significati: i poeti infatti creano la lingua travalicando le sue strutture. Essi attingono al momento sorgivo, pregrammaticale, della lingua e arrivano ad esprimere l’indicibile, «quel piccolo soffio che si chiamava un tempo ispirazione e che resta il dono più prezioso che, a volte, il linguaggio…può farci».

 

Sta di fatto che l’uso della parola vera (non adulterata o corrotta), della parola che mantiene la presa sulla realtà che designa, della parola nel suo nitore sorgivo, è il contrario esatto della barbarie degli slogan coniati a fini di propaganda. 

 

La parola è simbolo. Simbolo significa unione (syn-ballo), e una parola che rappresenti carnalmente la realtà è capace di unire gli uomini con le cose, con gli altri uomini, e con il Creatore. La parola, in quanto simbolo assoluto, universale, è un ponte tra le creature; intimità con il mistero del visibile e dell’invisibile. 

 

È ovvio che l’artificio nulla ha a che fare con tutto ciò, recide questo nesso con lo spirito, spegne questa magia, toglie alla parola la sua anima.

 

Concludo con il prologo del Vangelo di san Giovanni, che comincia così: «Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, κα λόγος ν πρς τν θεόν, κα θες ν λόγος». «In principio era il Verbo, ed il Verbo era presso Dio, ed il Verbo era Dio». E prosegue più avanti: «Κα λόγος σρξ γένετο κα ἐσκήνωσεν ν μν». «…E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare (lett: piantò la sua tenda) tra noi…»

 

Da sempre l’uomo vive la tentazione di mettersi al posto di Dio, autoattribuendosi i tratti divini di onniscienza e onnipotenza. È così che imbocca la via dell’autodistruzione. Lo sapevano bene anche gli antichi, che hanno cantato la hybris (la tracotanza, il superamento dei limiti) come causa della rovina delle stirpi.

 

Oggi le frontiere della tecnica, sfruttando la fascinazione del progresso, nell’inseguire l’obiettivo del controllo totale degli individui e delle comunità, arrivano a dis-umanizzare l’uomo. Ad aspirare ciò che gli è proprio, ad ammutolirlo (a togliergli la voce). Nel tentativo di reificarlo, standardizzarlo, manipolarlo –sono giunti a manomettere il suo codice fondamentale, la sua struttura più profonda: il genoma.

 

Per riprogrammarlo (in lingua barbara si dice «resettare»: il reset, appunto). Quindi da un lato lo si vuole despiritualizzare, dall’altro però disincarnare, smaterializzare. Si potrebbe dire, in una parola, de-creare. In una specie di creazione rovesciata. C’è insomma, in tutto ciò, il tratto diabolico, perverso, dell’inversione. 

 

La profondità di quanto sta accadendo con la deportazione digitale è tale da intaccare il nucleo duro dell’umana natura, la cifra stessa dell’umano. Ecco perché non possiamo permetterci di lasciare che il contagio corra incontrastato, di rassegnarci alla sostituzione in atto, ma dobbiamo attrezzarci, e attrezzare chi ci succede, per custodire il fuoco: che è il logos, la parola, il simbolo. Ciò che ci consente di stabilire un legame con i nostri simili, coi quali abbiamo in comune qualcosa che risiede nel profondo del cuore e che, allo stesso tempo, ci trascende e ci sovrasta – e che ha a che fare con la legge naturale. 

 

È l’unico modo, questo, che ciascuno di noi ha per onorare la propria sacra libertà (che è tale perché riconosce il limite), tenere il timone della propria nave, essere ciberneta di se stesso in quanto capace di guardare il cielo.

 

Elisabetta Frezza

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Essere genitori

L’allattamento al seno è meglio del latte artificiale, ma le mamme devono limitare l’esposizione alle sostanze chimiche: studio

