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Bioetica

La Silicon Valley alla conquista dell’immortalità – e dei suoi compromessi preoccupanti

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Renovatio 21 pubblica la traduzione di questo articolo comparso su The Conversation.

 

 

Da qualche parte nella Silicon Valley, un uomo si sveglia presto all’alba.  Si avventura in cucina, soddisfa il suo stomaco brontolante con una tazza di caffè sommersa da una grossa noce di burro biologico.  Del resto, è nel bel mezzo di un digiuno.

 

Dopo una sessione di due ore di meditazione, è pronto per spendere migliaia di dollari per il suo ultimo capriccio – le iniezioni di cellule staminali.  Il medico lo assicura che prelevando le cellule staminali dal midollo osseo e iniettandole in altri tessuti renderanno quest’ultimi più giovani e forti rispetto al loro stato affaticato.  Si fida della sua parola, così come si fida del fatto che spruzzandosi nicotina in bocca si possa trarre gli stessi benefici di una sigaretta ma senza i suoi effetti negativi.

 

Quando si ritira per la notte, imbottito di compresse di melatonina e equipaggiato con occhiali anti luce blu per assicurarsi che il suo ciclo del sonno non sia disturbato, è soddisfatto per i risultati raggiunti durante la sua giornata.  Ha compiuto un altro piccolo passo verso il suo obiettivo.  Potrebbe essere un prodotto del ventunesimo secolo, ma è anche parte del crescente numero di persone che sta facendo di tutto in suo potere per essere vivo anche nel ventitreesimo secolo.

C’è un crescente numero di persone che sta facendo di tutto in suo potere per essere vivo anche nel ventitreesimo secolo.

 

Gli uomini stanno covando da tanto un’ossessione verso il vivere per sempre.  Ma tutti quelli che hanno condiviso la ricerca dell’immortalità hanno qualcosa in comune: il fallimento. E ancora una volta, il sogno dell’eternità si è frantumato.  Così tanto, che molti oggi non possono fare altro che chiedersi se la chiave per la loro immortalità sia già nascosta da qualche parte nei meandri sconfinati della conoscenza umana.

 

La scienza moderna ha aperto una varietà di nuovi metodi per migliorare la vita e ora i più benestanti e tecnologici membri stanno adottando questi nuovi approcci nel tentativo di allungare le loro stesse vite. Ma quello che spesso non si rivela è che la scienza moderna ha anche mostrato i lati oscuri dell’allungamento della vita:  gli inevitabili compromessi psicologici che sembrano programmati a frenarci.  La natura stessa sembra fatta apposta per impedirlo.  Quindi come sarà: umano o qualcos’altro completamente?

 

Una fantasia utopica

Il testo simbolico narrativo La Nova Atlantide di Francesco Bacone era stato pubblicato nel 1627. Il romanzo incompiuto ritrae una società in cui gli esseri umani avevano usato la scienza per combattere il controllo della natura sul loro mondo. Per alcuni, questo mondo rappresenta il presagio di un’utopia scientifica verso cui siamo diretti oggi.  Ma il nostro mondo, al contrario di quello di Bacone, è pieno d’interesse personale e avidità ed è in questo contesto che s’inserisce la ricerca della sfida dell’invecchiamento.

Quello che spesso non si rivela è che la scienza moderna ha anche mostrato i lati oscuri dell’allungamento della vita

 

I tentativi falliti per l’immortalità hanno una lunga storia.  Nell’epopea di Gilgamesh, uno dei racconti più antichi dell’umanità che risale al ventiduesimo secolo a.C., il protagonista a cui è intitolata l’opera affronta una ricerca epica per ottenere la vita eterna.   Dopo molti tentativi e difficoltà, alla fine sente parlare di un fiore sul fondo dell’oceano che gli ridarà la gioventù.  E nonostante l’avvertimento datogli dalle uniche persone cui è mai stata concessa l’immortalità dagli dei – cioè che la conquista del fiore rovinerà le gioie della sua vita – Gilgamesh coglie comunque il fiore dalle profondità acquatiche.

 

Ma il suo successo non dura a lungo.  Gilgamesh perde inevitabilmente il fiore e alla fine, come tutti i mortali prima e dopo di lui, muore.  La sua è una storia di sfida contro le forme mortali, sul duro impegno per fare di tutto per superarle e la definitiva futilità dell’idea.  Abbraccia un tema che ha ancora un’importanza rilevante nel campo della ricerca contro l’invecchiamento.

 

 

Le spedizioni ordinate dall’imperatore cinese Qin Shi Huang alla ricerca dell’elisir di lunga vita

 

Circa 2000 anni dopo, il primo imperatore della Cina unita, Qin Shi Huang, era innamorato dell’idea di poter regnare per sempre. Chiese ai suoi sudditi di trovare per lui «l’elisir di lunga vita», ma siccome invecchiava senza alcuna risposta in vista iniziò a disperarsi.  Ci sono prove per cui lui iniziò a ingerire pozioni contenenti solfuro di mercurio, composto altamente tossico.  Quindi in un ironico scherzo del destino, la sua ricerca di vita eterna lo condusse in realtà prematuramente alla tomba.

 

Con il passare del tempo nel 19esimo secolo l’elisir di lunga vita diventò sempre più noto, con molti locali e farmacie che vendevano i loro miscugli con quel nome. Queste pozioni,  composte di acqua, erbe e una considerevole quantità di alcol, un tempo pubblicizzate per allungare la vita, si sono gradualmente trasformate nei rimedi naturali a base di erbe dei giorni nostri.  Ma ci sono voluti altri cento anni prima che la società iniziò a sostituire questi elisir con qualcosa basato su prove concrete.

 

Entro gli anni Trenta, gli scienziati facevano esperimenti su cavie per dimostrare che ridurre le calorie porta a un significativo aumento della durata della vita, una scoperta che è ancora oggi importantissima per i ricercatori d’immortalità attuali.  Nonostante questo successo, la ricerca nei processi d’invecchiamento rimasero al massimo su piccola scala.  Ma all’orizzonte vi era una rivoluzione.

