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La storiella di Hitler ebreo e l’oscuro specchio dell’odio

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Il premier israeliano Naftali Bennet ha detto che Putin ha telefonato per scusarsi. L’apparizione di Lavrov alla TV italiana ha fatto il giro del mondo, perché questa cosa delle possibili origini ebraiche di Hitler ha colpito tutti.

 

In ispecie, vogliamo ricordare la reazione di disgusto del grande intellettuale italiano Mario Draghi, incidentalmente Presidente del Consiglio dei ministri, oltre che tra gli ideatori del sequestro dei 300 miliardi della Federazione Russa depositati presso banche estere.

 

Hitler «ebreo»? Che storia è? Ma come si permettono?

 

Tuttavia, come ha avuto il coraggio di ricordare qualcuno, la storiella di Adolfo il giudeo circolava già negli anni Venti, quando il nostro faceva discorsi in birreria a Monaco associandosi ad un partito di ferrovieri, poi divenuto il Partito Nazional-Socialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP).

 

La voce non si spense nemmeno dopo il bunker. Chi scrive crede di ricordare di averlo letto un quarto di secolo fa nel classico Le origini culturali del III Reich di Georg Mosse, storico ebreo del nazismo, che confessò che, quattordicenne, partecipò ad un comizio del führer e ne fu ipnotizzato al punto di gridare anche lui, nella psicosi di formazione di massa, «morte agli ebrei».

 

Per anni, nell’ambito storico era una voce o poco più, ma non così scandalosa. La storia della nonna di servizio in casa dell’agiata famiglia ebrea sembra indisputabile, e viene ricordato che una delle prime leggi del suo partito raggiunto il potere (dopo le leggi animaliste, antivivisezione, antifumo, etc.) fu quella di proibire che le fanciulle «ariane» prestassero servizio come cameriere presso le famiglie ebree. Di fatto, succedeva: la ragazza rimane incinta del padre o del figlio padroni di casa, di certo non può sposarsi (per ragioni che forse immaginate), quindi, non esistendo pienamente all’epoca l’aborto, ella viene allontanata con una congrua somma di danaro – insomma una sorta di ridistribuzione della ricchezza, tanto che un intellettuale di sinistra, anni fa, me la raccontava come un fatto positivo, di progressismo materiale quasi ammirevole.

 

Poi è arrivato lo studio genomico del 2010, quello di cui hanno parlato quelle testate che, di recente, hanno avuto il coraggio di ammettere che fino a poco fa questa cosa la potevi perfino rendere un fatto scientifico – genetico! – senza che nessuno, a differenza che col Lavrov, si scandalizzasse.

 

Ricordo anche io nitidamente gli anni in cui una cosa del genere poteva al massimo suonare provocatoria, ma non richiedere scuse diplomatiche tra vertici di Stato.

 

Non abbiamo idea di cosa sia successo da allora: notiamo, tuttavia come il tema sia cambiato nell’intimo significato, cioè ciò che automaticamente passa all’opinione pubblica, ciò che, in ultima analisi, ha fatto saltare i nervi  al mondo intero pochi giorni fa.

 

Se fino a qualche anno fa dicevi che Hitler poteva avere origine ebraiche stavi significando la sua mostruosa follia, un suo contorto, oscuro complesso di inferiorità. Se lo ripeti oggi, invece, non solo gli ebrei si sentono offesi a morte. Perché? Facciamo fatica a spiegarcelo: una proiezione delle colpe di Hitler sullo stesso popolo da lui sterminato, come dice qualche rabbino apocalittico che ritiene l’Olocausto come una punizione? Un’offesa ad una qualche purezza etnica, spirituale di sorta ? Una macchia revisionista su una storia oramai ritenibile kosher? Una menzogna per screditare lo Stato di Israele?

 

E soprattutto: rispetto agli studi a base di DNA dei ricercatori belgi, che una dozzina di anni fa non scandalizzavano nessuno, qualcuno ha argomentato la tesi contraria?

 

In realtà, non ci interessa. Il vespaio ce lo risparmiamo volentieri.

 

Certo, c’è di che rimanere basiti. Mentre sventolano bandiere runiche del battaglione Azov, tra svastiche (pardon, kolovrat) e Sonnenrad himmleriani, spariscono interi tropi della cultura mitteleuropea.

