Pensiero
La superstizione del dio lavoro. E la sua festina ebete

Negli ultimi anni, il 30 aprile, Renovatio 21 ha offerto ripetutamente articoli sulla notte di Valpurga, che cade il 30 aprile, cioè ieri, la notte delle streghe. Nelle scorse annate eravamo spinti dalle offensive ucraine, con tutte le storie che questo sito ha scavato riguardo al neopaganesimo militare ucraino, ai riferimenti al Monte Calvo di Kiev (quello di Musorgskij e di Walt Disney), al ritorno del sacrificio umano slatentizzato nel conflitto.
La Walpurgisnacht, era, in tempi precristiani – ma anche più tardi… – il momento in cui i pagani europei festeggiavano la primavera – cioè la sua dea, Ostara. I celti chiamavano questa data Beltane, la festa del fuoco luminoso. Più a Sud dicevano «Calendimaggio».
La primavera: la promessa della fertilità, dell’abbondanza. L’invocazione del tempo in cui la natura fiorisce è da raccolto. In epoca romana il primo maggio diveniva quindi la festa delle dee primaverili della fecondità: Maia (da cui la parola maius, maggio) e Flora, dea italica della fioritura dei cereali, dei vigneti, dei frutteti.
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Se ci pensiamo, quindi, l’inserzione del «lavoro» in questo giorno non è esattamente fatta con grazia – del resto, grazia e comunismo sono cose incompatibili fra loro.
Il primo maggio, si dirà, ha una nobile tradizione marxista alle spalle: celebra quel giorno del 1889 dove la Seconda Internazionale, riunita a Parigi, decise di lanciare su tutto il globo una manifestazione dei lavoratori. Un dato storico che non solo non conosce nessuno, ma non interessa a nessuno, e neppure spiega perché mai dovremmo ricordarcene (in un’epoca dove gran parte della popolazione può pensare che la Seconda Internazionale sia una misura di reggiseno – e giustamente).
Vediamo: pochi giorni fa, durante il Venerdì Santo, siamo stati tutti a lavorare. Quindi: il giorno della morte di Nostro Signore è un giorno qualsiasi, mentre il giorno del lavoratore, con le sue origini futili e oscure, tutti a casa, tutti al mare, lago, montagna, etc. E concertone fricchettone blasfemo in Piazza San Giovanni a Roma pagato dalla triplice sindacale, con diretta RAI garantita.
Spero sia chiaro a tutti che se festeggiamo il lavoro è perché la Repubblica Italiana ha chiare origini semicomuniste. Tra le forze che composero l’Italia post-fascista, il PCI aveva un grande peso. Il partito di Togliatti, adultero cui l’URSS dedicò un’intera città, era di stretta obbedienza staliniana: prendeva ordini, e non solo ordini, da un Paese che aveva di fatto abolito il cristianesimo per impiantarvi una sua religione civile asfissiante, dove il lavoro, specie quello industriale, era di fatto divinizzato.
Silvio Berlusconi amava dire che la Costituzione Italiana ha un sapore sovietico: la Carta parte con il primo articolo proprio parlando di quello, definendo – incredibile – il lavoro come la base della Repubblica stessa. Qualcosa che ci sconvolge personalmente anche oggi. Anche dopo aver visto la Repubblica stessa negare l’articolo 1 del suo testo fondante istituendo il green pass. (Acqua passata? no)
È difficile, oggi, non vedere la follia settaria dietro tutto questo. Il lavoro come dio, da festeggiare ed onorare. Il lavoro come fine dell’esistenza. Il lavoro come prima cifra dell’essere umano. Si tratta, senza dubbio, di una pazzia che viene da un culto gnostico di secoli fa. Questo è, certamente, il marxismo. E le istituzioni che esso ha contribuito a fondare ne portano il segno.
Chi scrive ritiene il lavoro come qualcosa di più di un’attività: è un fatto quasi istintuale, una necessità, un bisogno spirituale. Il lavoro, dicevano un tempo i cattolici, è la continuazione dell’opera di Dio. Non è solo la produzione del futuro, per me, per la mia famiglia, per tutti: il lavoro per me è l’azione del mio completamento. La prova è che, come vedete, sto lavorando anche oggi.
Ciò detto, come si possa poggiare filosoficamente, strutturalmente, ufficialmente, uno Stato sul lavoro mi rimane un enigma che posso spiegarmi solo in termini mistici: il lavoro era un grande ingrediente del numinoso credo comunista, inflitto a certe dosi anche all’Italia.
Tuttavia, dopo la morte del PCI e l’avvio della sua decomposizione (PDS, DS, PD), anche quella religione, con tutti i suoi dei, è morta. Quello che resta, quindi, è la sua superstizione – etimologicamente, appunto, quello che rimane.
Anche perché sempre meno, tra i tanti affiliati allo Stato-partito piddino permanente che oggi crede di festeggiare qualcosa (quelli che «buon primo maggio!» con tono da «buon Natale»), crede nel lavoro. E su diversi livelli.