 

Nel 1945 nacque la Gerontological Society  (Società Gerontologica)che fondò una rivista e coltivò notevole interesse per le ricerche in questo campo.  Il suo lavoro fu ritenuto valido, dal momento che agli inizi degli anni Ottanta la comprensione e il desiderio dell’umanità nei confronti della ricerca sull’invecchiamento erano aumentati notevolmente.

La riduzione di calorie rimane un elemento cruciale per i ricercatori di longevit

 

La riduzione di calorie non era più il solo elemento sulla lista delle strategie anti invecchiamento.  Infatti, sono state rapidamente rilevate nuove scoperte sulla comunicazione cellulare tramite segnali e sull’’impatto che questo processo ha sul comportamento cellulare.  In particolare, vi erano le ricerche basate sull’ormone dell’insulina, che si scoprì essere responsabile di molti aspetti dell’invecchiamento.

 

In seguito, nel 1990, Daniel Rudman rivoluzionò il settore con il suo studio sull’ormone della crescita umano.  Aveva notato che la quantità di massa corporea magra (tutto nel corpo ad eccezione del grasso) si abbassava quando la quantità dell’ormone della crescita prodotto dalle cellule diminuiva. Interessante sarebbe stato vedere se fosse riuscito a invertire quest’andamento, la sua squadra iniettò a uomini più vecchi gli ormoni della crescita sintetici, rinvigorendo i loro corpi con una forma più giovanile ristorando la loro abilità di rompere le cellule grasse e costruendo nuove ossa e cellule muscolari.

Nel 1990, Daniel Rudman rivoluzionò il settore con il suo studio sull’ormone della crescita umano. La mania dell’ormone di crescita umano è poi sparita

 

A questo punto, gli imprenditori si stupirono e presero nota.  Molti furono i passi in avanti per guadagni monetari, determinati a vendere l’ormone come una terapia anti invecchiamento.  I giornalisti erano trascinati dall’onda del successo, scrivendo dell’ «iniezione di gioventù» e si domandavano se potessimo smettere di invecchiare completamente.

 

La metamorfosi dell’industria anti-aging era cominciata. E sebbene nessuno sapesse veramente quale mondo sarebbe potuto emergere quando la loro missione di longevità sarebbe stata raggiunta, erano determinati a renderlo qualcosa di meraviglioso.

 

La mania dell’ormone della crescita umano è poi sparita, ma un mucchio di terapie supplementari alternative avevano preso facilmente il loro posto.  Nel 2003 vi fu anche il completamento del Progetto sul Genoma Umano, che si pensava potesse risolvere  diverse malattie relative all’invecchiamento identificando la chiave dei geni che le avevano causate.  Ancora una volta la risposta anti invecchiamento rimase elusiva.

 

Rapidamente, molti campi della ricerca erano stati analizzati per trovare risposte:  salute, scienza dello sport, psicologia, medicina, informatica.  L’interesse è solo aumentato e ricchi benefattori hanno mostrato un’altalenante perseveranza, con intere aziende che iniziavano a esistere nello sforzo di sbloccare l’eternità.  Una tale sicurezza solleva una domanda inevitabile a tutti noi: ma ci si può riuscire davvero?

 

Il biohacking del corpo

Ci sono tanti, tantissimi bar in California.  Ma ce ne sono alcuni, nel centro di Los Angeles e a Santa Monica, per esempio, che offrono un’esperienza unica.  Al loro interno vi sono: un’illuminazione che cambia a seconda del momento della giornata, sedie elettromagnetiche progettate per aumentare il flusso sanguigno dei clienti e un caffè infuso con olio e servito con burro.  Questi sono i Bulletproof coffee house di Dave Asprey, nel cuore del cosiddetto movimento biohacking.

 

Asprey è un tipo controverso, ben noto, che spesso dichiara pubblicamente che vivrà fino a 180 anni aumentando le sue abitudini quotidiane per alterare la sua fisiologia.  Il blog Bulletproof di Asprey è pieno zeppo di articoli e podcast che dettagliatamente descrivono i benefici che si possono ipoteticamente raggiungere mettendo in pratica determinati «trucchi».

 

David Asprey

 

Tra questi vi sono gli integratori alimentari – che i cinici noteranno essere disponibili come prodotti Bulletproof – e le attività imputate stressanti per il corpo.  Alcuni di questi principi opinabili si materializzano nei coffee shop Bulletproof, tra cui oltre all’indiscusso protagonista, il caffè Bulletproof, vi sono anche mobili magnetici, pannelli a pavimento e livelli elevati per la pratica dello yoga che forniscono un diverse tipologie di sostegno.

 

Lungi dall’essere una scienza esatta, il biohacking è un termine generico che comprende una manciata di materiali di sostegno, un pizzico di ragionamento scientifico e una spolverata di filosofia per essere sicuri.  (Le persone che utilizzano la tecnologia per modificare i loro corpi sono chiamate anche con il termine «biohacker», ma sono più comunemente chiamati transumanisti, di cui parleremo dopo).

 

Alcuni tra i biohacker più eccentrici incoraggiano addirittura l’uso regolare di farmaci e droghe illegali, come il narcotico psicoattivo MDMA, per migliorare il proprio fascino, e il modafinil nootropico creato per il trattamento della narcolessia, per aumentare le funzioni cognitive.  E, a differenza di molte aziende anti-age della Silicon Valley, che pagano una considerevole credibilità nei confronti delle variazioni genetiche giocando un ruolo cruciale nell’invecchiamento, il biohacking adotta un approccio epigenetico puro.  Sostiene che tutti gli uomini possano raggiungere la longevità semplicemente cambiando le abitudini e il modo di vivere.

 

Il biohacking adotta un approccio epigenetico puro.  Sostiene che tutti gli uomini possano raggiungere la longevità semplicemente cambiando le abitudini e il modo di vivere.