 

Uno, per esempio, che ricordiamo vividamente dagli studi universitari nella città più comunista d’Italia, è quello del jüdischer Selbsthass, l’«odio di sé ebraico», l’«autoantisemitismo», che era già un termine che dava il titolo ad un libro del 1930 del filosofo ebreo tedesco Theodor Lessing. Gli usi di questi concetti, negli ultimi cento anni, sono stati i più svariati, a partire dagli stessi ambienti sionisti, che usano il termine per descrivere gli ebrei che non abbracciano totalmente la causa.

 

L’idea che un ebreo possa odiare il suo stesso popolo non era così indicibile. Ci fu poi, negli USA del dopoguerra, il caso inarrivabile di Daniel Burros, ebreo di Nuova York, che nascondendo le sue origini, divenne dirigente del Partito Nazista Americano e reclutatore del Ku Klux Klan.

 

Il Burros, sucida una volta scoperto nel 1965,  fu l’ispirazione del capolavoro cinematografico The Believer, pellicola con un giovanissimo Ryan Gosling skinhead-ebreo secchione che fa perdere lo spettatore in labirinti mistici e ideologici tra l’ebraismo e l’antisemitismo: guardare questo film vale più che leggere un trattato, e  potrebbe costituire una parziale risposta alle Erinni scatenatesi contro il Lavrov.

 

Tuttavia, ci emerge un altro ricordo.

 

Da qualche parte, nelle sterminate Conversazioni a Tavola – testo che riprodurrebbe i discorsi del dittatore tedesco durante i suoi pasti vegetariani – fu chiesto a Hitler se vi era mai un ebreo che egli aveva potuto ammirare.

 

Egli diede una risposta subitanea: egli aveva avuto stima di Otto Weininger. Si tratta di una figura non conosciutissima in Italia, se non per l’assimilazione che in genere se ne fa con un altro pensatore giovane ebreo e suicida, il Carlo Michelstaedter de La Persuasione e la Rettorica.

 

Weininger fu un filosofo austriaco divenuto assai popolare a cavallo tra Otto e Novecento, autore di un’opera, Sesso e carattere, che si si intonava nel fermento psicosessualizzante della Vienna freudiana, e che fu letto da generazioni di pensatori, da Ludwig Wittgenstein al teorico della destra esoterica Julius Evola, che ne scopiazzò alcune tesi fra le sue compilazioni di Metafisica del Sesso.

 

Sesso e carattere, che vede nell’archetipo della «donna ebraica» il fattore di disgregazione della società moderna, è considerato oggi un caposaldo della letteratura antisemita. Weininger, che si convertì al cristianesimo protestante, poteva ben definirsi anche lui campione del jüdischer Selbsthass.

 

Weininger, già famosissimo a poco più di 23 anni, si suicidò: si sparò nel petto (esattamente come avrebbe fatto Dan Burros 62 anni dopo in Pennsylvania).

 

E quindi, ecco il motivo per cui lo Hitler aveva una buona considerazione del giovane filosofo: perché si era ammazzato. Egli aveva «conosciuto un unico ebreo decente, Otto Weininger, che si è tolto la vita quando ha compreso che l’ebreo vive della dissoluzione dei costumi nazionali altrui».

 

Si tratta di un argomento deludente, ma ricordare Weininger oggi può esserci estremamente prezioso – più che altro per capire come sia stato possibile che il mondo moderno abbia, improvvisamente, fatto finta di non vedere svastiche e insegne runiche in Ucraina, anzi, le abbia nutrite di armi e di miliardi di dollari.

 

Al di là delle riflessioni percepite come autoantisemite, Weininger in realtà dava una grammatica precisa dell’odio di sé in generale.

 

«Per amare o odiare altri esseri umani occorre innanzitutto amare o odiare se stessi. L’uomo ama o odia ciò che ha una somiglianza con lui» scrive il libro di Weininger Intorno alle cose supreme.

 

In Sesso e carattere va molto più a fondo, e dettaglia come funziona questo sistema della «somiglianza» dell’odio.

 

«Come amiamo negli altri ciò che vorremmo essere interamente ma non siamo mai interamente, così noi odiamo negli altri solo ciò che non vorremmo mai essere, ma che per sempre saremo in parte».

 

«Così si spiega che gli antisemiti più virulenti si trovano fra gli stessi ebrei. (…) Non per questo è meno certo che chiunque odia il carattere ebraico, l’odia dapprima in sé stesso; il combatterlo nella persona di altri non è che un tentativo di liberarsene; localizzatolo totalmente fuori di sé, per un momento ci si illude di esserne liberi».