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Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Secondo un nuovo studio, il latte materno delle madri di tutto il mondo contiene un’ampia gamma di sostanze chimiche che alterano il sistema endocrino, tra cui bisfenoli, sostanze perfluorurate, pesticidi, ritardanti di fiamma e plastificanti, che possono alterare gli ormoni e potenzialmente danneggiare lo sviluppo.   Secondo un nuovo studio, il latte materno delle madri di tutto il mondo contiene un’ampia gamma di sostanze chimiche che interferiscono con il sistema endocrino (IE), come bisfenoli, sostanze perfluorurate, pesticidi, ritardanti di fiamma e plastificanti, che possono alterare gli ormoni e potenzialmente danneggiare lo sviluppo.   I ricercatori sottolineano che il latte umano è ancora l’alimento più raccomandato per i neonati. L’Organizzazione Mondiale della Sanità consiglia l’allattamento esclusivo al seno per i primi sei mesi di vita, perché il latte umano protegge i neonati dalle infezioni e apporta benefici per tutta la vita, tra cui un minor rischio di disturbi dell’apprendimento, diabete, obesità e ipertensione.   «I neonati allattati al seno possono essere esposti a miscele di interferenti endocrini attraverso il latte materno, il che può comportare rischi per lo sviluppo precoce della vita, in particolare per lo sviluppo neurologico e la funzionalità tiroidea», ha affermato la ricercatrice principale, la dottoressa Katherine E. Manz, professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze della Salute Ambientale presso la Facoltà di Sanità Pubblica dell’Università del Michigan.

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Tuttavia, i benefici generali dell’allattamento al seno per la salute sono ancora evidenti e sostanziali. È importante non scoraggiare l’allattamento al seno, ma piuttosto concentrarsi sulla creazione di ambienti che limitino l’esposizione materna a queste sostanze chimiche, ove possibile.   I risultati evidenziano la necessità di una migliore comprensione e regolamentazione dell’esposizione alle sostanze chimiche che si accumulano nel corpo delle donne e che possono essere trasmesse ai bambini attraverso l’allattamento al seno, un percorso che, secondo gli autori, è stato a lungo trascurato.   La revisione globale di 71 studi sulla lingua inglese, pubblicata il 25 novembre su Current Environmental Health Reports, ha documentato livelli misurabili di sostanze chimiche prodotte dall’industria, note per influenzare gli ormoni coinvolti nella crescita, nello sviluppo del cervello, nel metabolismo e nella funzione immunitaria.   I problemi di salute più comuni legati all’esposizione precoce agli interferenti endocrini presenti nel latte materno sono stati gli effetti sullo sviluppo cerebrale e le alterazioni dei normali livelli di ormone tiroideo, come emerge dalla revisione. Gli impatti negativi più significativi sullo sviluppo cerebrale sono stati legati a livelli più elevati di ritardanti di fiamma e pesticidi.   Ad esempio:  
  • Una maggiore esposizione ai ritardanti di fiamma polibromurati è stata associata a punteggi più bassi nei test di sviluppo di Bayley , che misurano il pensiero, il movimento e lo sviluppo socio-emotivo nei neonati e nei bambini piccoli.
 
  • Numerosi pesticidi organoclorurati presenti nel latte materno sono stati associati a peggiori risultati cognitivi e linguistici durante l’infanzia, e alcuni di essi sono stati associati a un rischio maggiore di ADHD.
 

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Oltre alla tossicità neuroevolutiva, numerosi studi hanno riscontrato associazioni tra la quantità di sostanze chimiche presenti nel latte materno e i livelli alterati dell’ormone tiroideo, hanno scritto gli autori.   Ad esempio, uno studio ha rilevato un’associazione tra lo squilibrio dell’ormone tiroideo nelle madri e l’accumulo di PBDE (etere di difenile polibromurato), in particolare nel latte materno subito dopo il parto.   Un altro studio ha scoperto che alcuni pesticidi presenti nel latte materno erano associati, nel sangue del cordone ombelicale dei neonati alla nascita, a livelli più bassi di ormone stimolante la tiroide e dell’ormone IGF-1, che svolge un ruolo importante nella crescita infantile.   Gli interferenti endocrini entrano nell’organismo attraverso l’inalazione, l’ingestione o il contatto cutaneo e sono stati precedentemente rilevati nel sangue del cordone ombelicale e nella placenta. Poiché molti interferenti endocrini si accumulano nell’organismo nel tempo, potrebbero passare nel latte materno durante l’allattamento, suggerisce lo studio.   Sebbene le concentrazioni delle sostanze chimiche variassero notevolmente a seconda della regione e del tipo di sostanza chimica, gli scienziati affermano che 13 degli studi hanno riportato che i neonati ingerivano livelli di esposizione agli interferenti endocrini più elevati di quelli raccomandati nel latte materno.   Tuttavia, gli studi non hanno valutato l’assunzione giornaliera in modo coerente, affermano i revisori. Solo due hanno applicato i criteri di sicurezza raccomandati per i neonati. Gli altri hanno stimato l’esposizione nei neonati utilizzando gli stessi limiti di sicurezza degli adulti, aggiustando solo per il peso corporeo del bambino.