Quindi a quale tipo di stress fisico ci raccomandano di sottoporci i biohacker?  Ce ne sono tanti, un esempio tra tutti è la comune doccia fredda.  Teoricamente, immergere il proprio corpo in acqua ghiacciata è una manna per il sistema immunitario.  La prova scientifica che lo sostiene ha valore per lo più indicativo e sottolinea la tendenza dei biohacker di estrapolare all’occorrenza scoperte scientifiche per rinforzare la loro visione del mondo.  Ma occorre guardare appena oltre la superficie per scoprire l’altra faccia della medaglia.  

 

Il freddo potrebbe sì esercitare le nostre vene a essere reattive, mettere in atto l’eliminazione del grasso bruno e alleviare le infiammazioni, ma potrebbe essere un’arma a doppio taglio.  Le basse temperature possono anche restringere i vasi sanguigni – aumentando la pressione – e incrementando così la possibilità di sviluppare infezioni.  Questo agisce contro la presunta (e non confermata) manna di salute.

 

Detto ciò, le docce fredde e altre pratiche estreme – che per Dave Asprey lo aiuteranno a vivere fino a 180 anni – sono giochetti da giovani e potrebbero andare contro l’allungamento della vita.  Una pratica del biohacking potrebbe produrre un guadagno netto di salute quando si è giovani, ma invecchiando ci sono buone probabilità che producano l’effetto contrario.

 

Inevitabili compromessi

Il settore del biohacking considera raramente i lati negativi dell’allungamento della vita, cioè che a ogni successo corrisponda un compromesso.  La ricerca ha mostrato che si può allungare la vita, ma al prezzo di non riuscire più a combattere un’infezione.  Per esempio, possiamo allungare la vita di un moscerino da frutta, Drosophila melanogaster, forzandolo a mangiare una dieta ricca di zuccheri e povera di proteine.  Questo a costo però di meno prole per ciascun individuo e un’abilità ridotta di combattere infezioni, un processo che richiede proteine.

La ricerca ha mostrato che si può allungare la vita, ma al prezzo di non riuscire più a combattere un’infezione

 

Possiamo anche aumentare la loro longevità abbattendo i geni immunitari o esponendo i moscerini a un’infezione mortale.  Ma, analogamente, entrambi questi trattamenti porterebbero a una significativa riduzione della capacità di combattere infezioni.

 

Zoomando sui componenti cellulari si può notare che i dettagli rilevano molti di questi compromessi.  La storia di Cenerentola del settore anti-age è mTOR (bersaglio della rapamicina nei mammiferi), una molecola che assume una serie diversa di ruoli mandando segnali a tutto il corpo.  Il controllo di mTOR, in effetti, ci permette di monitorare una buona parte del sistema cellulare, compreso il suo invecchiamento e la sua divisione.  E c’è ora una serie di farmaci anti invecchiamento che modulano l’attività di mTOR.

 

I Biohacker, da parte loro, hanno scoperto un modo per manipolare in modo naturale mTOR in uno stato simile diminuendo l’assunzione di calorie, a volte attraverso il digiuno intermittente.  La logica dietro tutto ciò è che mTOR segnala soltanto la cellula da costruire e crescere quando ci sono abbastanza sostanze nutritive intorno a essa ritenute valide.  Quindi consumare meno cibo significa meno attività mTOR, ridurre la crescita cellulare e, a sua volta, il tasso di morte cellulare.  Ma le prove evidenziano che inibendo le funzioni di questa importante molecola non solo si rallenta l’invecchiamento ma si sopprime anche il sistema immunitario.

 

Il nostro sistema immunitario è costoso poiché utilizza i nostri preziosi mitocondri (i batteri che forniscono energia alle nostre cellule) per produrre i componenti tossici necessari e causano infiammazione quando devono combattere i germi, che danneggiano i mitocondri.  Quindi sopprimendo il sistema immunitario – come mostrato sia nel nostro lavoro che altrove – possiamo evitare questa sorta di danno e migliorare la longevità.

 

Certo, l’approccio comporta rischi considerevoli.  Questi studi sperimentali sono stati effettuati tutti in ambienti controllati con una minima esposizione ai germi.  In un ambiente reale, che compromette in modo naturale un sistema immunitario, sia attraverso integratori di farmaci che di restrizioni caloriche, possono costarci molto caro, specialmente in un mondo in cui i batteri diventano in modo sempre più costante resistenti agli antibiotici.

 

Il compromesso tra immunità e longevità è un semplice esempio di come la natura equilibra sempre tutto.  La prevenzione al danno dei mitocondri e la sospensione della morte cellulare potrebbero sembrare pratiche eccellenti per allungare la vita, a prima vista, ma la rinuncia a una risposta immunitaria completamente funzionale, è un prezzo molto alto e potenzialmente fatale da pagare.

 

Non vale nemmeno la pena che la selezione naturale abbia conservato il meccanismo equivalente all’mTOR attraverso l’evoluzione di tutti gli animali, funghi e piante, che sottolinea semplicemente quanto utile sia.  Forse non dovremmo essere così pronti a interferire con un elemento tanto essenziale per la salute delle nostre cellule.

 

Immortalità o umanità?

Ci sarà sempre una miriade di modi in cui le nostre forme mortali possono andare male.  E abbiamo visto che i vincoli fisiologici sembrano fatti per frenarci dall’estendere drasticamente la nostra vita e porre rimedio alla causa originaria dell’invecchiamento – se mai ce ne dovesse essere una.

 

Ma sul confine tra fantascienza e scienza pioneristica vi sono idee tecnologiche emozionanti che potrebbero forse sbloccare un tipo diverso di immortalità.  La tecnologia può già aiutarci a identificare precocemente i difetti correlati all’età, ma ha il potenziale per diventare ancora meglio: e se fossimo in grado di aggirare i compromessi biologici completamente?