 

«L’odio, come l’amore, è un fenomeno di proiezione: l’uomo non odia che colui che gli ricorda sgradevolmente ciò che egli stesso è».

 

Il filosofo sosteneva quindi che quando si odia qualcuno, è perché egli è una parte di noi, una nostra proiezione, una piccola immagine di noi stessi che possiamo vedere allo specchio.

 

E quindi, vuoi che l’odio per Hitler impartitoci per decenni, fosse solo la proiezione di qualcosa che il mondo moderno percepiva come una parte di sé?

 

La nostra società moderna è la continuazione dello spirito hitleriano? Per carità non si tratta di un’idea nuova. La teoria del «modernismo reazionario» dello storico Jeffrey Herf dava conto di come la Germania regredita a culto sanguinario in realtà fosse il Paese più avanzato in termini di missili balistici, progettati dai medesimi scienziati che, deportati a fine conflitto, hanno spedito USA e URSS nel cosmo.

 

In ambito artistico, a provare a dire quest’enormità fu l’oscuro, fluviale film di Hans-Juergen Syberberg Hitler, un film dalla Germania, otto ore di riflessione abissale tra musiche wagneriane e scenografie di cartapesta, in cui, alla fine, un pupazzo del dittatore rivendicava tante cose della società attuale che, diceva, potevano venire da lui stesso.

 

In realtà, Renovatio 21 propone qualcosa di ancora più radicale: l’identità tra il mondo moderno e il pensiero e l’opera di Hitler ci pare talmente abbagliante che ci chiediamo, da tempo, come sia possibile non vederla.

 

Il nostro mondo, il nostro lettore lo sa, va verso l’eugenetica – o meglio, ci è già. I padroni del vapore lavorano per riprogrammare la razza umana, creare una specie superiore realizzata in individui nati al di fuori della famiglia naturale: non vi chiediamo di guardare ai progetti di Jeffrey Epstein e né agli investimenti CRISPR di Bill Gates, e nemmeno ai mirror humans di George Church.

 

Vi basta guardare la riproduzione artificiale (eterologa, omologa: ma che differenza è?) praticata ora sulle coppie sterili a spese del contribuente: tanti embrioni prodotti, tanti scartati, alcuni impiantati per avere il bambino eugenetico – quello che Hitler, con i suoi arretrati mezzi analogici, faceva con le stazioni di monta delle SS chiamate Lebensborn («fonte della vita», dove allo scopo si offrivano (volontariamente?) bionde dolicocefale fanciulle locali.

 

(Privi di vera famiglia, generati solo per idealismo genetico, i bambini Lebensborn sono finiti in gran parte male, come i tanti della cosiddetta «fabbrica dei geni», cioè i bambini concepiti negli anni Sessanta con sperma di premio Nobel: ne scriveremo altrove)

 

Vi basta guardare gli articoli pietosi sui poveri bambini figli di «surrogate» ucraine – cioè, affittatrici del proprio utero a benefizio retribuito di coppiette abbienti – ora in difficoltà con la guerra che preme. Il New York Times ha appena pubblicato un lungo articolo in cui descrive le consegne dei pargoli appena nati al confine tra l’Ucraina e l’Europa, con implicazioni strazianti e rivoltanti. Bambini concepiti macchinalmente per avere il miglior prodotto possibile, madre e forse ovuli scelti in cataloghi dove abbondano, ma guarda, esemplari biondi e dolicocefali.

 

Vi basta guardare la preminenza dello sperma danese (biondo dolicocefalo, sempre) nelle banche del seme d’Europa.

 

Insomma lo vedete da voi: tra capitalismo e neofemminismo, tra individualismo utiltarista e orgoglio gay, l’eugenetica procede trionfante verso la razza superiore, come da sogno nazista.

 

Chiedetevelo: Hitler disapproverebbe il disegno biologico innestato sotto la società attuale?

 

Hitler sarebbe contro la diagnosi pre-impianto?

 

Hitler sarebbe contro l’aborto «terapeutico», eufemismo con cui si tratta dell’uccisione di feti ritenuti non-normali? (In realtà, qui abbiamo già la risposta: no, non lo era)

 

Hitler combatterebbe la bioingegneria CRISPR?