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Gli studi hanno dimostrato la presenza di:  
  • I bisfenoli (come il BPA), utilizzati nei rivestimenti delle lattine per alimenti, nei contenitori di plastica e nelle ricevute termiche, sono stati rilevati in tutto il mondo. Queste sostanze chimiche possono imitare gli ormoni e altri studi hanno collegato l’esposizione precoce al BPA a un aumento del rischio di malattie cardiache, ictus, diabete di tipo 2 e obesità in età adulta.
 
  • I pesticidi organoclorurati, molti dei quali utilizzati in agricoltura e nel controllo dei parassiti e persistenti nel suolo e negli alimenti, sono stati rilevati frequentemente, tra cui 36 diverse sostanze chimiche in 11 studi. Ricerche precedenti hanno collegato l’esposizione a tumori infantili, disturbi neurologiciinfertilità, parto prematuro e problemi metabolici e riproduttivi.
 
  • I ritardanti di fiamma polibromurati, utilizzati in schiume per mobili, componenti elettronici e tessuti, e i policlorobifenili (PCB), un tempo utilizzati in apparecchiature elettriche e materiali industriali e ancora presenti nel suolo, nell’acqua e negli alimenti, sono stati rilevati in tutti i 10 studi che li hanno valutati. L’esposizione è stata associata a punteggi più bassi nello sviluppo infantile, a un maggiore rischio di problemi comportamentali e a squilibri ormonali tiroidei.
 
  • Sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche (PFAS, o «sostanze chimiche perenni»), utilizzate in pentole antiaderenti, tessuti antimacchia, imballaggi alimentari e processi industriali, sono state comunemente rilevate, tra cui PFOA e PFOS. Lo studio suggerisce che queste sostanze chimiche potrebbero essere più concentrate nel latte materno. L’esposizione è stata associata a cancro, malattie della tiroide, danni al fegato, indebolimento del sistema immunitario e problemi di sviluppo.
 
  • Gli ftalati, comunemente presenti nella plastica, nei prodotti per la cura della persona e negli imballaggi alimentari, sono stati rilevati frequentemente, con metaboliti come MEHP, MiBP e MnBP che sono comparsi in tutti gli studi. Sebbene gli ftalati vengano eliminati rapidamente dall’organismo, sono ampiamente presenti nei beni di consumo. L’esposizione precoce è stata collegata a problemi riproduttivi, malattie metaboliche e problemi dello sviluppo neurologico.
 
  • I parabeni, conservanti comuni utilizzati in lozioni, cosmetici, shampoo e alcuni alimenti confezionati, sono stati identificati in 10 studi, e il metilparabene è presente in tutti. In quanto interferenti endocrini, i parabeni possono essere collegati a problemi riproduttivi, cancro al seno, obesità e disturbi della tiroide.
 
  • Gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), un tipo di inquinante atmosferico prodotto dalla combustione di combustibili fossili, dai gas di scarico del traffico, dal fumo di tabacco e dalle emissioni industriali, sono stati rilevati frequentemente. L’esposizione agli IPA è stata associata a problemi metabolici, respiratori, riproduttivi e dello sviluppo.
  Nonostante queste associazioni, i ricercatori affermano che la concentrazione delle sostanze chimiche rilevate negli studi in un dato momento non determina da sola il rischio. Molte si accumulano nell’organismo nel tempo.   Inoltre, le soglie di sicurezza variano a livello internazionale e spesso non sono progettate specificamente per i neonati, osservano i ricercatori. Alcuni studi hanno stimato l’esposizione infantile al di sopra dei limiti raccomandati, mentre altri hanno riscontrato livelli inferiori.   Le differenze da regione a regione potrebbero essere dovute a normative in continua evoluzione, differenze nell’attività industriale, contaminazione ambientale, occupazione e variazioni naturali nella composizione del latte durante l’allattamento, osservano gli autori. Pochi studi monitorano i neonati nel tempo e i metodi di raccolta dati mancano di coerenza, complicando i confronti.   Secondo gli autori, un campionamento standardizzato e una maggiore quantità di dati provenienti da popolazioni diverse potrebbero aiutare gli scienziati a comprendere meglio in che modo l’esposizione a sostanze chimiche durante l’infanzia possa influenzare la salute a lungo termine.