 

Neuralink, l’azienda del miliardario Elon Musk è già in marcia per portarci su questo cammino transumano.  Prevede un futuro in cui gli umani sono molto più connessi intimamente tra di loro attraverso strumenti tecnologici rispetto a quanto lo siamo oggi.  Ci invita a lavorare verso un’interfaccia cervello-macchina che possa fondamentalmente unirci alla tecnologia, raggiungendo con essa una relazione veramente simbiotica.

 

La ricerca è ancora alle prime fasi, ma le interfacce cervello-macchina sono già in uso sotto forma di impianti auricolari od oculari che possono riabilitare i nostri sensi e impianti cerebrali che permettono alle persone disabili di controllare in modo remoto computer e robot.  Neuralink mira a compiere passi in avanti senza interruzioni connettendoci a dispositivi elettronici, a internet e anche ad altri uomini.  Essenzialmente, avremo tutti informazioni enciclopediche a portata di mano e saremo in grado di comunicare con altri telepaticamente.

Un’interfaccia cervello-macchina potrebbe essere iniettata endovena e viaggiare fino al nostro cervello.  Poi potrebbe essere autoassemblata in una struttura ramificata al di fuori della corteccia cerebrale, unendo così la tecnologia al centro della nostra intelligenza e la sensibilità

 

Per rendere questo grandioso miglioramento possibile, un’interfaccia cervello-macchina potrebbe essere iniettata endovena e viaggiare fino al nostro cervello.  Poi potrebbe essere autoassemblata in una struttura ramificata al di fuori della corteccia cerebrale, unendo così la tecnologia al centro della nostra intelligenza e la sensibilità.

 

Nonostante l’invasività degli impianti Neuralink, c’è già una serie di sani individui che sono ansiosi di raggiungere un tale miglioramento artificiale.  Alcuni sono arrivati al punto di sottoporsi a operazioni chirurgiche semplicemente per installare un dispositivo di scarso valore nel mondo reale.  Ma questo potrebbe essere solo l’inizio.

 

Neuralink e la tecnologia a cui aspira, potrebbero diventare la porta d’accesso verso un futuro post-umano.  Attraverso le ricerche in quest’area, saremmo forse in grado di decifrare i significati per tradurre accuratamente i nostri percorsi biologici e chimici neuronali, in dati elettronici che potrebbero incapsularli.  E quindi potremmo, alla fine, catturare i nostri animi con un computer, vivendo per sempre come memoria digitale controllata da un frammento di software.

 

Questa potrebbe essere una soluzione estrema alla domanda del come si può vivere per sempre, ma ci sono individui, come l’imprenditore Dmitry Itskov, smaniosi all’idea di unirsi a un computer.  L’iniziativa 2045 di Itskov vede le interfacce cervello-macchina solo come la prima di quattro fasi, di un cammino che culmina in un cervello artificiale in grado di ospitare la personalità umana e controllare un avatar tipo ologramma.

L’iniziativa 2045 di Itskov vede le interfacce cervello-macchina solo come la prima di quattro fasi, di un cammino che culmina in un cervello artificiale in grado di ospitare la personalità umana e controllare un avatar tipo ologramma.

 

Itskov e altri futuristi stanno promettendo l’immortalità, ma per raggiungerla dovremo scendere al compromesso più grande di tutti, dare via uno dei nostri doni più preziosi e che più ci caratterizzano:  la forma umana.  Il cervello è sempre stato il contenitore della nostra anima.  Una copia artificiale potrebbe portarci a catturare la nostra intera rete di  100 trilioni di connessioni, ma saremmo veramente noi?

 

È una lunga questione, ma la nostra trascendenza (o forse divergenza) lontana dalla materia organica significherebbe che potremmo smettere di essere umani così come lo intendiamo.  Le preoccupazioni degli uomini per cui si sono sempre battuti da millenni-risorse, benessere, compagni – potrebbero smettere di essere importanti.  Piaceri fisici che sono stati fondamentali per la nostra esperienza – intimità, emozioni, musica, cibo – potrebbero essere sostituiti da segnali virtuali e stimolanti sintetici.

 

O almeno per alcuni.  Il resto di noi che non può permettersi di diventare avatar immortale sarà lasciato a vedersela con queste ora insignificanti preoccupazioni, mentre i benestanti post-umani si dirigeranno oltre, verso l’eternità.

 

La nostra trascendenza (o forse divergenza) lontana dalla materia organica significherebbe che potremmo smettere di essere umani così come lo intendiamo

Musk ha mostrato che l’imprenditorialità può contribuire alla scienza attraverso le sue incursioni nel settore dello spazio e il suo progetto di razzo rivoluzionario.   Ma la conquista della longevità è stata sentita così tanto dalla Silicon Valley e dagli altri nel mondo degli affari che alcuni ricercatori scientifici si sono attivamente allontanati dal suo raggiungimento.  Nel campo di una ricerca biologica che dipende così tanto da una rete di aspetti globali, gli obiettivi più nobili hanno bisogno di prendere una posizione di rilievo.

 

Una difficoltà fondamentale di tutti questi impegni è che sono un esempio di scienza, presumibilmente guidati non molto da un desiderio di una più ampia conoscenza dell’universo o del miglioramento dell’umanità, ma dal guadagno personale e un ritorno individuale.

 

Se troveremo mai un modo per superare i compromessi fisiologici che ci frenano dall’immortalità o se saremo mai in grado di replicare la consapevolezza umana in un computer sono domande ancora troppo difficili cui rispondere.  Ma quelli che portano avanti il processo contro la morte almeno ci ispirano a vivere vite sane o sono semplicemente in gara contro un destino inevitabile?

 

Se lo chiedessimo ai ricchi proprietari della Silicon Valley, la risposta sarebbe la precedente.  Ci reindirizzerebbero alle statistiche  della durata della vita: hanno dimostrato che sopravviviamo ben un decennio in più rispetto alla media di circa 50 anni fa.  Enfatizzerebbero anche la prova crescente che sfida l’idea di un “limite superiore” su quanto a lungo può sopravvivere un individuo.