 

Hitler si opporrebbe all’ascesa della libera eutanasia, che ci permette di sbarazzarci pure volontariamente della lebensunwerten lebens, la «vita indegna di essere vissuta»?

 

Hitler sarebbe un nemico della Necrocultura?

 

E ancora: Hitler sarebbe contro la vaccinazione mondiale con siero in grado di «migliorare» geneticamente  la razza?

 

Hitler si opporrebbe ai lasciapassare che consentono al cittadino di non essere segregato?

 

Hitler sarebbe contro il greenpass, i lockdown, l’apartheid per una porzione della popolazione ritenuta difforme dalla volontà dello Stato e per questo cacciata senza pietà?

 

Hitler sarebbe contro i campi di concentramento australiani , in Canada, e forse anche in USA, in Gran Bretagna, in Germania, in Austria?

 

Sarebbe contrario, lo Hitler, a piattaforme di sorveglianza totale e di controllo del comportamento umano, che riducono lo spionaggio e la repressione della Gestapo a mera barzelletta?

 

Sarebbe contrario, lo Hitler, ad un ordine mondiale basato sulla violenza, sul diritto del più forte?

 

Sarebbe contrario, lo Hitler, ad un ordine sociale basato sulla prepotenza, per esempio delle multinazionali informatiche, sul singolo debole cittadino?

 

Sarebbe contrario ad una scuola che, su modello sempre più spartano, agisce come sei i figli non appartenessero più alle famiglie ma allo Stato?

 

Sarebbe contrario all’indottrinamento razzista nelle scuole, dove, nell’esempio battistrada americano, insegnano a giudicare le persone dal colore della pelle?

 

Andiamo oltre. Hitler conquistava il mondo al grido di «Ein Volk, ein Reich, ein führer». In cosa ciò differisce, di grazia, dalla globalizzazione?

 

In cosa la sua battaglia genocida per il Neuordnung, il «Nuovo Ordine» differisce dalla volontà di chi vuole imporre al mondo il Grande Reset, il Novus Ordo Seculorum?

 

Ecco, quindi, che forse possiamo dirlo. Il mondo moderno ha odiato Hitler perché sapeva, in cuor suo, che egli ne costituiva una parte interiore.

 

Ora, alla fine dei tempi, questo incredibile specchio si è disvelato.

 

Ecco che per combattere per l’«Ordine Nuovo», il mondo moderno si serve alle porte della Russia di soldati con la svastica. I giornali ci dicono che dobbiamo esserne affascinati. Nazionalismo, romanticismo, difesa della patria degli uteri in affitto.

 

È finito il tempo dell’odio. È stato compreso che si tratta di una parte di sé, che oggi torna utile, che in realtà fornisce i muscoli necessari per portar aventi l’unico grande progetto anglo-hitleriano della ricreazione della razza umana tramite il suo sterminio.

 

Ecco che quindi, ora le democrazie liberali possono guadare lo specchio, e vedervi il battaglione Azov.

 

Che importanza può avere, a questo punto, la storiella di Hitler di origine ebrea? Nessuna. Perché il vero tema qui è che l’intero mondo moderno, possiamo dire, potrebbe avere origini hitleriane – o quantomeno, attingere dalla medesima radice assassina.

 

Stanno a disquisire sulla nonna di Hitler, quando di fatto il suo zombie è tornato fra noi, armato e finanziato per miliardi di dollari.

 

Si sono offesi gli ebrei, ma la realtà orrende è che, tra provette e guerre sanguinarie, abbiamo accettato che Hitler fosse e rimanesse una parte di noi. Senza che la cosa, a quanto pare, offenda nessuno.

 

Realizzarlo, lo capiamo bene, può essere un’esperienza rivoltante – ecco perché tutti si evitano questa dissonanza cognitiva.

 

Tuttavia, è il momento di farsi coraggio: adesso, cari miei, guardate lo specchio. Fissatelo bene.

 

Ammettete che avete combattuto il mostro al punto da divenirlo voi stessi, avete guardato l’abisso al punto che esso guardasse in voi.

 

Il mostro, siete voi, e probabilmente lo siete sempre stati. L’abisso è la vostra casa, e avete accettato di viverci, nonostante fosse costruita sul niente irrorato di sangue innocente.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Immagine via Wikimedia di Bundesarchiv, Bild 102-13774 / Heinrich Hoffmann / CC-BY-SA 3.0; immagine modificata

 

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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