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Per comprendere veramente i rischi a cui sono esposti i neonati allattati al seno, sostengono che sia essenziale sapere come le sostanze chimiche passano nel latte materno e come il livello di esposizione della madre influisce sulla quantità di interferenti endocrini nel suo latte.   «Negli studi futuri, bisognerebbe concentrarsi sul miglioramento delle tecniche di rilevamento, sull’integrazione di misure di controllo della qualità e sulla valutazione dell’esposizione agli interferenti endocrini in più matrici biologiche nel tempo, per ottenere stime di esposizione più precise nei neonati allattati al seno», hanno affermato.   «Inoltre, sono necessari dati più solidi per caratterizzare i livelli di EDC sia in base alla popolazione che alla regione e per chiarire le loro associazioni con esiti negativi sulla salute, al fine di formulare raccomandazioni più complete sull’allattamento».   Per ridurre l’esposizione agli interferenti endocrini, preferire alimenti freschi a quelli confezionati. Scegliere prodotti per la cura della persona che riportino sull’etichetta la dicitura «senza ftalati». Inoltre, filtrare l’acqua potabile, pulire regolarmente con un aspirapolvere con filtro HEPA o utilizzare un purificatore d’aria ed evitare l’uso di pesticidi non necessari in casa.   Pamela Ferdinand   Pubblicato originariamente da US Right to Know. Pamela Ferdinand è una giornalista pluripremiata ed ex borsista del Massachusetts Institute of Technology Knight Science Journalism, che si occupa dei determinanti commerciali della salute pubblica. 

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Immagine di Anton Nosik via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported
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Livelli pericolosamente elevati di metalli tossici nei giocattoli di plastica per bambini

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Un recente studio brasiliano ha rilevato concentrazioni allarmanti di metalli tossici nei giocattoli per bambini commercializzati nel Paese. Lo riporta Science Daily.

 

Ricercatori di due università brasiliane hanno esaminato un vasto campionario di giocattoli di plastica, sia di produzione nazionale che importati, conducendo l’indagine più completa mai realizzata sulla contaminazione chimica di questi articoli.

 

Il dato più inquietante riguarda il bario: in molti campioni la sua concentrazione è risultata fino a 15 volte superiore al limite di sicurezza previsto dalla normativa brasiliana. L’esposizione prolungata al bario è associata a gravi danni cardiaci e neurologici, inclusa la paralisi.

 

«Sono state rilevate anche elevate quantità di piombo, cromo e antimonio. Il piombo, associato a danni neurologici irreversibili, problemi di memoria e riduzione del QI nei bambini, ha superato il limite nel 32,9% dei campioni, con alcune misurazioni che hanno raggiunto quasi quattro volte la soglia accettata» scrive Science Daily. «L’antimonio, che può scatenare problemi gastrointestinali, e il cromo, un noto cancerogeno, erano presenti al di sopra dei livelli accettabili rispettivamente nel 24,3% e nel 20% dei giocattoli».

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Attraverso la spettrometria di massa al plasma, lo studio ha identificato ben 21 elementi tossici: argento (Ag), alluminio (Al), arsenico (As), bario (Ba), berillio (Be), cadmio (Cd), cerio (Ce), cobalto (Co), cromo (Cr), rame (Cu), mercurio (Hg), lantanio (La), manganese (Mn), nichel (Ni), piombo (Pb), rubidio (Rb), antimonio (Sb), selenio (Se), tallio (Tl), uranio (U) e zinco (Zn).

 

«Questi dati rivelano uno scenario preoccupante di contaminazione multipla e mancanza di controllo. Tanto che nello studio suggeriamo misure di controllo più severe, come analisi di laboratorio regolari, tracciabilità dei prodotti e certificazioni più stringenti, soprattutto per i prodotti importati», ha dichiarato uno degli autori principali della ricerca.