 

La ricerca in corso, argomenterebbero, sta già portando frutti e ci sarà soltanto un progresso esponenziale da qui in avanti.  Ma, purtroppo, forse, la nostra ricerca ha oscurato gli svantaggi considerevoli che potrebbero accadere alla nostra salute come conseguenza alle intromettenti terapie anti-age. Sembra, dunque, che l’uomo continui ad andare oltre i suoi limiti.

 

 

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Bioetica

Il Quebecco si muove per riconoscere il «diritto» all’aborto nella proposta di costituzione

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Il Quebecco ha proposto una legge per sancire un apparente «diritto» all’aborto nella bozza di costituzione della provincia canadese.

 

Il 9 ottobre, l’Assemblea nazionale del Quebecco ha presentato il disegno di legge n. 1, Legge costituzionale del 2025 sul Quebec, che mira a stabilire una costituzione per il Quebec che dia priorità ai valori della provincia, tra cui la cosiddetta «libertà» di aborto.

 

«Ora dobbiamo andare oltre», ha dichiarato il primo ministro François Legault all’Assemblea Nazionale. «Il Quebecco ha scelto di restare in Canada, ma ha anche scelto di affermare il suo carattere nazionale e distintivo».

 

«È giunto il momento di affermare, in modo chiaro, l’esistenza costituzionale della nazione del Quebecco», ha proseguito. «La Costituzione riunirà tutte le nostre regole, tutti i nostri valori fondamentali in un’unica legge. Diventerà la legge di tutte le leggi».

 

La proposta di legge costituzionale comprende diversi emendamenti contrari alla vita, tra cui l’inserimento delle leggi sull’aborto e sull’eutanasia nella costituzione provinciale. La legge è stata approvata con 71 voti favorevoli e 30 contrari. «Lo Stato protegge la libertà delle donne di abortire», promette l’articolo numero 29.

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Il Quebecco ha recentemente confermato il suo sostegno all’aborto quando la Corte superiore provinciale ha stabilito che le “zone bolla” delle strutture per l’aborto sono incostituzionali, ma «giustificate».

 

Attualmente, la legge del Quebec impedisce l’attività di advocacy pro-life entro un raggio di 50 metri da qualsiasi struttura o sede di un’attività che offre di eseguire il feticidio. Tra le attività vietate rientrano anche scoraggiare una donna dall’aborto od offrire risorse alternative per aiutare la madre a tenere il bambino.

 

Inoltre, la legge promette di prendere di mira i malati e gli anziani attraverso l’eutanasia. La legge si impegna a garantire che «qualsiasi persona le cui condizioni lo richiedano abbia il diritto di ricevere cure di fine vita», un termine che include il ricorso all’eutanasia. Da notare come l’anno scorso era emerso uno studio sul Quebecco che rivelava che più di uno su dieci bambini abortiti nel secondo trimestre nasce vivo, ma solo il 10% sopravvive più di tre ore.

 

Allo stesso tempo, il Quebecco, una provincia notoriamente liberale, ha il tasso più alto di suicidio assistito in Canada.

 

La provincia ha registrato un aumento del 17% dei decessi per eutanasia nel 2023 rispetto al 2022, con il programma che ha causato la morte di 5.686 persone. Questa cifra elevata rappresenta un impressionante 7,3% di tutti i decessi nella provincia, collocando il Québec in cima alla lista a livello mondiale. Di conseguenza, si è avuto anche il rivoltante record per la predazione degli organi, con la triplicazione dei trapianti da vittime di eutanasia.

 

Come riportato da Renovatio 21, ad agosto l’Ordine dei medici del Quebecco ha dichiarato che l’eutanasia è un «trattamento appropriato» per i bambini nati con gravi problemi di salute. L’eutanasia per i neonati era stata sostenuta dai medici quebecchesi ancora tre anni fa, mentre è discussa apertamente l’eliminazione eutanatica dei malati di demenza.

 

Gli sforzi quebecchesi si iscrivono in un contesto globale in cui, come per un silenzioso ordine dipanato in tutta la Terra, vari Paesi a trazione progressista sta cercando di costituzionalizzare l’aborto, sulla scorta di quanto fatto da Emanuele Macron in Francia due anni fa.

 

Come riportato da Renovatio 21, anche il governo spagnuolo sta lavorando per sancire il diritto al feticidio nella Costituzione.

 

Un anno fa a Brusselle è stato approvato il progetto di inclusione dell’aborto nella Carta Europea. L’anno precedente gli eurodeputati avevano chiesto che il feticidio divenisse «diritto fondamentale».

 

Altri Paesi non marciano nella stessa direzione, Cinque giorni fa il Parlamento Olandese ha respinto una risoluzione che dichiarava l’aborto come «diritto umano», idea alla base di tanti progetti di enti transnazionali

 

Due mesi fa la Repubblica Domenicana ha riconfermato il divieto totale di aborto.

 

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Bioetica

Morte cerebrale, trapianti, predazione degli organi, eutanasia: dai criteri di Harvard alla nostra carta d’identità