Non può credere nel lavoro una persona parcheggiata in un qualche ente inutile, in qualche società parastatale creata come mangiatoia elettorale. Un DOGE italiano, quanti ne scoprirebbe? Quanti impiegati del parastato riuscirebbero a rispondere convincentemente alla mail in cui si chiede loro «elenca cinque cose che hai fatto questa settimana»?
Non può credere nel lavoro chi lavora solo per lo stipendio. Una ricerca americana di anni fa mostrava – dato sconvolgente, assai – che nelle aziende fino all’80% dei lavoratori è disengaged, cioè non coinvolto. Lavora quel poco che deve, quanto basta per portare a casa lo stipendio.
Quindi, più che il lavoro, è il salario: lo sappiamo perché abbiamo visto la «democrazia» premiare forze politiche finite nell’occhio del ciclone, ma con tanti tentacoli tra pubblico e privato che producono stipendi sicuri: filiere infinite di enti, interessi, giri. Immaginate: uno scandalo che riguarda i bambini, e il partito politico coinvolto vince lo stesso le elezioni. Tipo, avete presente? Da dove credete che siano arrivati i voti.
Allora non sarebbe più giusta chiamarla «festa dello stipendio»? Ma andiamo oltre.
Non può credere nel lavoro quanti hanno per rappresentanti persone che hanno fatto gli occhi dolci a Davos e a tutto il cascame della Quarta Rivoluzione Industriale: quanti dei politici post-comunisti accettano senza problemi l’automazione assoluta proposte dalle élite che li hanno cooptati?
Il robot è, ovviamente, la fine del lavoro, ma la cosa non sembra turbare nessuno. Musk agli investitori poche settimane fa ha detto che l’androide di Tesla, Optimus, sarà il prodotto più venduto della storia. Un robot sostituirà qualsiasi mansione, da quelle operaie a quelle sanitarie a quelle domestiche – e non parliamo di quelle intellettuali, dal giornalista al programmatore, cancellate dall’AI tranquillamente disponibile online.
Avete per caso sentito un qualche accento, come dire, antirobotico, nei discorsi intorno al primo maggio? Noi no, al massimo abbiamo visto il capo della CGIL, tra mascherine psicopandemiche, parlare di guerra alla Russia e – testuali parole – Nuovo Ordine Mondiale (come del resto, certi esponenti del PD). Mettetela via: i robot stanno arrivando (forse persino per darvi la caccia) e non aspettatevi che il sindacalista, il politico, la Repubblica fondata sul lavoro possa salvarvi.
In ultimo, aggiungiamo forse il tassello più importante.
Non può credere nel lavoro chi non crede nella vita. Chi la vita la odia, chi in realtà giunge a lavorare contro la vita. Chi accetta la balla della sovrappopolazione e il «diritto» al controllo delle nascite (aborto, contraccezione, provetta) non può credere nel lavoro, perché il lavoro è espansione, mentre quello che la Necrocultura ha inculcato nelle masse progressiste è l’imperativo di contrazione.
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Lo aveva capito un filosofo marxista, Gianni Collu (1946-2016), già nel 1973, quando scrisse Apocalisse e rivoluzione. Collu aveva realizzato come non solo guardando alle consorterie delle élite planetarie come il Club di Roma, ma respirando la cultura (letteraria, politica, filosofica, artistica) messa in circolazione in quegli anni, diveniva chiaro che non si andava più verso l’espansione della rivoluzione, ma verso un’implosione programmata, un’apocalisse. Un programma di riduzione non solo dell’opera umana, ma dell’uomo stesso.
Di qui, mi ripeteva Gianni in quelle telefonate notturne che tanto mi mancano, la costruzione di una cultura che avrebbe favorito il ritorno del sacrificio umano. Un tempo dove la vita umana non solo non varrà più nulla, ma dove la sua sua terminazione sarà ritualizzata, spettacolarizzata, resa massiva, a beneficio sadico degli dèi, «come quelle alluvioni antiche del Gange, o del Brahmaputra, con quelle stragi infinite», mi disse una sera, scolpendomi indelebilmente questa immagine nella mente.
Non divinità della primavera, della fecondità, della rinascita: no, il nuovo ordine è fatto per festeggiare gli dèi della morte, e la loro goduria nel vedere l’essere umano patire e morire, sottomettersi al loro comando – sottomettersi al Male.
Chi non comprende che il mondo moderno è un lavoro antiumano, può amare davvero il lavoro? Può credere in quello che fa, sapendo di contribuire ad un progetto di morte, di dolore, di estinzione? Probabilmente no: al massimo può mantenersi nel senso del lavoro come superstizione, al pari del sale sulla tavola, il gatto nero, la toccata magico-tattica allo scroto.
E allora, a voi che credete di credere nel lavoro, «buon primo maggio». Riposatevi, incolonnatevi, gozzovigliate nella vostra festina ebete.
Mentre sputano sul vostro lavoro, sui vostri diritti, sulla vostra umanità.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Viktor Lazić via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
Pensiero
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Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).
La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.
Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.
Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.
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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0
Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.
Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.
Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.
Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.
Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.
Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».
La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…
Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.
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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).
Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.
L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.
Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.
Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.
Taro Negishi
Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo
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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata
Geopolitica
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