 

Gli studiosi hanno inoltre calcolato i tassi di rilascio delle sostanze: la percentuale che effettivamente passa dal giocattolo al bambino durante l’uso normale (inclusa la pratica di portarli alla bocca). I valori oscillano tra lo 0,11% al 7,33%, quindi solo una piccola parte del contaminante viene assorbita. Tuttavia, le elevatissime concentrazioni iniziali e l’esposizione quotidiana prolungata (per mesi o anni) rendono il rischio sanitario comunque significativo.

 

I ricercatori ritengono che i metalli pesanti entrino nei giocattoli soprattutto durante la produzione, in particolare con le vernici e i pigmenti utilizzati. Le correlazioni tra gli elementi rilevati suggeriscono, in molti casi, una fonte comune di contaminazione.

 

In studi precedenti, lo stesso gruppo aveva già documentato la presenza nei giocattoli di interferenti endocrini (sostanze che alterano l’equilibrio ormonale), associati a problemi di fertilità, disturbi metabolici e aumento del rischio oncologico.

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Essere genitori

I bambini con cellulare prima dei 12 anni corrono un rischio maggiore di obesità, depressione e sonno scarso

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Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Ran Barzilay, MD, Ph.D., autore principale di uno studio pubblicato lunedì su Pediatrics e psichiatra infantile e adolescenziale presso il Children’s Hospital di Philadelphia, ha dichiarato a The Defender che spera che i genitori considerino in che modo la decisione di dare un cellulare ai propri figli possa influire sulla loro salute.   Secondo una ricerca pubblicata lunedì su Pediatrics, i bambini che possiedono un cellulare entro i 12 anni corrono un rischio maggiore di obesità, depressione e mancanza di sonno rispetto ai bambini che non ne hanno uno. Inoltre, più sono piccoli quando ricevono il telefono, maggiore è il rischio che diventino obesi e abbiano difficoltà a dormire.   Ran Barzilay, MD, Ph.D., autore principale dello studio e psichiatra infantile e adolescenziale presso il Children’s Hospital di Philadelphia, ha dichiarato a The Defender che spera che i genitori considerino in che modo la decisione di dare un cellulare ai propri figli possa influire sulla loro salute.   «Non dovrebbe essere qualcosa che fai e poi dimentichi», ha detto Barzilay. «Piuttosto, i genitori dovrebbero comunicarlo ai loro figli e collaborare per capire come il possesso di uno smartphone influisca sul loro stile di vita e sul loro benessere».

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Gli autori dello studio hanno condotto analisi statistiche dei dati su oltre 10.000 dodicenni statunitensi nell’ambito dell’Adolescent Brain Cognitive Development Study, descritto come «la più ampia analisi a lungo termine sullo sviluppo cerebrale dei bambini condotta negli Stati Uniti fino ad oggi».   Il team di Barzilay ha riunito ricercatori del Children’s Hospital di Philadelphia, della Penn Medicine, dell’Università della California, Berkeley e della Columbia University.   Oltre a prendere in considerazione i dodicenni che già possedevano un cellulare, hanno monitorato anche i dodicenni che non ne avevano uno all’inizio dell’anno, ma che ne avevano ricevuto uno all’età di 13 anni.   «Quando hanno compiuto 13 anni», ha detto Barzilay, «quelli che avevano ricevuto uno smartphone in quell’anno avevano maggiori problemi di salute mentale e di sonno rispetto ai ragazzi che ancora non ne avevano uno».   Ciò era vero anche quando gli autori tenevano conto della salute mentale e dei problemi di sonno dei bambini dell’anno precedente, ha aggiunto.