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Renovatio 21 pubblica la relazione del nostro collaboratore Alfredo De Matteo alla Conferenza «Il Dramma dell’eutanasia» organizzata da Federvita Piemonte a Torino lo scorso 11 ottobre.   Il tema che mi è stato assegnato è molto vasto e pieno di implicazioni mediche, giuridiche, etiche e filosofiche ed è pertanto molto difficile condensarlo nel tempo previsto per un singolo intervento. Mi perdonerete se tratterò questioni complesse in maniera non esaustiva, ma spero comunque che la mia esposizione risulti chiara, soprattutto nelle sue conclusioni.   Prima di affrontare lo spinoso tema della morte cerebrale e dell’espianto di organi vitali credo sia opportuno definire il concetto di «morte». Tradizionalmente, essa viene identificata con la cessazione di tutte le funzioni vitali di un organismo, che sono essenzialmente riconducibili a tre: sistema nervoso, respiratorio e circolatorio, ossia la cosiddetta tripode vitale. Tuttavia, la morte non è un evento che può essere osservato nel momento in cui si verifica ma solamente a posteriori, ossia dopo che essa è già avvenuta.   In altre parole, per avere la certezza dell’avvenuto decesso di un essere umano è necessario che vengano riscontrati sul cadavere i segni inequivocabili della morte, ossia l’inizio del processo di decomposizione del corpo: l’algor mortis (il raffreddamento del corpo), il rigor mortis (la rigidità cadaverica) e il livor mortis (il ristagno e la coagulazione del sangue). Tali segni rappresentano il punto di non ritorno alla vita.   La morte infatti è un evento complesso poiché l’uomo, in virtù dell’unione sostanziale con un’anima spirituale, non è un semplice agglomerato di organi, tessuti e funzioni né il suo principio vitale può essere ridotto alla funzionalità dei suoi organi o di un singolo organo. È possibile ritenere certamente viva una persona cosciente e certamente morto un corpo putrefatto o allo stato iniziale della putrefazione. La morte, intesa come il distacco dell’anima dal corpo, è collocabile nello spazio temporale compreso tra questi due stati. Un terzo stato dell’essere tra la vita e la morte, semplicemente, non esiste.

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La civiltà occidentale nel corso dei secoli ha uniformato il suo diritto e la sua morale alla tradizione filosofica secondo cui l’essere umano è composto, appunto, di anima e corpo e ha nell’anima razionale il principio vitale che lo caratterizza. È bene ribadire che questo principio vitale di natura spirituale, pur essendo nel corpo, non si trova nel cuore, nel cervello né in qualsiasi altro organo, tessuto o funzione.   Ciò che sostanzia l’uomo non è dunque l’intelletto, né l’autocoscienza e neppure l’interazione sociale, come ci vogliono far credere, bensì l’anima razionale che contiene in potenza l’uso di tutte queste funzioni. La vita umana inizia con l’infusione dell’anima nel corpo e termina con la separazione da esso, nel momento in cui l’organismo si dissolve nei suoi elementi.   I casi di morte apparente, ossia di ritorno alla vita dopo diverse ore in cui sono scomparse tutte le manifestazioni vitali, stanno a dimostrare che fra il momento della morte accertata e quella reale esiste sempre e comunque un periodo più o meno esteso di vita latente.   A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’avvento delle moderne tecniche di rianimazione ha permesso di salvare la vita di un gran numero di persone destinate a morte certa. In particolare, la ventilazione artificiale ha consentito di supportare la respirazione di tutti quei pazienti che sono parzialmente o totalmente incapaci di respirare spontaneamente.   Tuttavia, la diffusione in ambito ospedaliero di queste nuove procedure rianimatorie ha sollevato la questione di cosa fare con tutte quelle persone che sopravvivono grazie ad esse ma che non mostrano, almeno apparentemente, alcun segno di attività cerebrale e la cui prognosi risulta infausta. Parallelamente, proprio in quegli anni, alcuni chirurghi cominciarono a sperimentare la tecnica dei trapianti di organi.   Figura di spicco in questo ambito fu l’ambizioso chirurgo sudafricano Christiaan Barnard, il quale nel 1959 riuscì a portare a termine il primo trapianto di rene in Sudafrica dopo che esso era già stato effettuato con successo negli Stati Uniti nel 1953. Barnard sperimentò per anni, in gran segreto, il trapianto di cuore sugli animali, cercando di affinare la tecnica.   Il primo trapianto di cuore al mondo venne effettuato il 3 dicembre 1967: il cuore di Denise Darvall, una giovane donna caduta in coma considerato irreversibile, venne impiantato nel corpo di un atleta lituano affetto da una grave patologia cardiaca e prese a funzionare regolarmente. Il ricevente l’organo morì dopo soli 18 giorni a causa di una grave polmonite, ma la notizia fece comunque il giro del mondo e Barnard divenne una stella di fama internazionale. A questo punto però, c’era da risolvere il problema legale legato ai trapianti di organi vitali. Infatti, i chirurghi e le équipe mediche che effettuavano tali interventi correvano il rischio di venire incriminati per omicidio in quanto gli organi venivano prelevati a cuore battente e dunque da soggetti ancora in vita.   A tale scopo la comunità scientifica internazionale convocò, nel 1968, una commissione ad hoc, la famosa commissione di Harvard, composta da un certo numero di professionisti di diversa estrazione (tra costoro figurava anche uno storico), che venne incaricata di redigere un nuovo criterio di morte, basato sulla cessazione di tutte le funzioni encefaliche. La commissione stabilì, nell’agosto di quell’anno, che potevano essere dichiarate decedute non solamente le persone che non presentavano più alcun segno vitale ma anche quelle le cui sole funzioni cerebrali risultavano irrimediabilmente e irreversibilmente compromesse.   In pratica, l’escamotage utilizzato della comunità scientifica internazionale fu quello di dichiarare morte le persone ancora vive.   La commissione non presentò, di fatto, alcun argomento decisivo a supporto della nuova definizione di morte (del resto come avrebbe potuto?). Furono gli stessi membri del comitato di Harvard ad ammetterlo attraverso le seguenti dichiarazioni: «il peso è più grande per i pazienti che soffrono della perdita permanente dell’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali, e per quanti hanno bisogno di posti letto già occupati da altri pazienti comatosi (…) Criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto».   Dunque, l’introduzione del criterio della morte cerebrale o encefalica non fu il risultato di una riflessione teorica e filosofica sulla morte, ma piuttosto della volontà di risolvere due esigenze di natura pratica: contenere il numero dei pazienti bisognosi di cure adeguate a lungo termine e legittimare l’espianto degli organi vitali.    Passiamo ora ad analizzare le principali criticità di un costrutto artificiale che, è bene ricordare, non è mai stato validato da un punto di vista scientifico ma che anzi si pone sfacciatamente contro l’evidenza dei fatti.

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Innanzitutto, esso si basa sulla tesi secondo cui il principio vitale dell’uomo risiede nel cervello. Sulla base di tale assunto, questo meraviglioso e complesso organo rappresenterebbe, per così dire, la centralina che regola il funzionamento dell’organismo umano. Un cervello le cui funzioni sono totalmente e irrimediabilmente compromesse decreterebbe la fine dell’essere umano come un insieme integrato. In quest’ottica, i segni vitali ancora presenti nell’individuo dichiarato cerebralmente morto costituirebbero dei meri riflessi e/o funzioni mantenute in maniera artificiale mediante il supporto farmacologico o l’ausilio di macchinari.    Tuttavia, non si capisce come possa un organismo completamente disgregato, un ammasso di organi senza più alcun coordinamento centrale, mantenere inalterate praticamente tutte le funzioni di base. Ad esempio, sia il sistema metabolico che quello immunitario dei pazienti dichiarati cerebralmente morti risultano perfettamente funzionanti. Il presunto cadavere conserva responsività agli stimoli e può anche mostrare dei movimenti spontanei come il cosiddetto fenomeno di Lazzaro, durante il quale egli compie dei movimenti anche ben coordinati che lasciano supporre il coinvolgimento del cervelletto e delle aree superiori dell’encefalo. Inoltre, vengono spesso rilevate nel soggetto in morte cerebrale delle risposte che di norma sono mediate dal tronco encefalico, come l’aumento della frequenza del battito cardiaco e della pressione sanguigna sia all’inizio che nel corso dell’intervento per la rimozione degli organi.   La presenza di movimenti spontanei nella persona che viene sottoposta all’espianto è tale che durante l’operazione è sempre necessario paralizzarla e in alcuni casi si provvede a sedarla. A ben vedere, il soggetto è anche in grado di respirare visto che ciò che ha smesso di funzionare, almeno temporaneamente, sono solamente i centri respiratori ma non la sua capacità di metabolizzare l’ossigeno.   Addirittura, le donne incinte possono portare a termine la gravidanza. Recentemente, si è verificato il caso di una donna di Atlanta incinta di due mesi, dichiarata cerebralmente morta a seguito di un malore, e «costretta» a vivere (può continuare a vivere una persona dichiarata morta?) per quattro mesi perché la legge vigente in Georgia vieta l’aborto in presenza di battito cardiaco del feto. La gravidanza non è uno stato che richiede necessariamente un alto livello di integrazione corporea? E ancora: è logico anche solo ipotizzare che un morto sia in grado di custodire e generare la vita?   Ma c’è un’ulteriore difficoltà nel considerare il cervello come sede dell’essere: visto che esso è l’organo che nello sviluppo fetale si forma più tardi (intorno al terzo mese della gravidanza), come è possibile ritenere imprescindibile alla vita il funzionamento dell’encefalo? In sostanza, nella nuova definizione di morte commissionata agli «esperti» di Harvard, al cervello viene arbitrariamente attribuito il ruolo che compete invece all’anima razionale, ossia dirigere e governare tutti gli organi e le funzioni che compongono l’organismo umano.    Con l’introduzione del rivoluzionario criterio della morte cerebrale, il cogito ergo sum di cartesiana memoria entra prepotentemente nel diritto e nella prassi medica, finendo per relegare l’essere umano nell’angusto ambito dell’autocoscienza. Di conseguenza, a prescindere dalla condizione clinica e dallo stato di coscienza in cui si viene a trovare un determinato soggetto, il suo diritto alla vita è subordinato alla «qualità» della sua esistenza, che si fonda essenzialmente sulle sue capacità intellettive. I casi relativamente recenti di Vincent Lambert in Francia, di Charlie Gard e Alfie Evans in Inghilterra, di Eluana Englaro in Italia, stanno a dimostrare che una volta ridefinito il criterio di accertamento della morte si è passati consequenzialmente a ridefinire il significato stesso di essere umano, attraverso l’arbitraria distinzione tra vite degne e indegne di essere vissute.    Ma c’è un secondo grosso nodo da sciogliere nella nuova definizione di morte. Come si fa a stabilire con assoluta certezza che il cervello ha definitivamente smesso di funzionare? Allo stato attuale delle conoscenze, siamo in grado di accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tutte le funzioni cerebrali di un paziente clinicamente morto siano irreversibilmente compromesse?   Nel 2017 la rivista Current Biology ha reso noto un esperimento scientifico condotto dalla neuroscienziata Angela Sirigu, la quale è riuscita a recuperare la coscienza di un paziente in stato vegetativo attraverso una serie protratta nel tempo di elettrostimolazioni del nervo vago. La particolarità dell’esperimento effettuato dalla ricercatrice italiana è dovuta al fatto che il paziente non aveva più alcun contatto con il mondo esterno da ben 15 anni e la sua condizione era considerata irreversibile.   Anche secondo la neurologa Silvia Marino, la quale è riuscita attraverso la somministrazione di stimoli di vario genere a far passare un certo numero di pazienti dallo stato cosiddetto vegetativo a quello di minima coscienza, il termine irreversibile applicato ai disturbi della coscienza non è più utilizzabile. Dunque?