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I genitori devono parlare con i loro figli dell’uso del cellulare

Barzilay ha sottolineato che i cellulari non sono intrinsecamente dannosi. «Offrono vantaggi significativi, connettendo le persone e fornendo accesso a informazioni e conoscenze», ha affermato.   Ha empatizzato con i genitori che devono decidere per quanto tempo aspettare a dare un cellulare ai propri figli e che devono stabilire dei limiti di tempo una volta che lo fanno.   I genitori possono stare tranquilli che i cellulari non sono ammessi nella stanza dei bambini durante la notte e che è opportuno dedicare loro del tempo per socializzare e fare attività fisica, ha affermato.   Barzilay ha anche incoraggiato i genitori ad aiutare i propri figli a sviluppare «abitudini tecnologiche sane» parlando regolarmente con loro dell’uso del cellulare e di come li fa sentire.   «Quando gli adolescenti capiscono che queste conversazioni nascono da un impegno genuino nei confronti della loro salute, sono più propensi a collaborare con i genitori, riconoscendo che entrambe le parti condividono l’obiettivo comune di sostenere il loro benessere generale», ha affermato.

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I social media sono solo una parte del problema

Lo studio di Pediatrics si è concentrato sul possesso di cellulari, non sul tipo di contenuti a cui i bambini accedono quando li usano.   Tuttavia, parte della controversia sull’uso del cellulare da parte dei bambini riguarda l’impatto negativo dei social media su di loro. Ad esempio, The Defender ha recentemente riportato la notizia di una ragazzina di 12 anni che si è tolta la vita appena tre settimane dopo aver iniziato ad assumere Prozac, in seguito ad anni di dipendenza dai social media che, secondo i suoi genitori, avevano contribuito alla sua depressione.   Sua madre è ora coinvolta in una causa che accusa TikTok, Snapchat e YouTube di aver preso di mira i bambini vulnerabili con contenuti dannosi.   A gennaio, i ricercatori dell’organizzazione no-profit Sapien Labs hanno riferito che sentimenti di aggressività, rabbia e allucinazioni erano in forte aumento tra gli adolescenti negli Stati Uniti e in India, e che tale aumento era collegato all’età sempre più precoce in cui i bambini acquistano i cellulari.   Questo mese, l’Australia si prepara a implementare il primo divieto nazionale al mondo sui social media per gli adolescenti. A partire dal 10 dicembre, le aziende di social media dovranno adottare «misure ragionevoli» per garantire che i bambini e gli adolescenti di età inferiore ai 16 anni in Australia non possano creare account sulle loro piattaforme.   Entro tale data, le aziende dovranno anche rimuovere o disattivare gli account dei giovani australiani.   Ma i cellulari non sono dannosi per i bambini solo a causa dei social media, secondo il dottor Robert Brown, radiologo diagnostico con oltre 30 anni di esperienza e vicepresidente della ricerca scientifica e degli affari clinici per l’Environmental Health Trust.   All’inizio di quest’anno, Brown ha pubblicato una ricerca che dimostrava che bastano appena 5 minuti di esposizione al cellulare per far sì che le cellule del sangue di una donna sana si aggregassero in modo anomalo, anche quando il cellulare si trovava a un centimetro dalla pelle.   Brown ha dichiarato al The Defender di essere incoraggiato nel vedere istituzioni di alto livello come l’Università della Pennsylvania prestare attenzione alle conseguenze dell’uso dei cellulari sulla salute dei bambini.   Tuttavia, vorrebbe anche che la ricerca si concentrasse su come le radiazioni a radiofrequenza (RF) emesse dai telefoni danneggiano la salute dei bambini. «Non è solo la giovane età in cui si acquista un telefono a essere responsabile», ha affermato.   Miriam Eckenfels, direttrice del programma sulle radiazioni elettromagnetiche (EMR) e wireless di Children’s Health Defense, è d’accordo.   «Lo studio di Pediatrics si aggiunge alla montagna di prove che dimostrano che gli smartphone sono problematici e che i genitori devono proteggere i propri figli. Oltre al contenuto, anche le radiazioni RF sono dannose».   Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ormai riconosciuto che ci sono prove «altamente certe» che l’esposizione alle radiazioni dei cellulari provoca due tipi di cancro negli animali, ha affermato.   «Genitori e pubblico devono avviare un dialogo sensato sulla tecnologia quando si tratta dei nostri figli e smettere di dare per scontato che queste tecnologie siano innocue», ha affermato Eckenfels.   Suzanne Burdick Ph.D.   © 2 dicembre, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.   Questo articolo è stato aggiornato per chiarire che il bupropione (Wellbutrin) è un antidepressivo, ma non un SSRI. È un inibitore della ricaptazione della noradrenalina e della dopamina, o NDRI.   Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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