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In ogni caso, anche qualora si riuscisse a provare l’assenza di qualsiasi funzione cerebrale, è comunque privo di fondamento, come abbiamo visto, ritenere che la morte dell’encefalo sia un indicatore della morte di tutto l’organismo. Pensate, che anni fa si verificò il caso di un bambino entrato in stato di morte cerebrale all’età di quattro anni e morto, senza aver mai ripreso a respirare autonomamente, quando ne aveva ventitré!   Sulla base di questo e di altri casi simili è veramente difficile continuare a sostenere la tesi che un cervello funzionante sia la condizione necessaria per la vita di un essere umano. Tra l’altro, la stessa comunità scientifica è divisa su quali aree del cervello è necessario prendere in considerazione per decretare la morte cerebrale di un individuo.   Nel celebre documento di Harvard, la morte viene definita come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (morte cerebrale totale), ma dato che i criteri clinico-strumentali adoperati per accertarla non sono in grado di rilevare effettivamente la cessazione irreversibile di tutte le funzioni encefaliche, un neurologo inglese arrivò alla conclusione che fosse sufficiente accertare la distruzione del solo tronco encefalico (tesi anch’essa priva di fondamento scientifico).   Il risultato è che in alcuni paesi, tra cui l’Italia, è obbligatorio effettuare l’EEG, un esame diagnostico che misura e registra l’attività elettrica cerebrale, mentre in altri, come l’Inghilterra, esso non è ritenuto necessario. In effetti, oltre al fatto che un tracciato elettroencefalografico può essere normale anche se piatto (ad esempio, adulti ansiosi o neonati possono presentare un tracciato piatto non patologico), le modalità di registrazione elettroencefalografica non garantiscono risultati certi, dal momento che essi possono essere influenzati da diversi fattori, tra cui l’effetto tampone provocato da importanti addensamenti di sangue all’interno del cranio.   Non solo, il limite dei 2 microvolts di attività elettrica cerebrale sotto cui non ci sarebbe la vita costituisce una soglia convenzionale valida solo ai fini legali, visto che essa non corrisponde ad un ipotetico zero strumentale e visto che i risultati dell’esame elettroencefalografico dipendono anche dalle cangianti tarature degli apparecchi e dall’impossibilità tecnica di amplificare segnali elettrici più bassi. 

Un capitolo a parte è rappresentato dalle procedure atte a stabilire la morte cerebrale. Innanzitutto, è possibile constatare come la morte da evento naturale, oggettivo ed osservabile sia stata di fatto trasformata in un evento artificiale, niente affatto oggettivo né tantomeno osservabile, ma riscontrabile unicamente attraverso la tecnica medica.   In altri termini, la morte viene tolta allo sguardo dell’uomo e confinata nei reparti di rianimazione degli ospedali. Ciascuno di noi, in un modo o nell’altro, ha fatto l’esperienza della morte e ciascuno di noi è capace di riconoscerla, indipendentemente dal livello di istruzione o dalle conoscenze nel campo della medicina.   Un corpo freddo, bianco e rigido è certamente quello di un cadavere, mentre un corpo caldo, colorito e con un cuore che pulsa è certamente quello di una persona viva. Ebbene, con l’introduzione del nuovo criterio l’accertamento della morte diventa una questione riservata esclusivamente agli addetti ai lavori.   Anzi, a ben vedere nemmeno i medici sono in grado di stabilire se un uomo è deceduto oppure no (ai sanitari spetta solo il compito di applicare pedissequamente i protocolli); a certificarlo sono unicamente dei test clinici effettuati con specifici macchinari.   Ma quali sono questi test? In cosa consistono?   Innanzitutto, la prima cosa da rilevare è che essi non sono gli stessi in tutti i paesi del mondo oppure vengono applicati in maniera differente. Ad esempio, il tempo di osservazione della morte, il cosiddetto silenzio cerebrale, varia da paese a paese e va da un minimo di due ore di osservazione ad un massimo di sei ore.   Abbiamo già visto come in alcuni paesi l’elettroencefalogramma è obbligatorio ai fini della dichiarazione di morte mentre in altri non lo è. Per quanto riguarda la cosiddetta morte cardiaca (di cui parleremo meglio più avanti) il tempo di arresto necessario affinché si possa decretare la morte del cervello per mancanza di ossigeno è di 20 minuti in Italia, mentre è di soli 5 minuti in Spagna e in altri paesi.   È dunque possibile affermare senza timore di smentita che, in linea teorica, lo stesso paziente può essere dichiarato morto in Inghilterra o in Spagna e vivo in Italia (alla faccia dell’oggettività della morte cerebrale).

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Vale la pena soffermarsi su una procedura in particolare: il famigerato test di apnea, l’ultimo esame diagnostico che viene effettuato al termine dell’esplorazione dei riflessi del tronco encefalico, quando questi risultano assenti.   L’obiettivo del test è dimostrare la perdita della funzione del centro del respiro situato a livello bulbare attraverso l’accumulo di CO₂. In pratica, il paziente viene disconnesso dal respiratore e, una volta raggiunto un certo valore soglia di CO₂ nel sangue, se non si attiva la respirazione spontanea viene dichiarata la morte encefalica.   Per la legge italiana questo «esame» deve essere effettuato per ben due volte, all’inizio e al termine del periodo di osservazione.   Le linee guida per l’esecuzione del test di apnea raccomandano di sostituirlo con il test di flusso cerebrale qualora, nonostante le opportune precauzioni, la procedura causi la comparsa di gravi complicanze tali da compromettere seriamente le funzioni biologiche del paziente (quindi il fatto che sia potenzialmente letale è scritto nero su bianco)    Pertanto, l’attivazione di una simile procedura in un paziente con estremo bisogno di cure non è esattamente un toccasana per la sua salute. Spesso, infatti, il test di apnea non fa che peggiorare il quadro clinico del paziente, riducendo se non addirittura azzerando le sue possibilità di recupero.   È un po’ come se una persona caduta in una piscina venisse salvata dalla morte per annegamento attraverso le tecniche di rianimazione cardiopolmonare, per poi essere gettata di nuovo nella piscina al fine di verificare la sua capacità di riemergere dall’acqua per riuscire a respirare…   Non rappresenta, domandiamo, una chiara violazione dei diritti del malato sottoporre il comatoso a dei test potenzialmente letali quando egli, fino a prova contraria, è ancora in vita?   Non solo: quando il paziente viene sottoposto ai test di accertamento deve essere libero dai farmaci che possono influenzare lo stato di coscienza o deprimere la respirazione. In altri termini, al paziente vengono sospese le cure.   C’è da sottolineare poi un fatto: di norma, le procedure di accertamento della morte encefalica vengono attivate molto in fretta, ossia poco tempo dopo il ricovero in ospedale; parliamo di pochi giorni o addirittura poche ore.   Allora ci si domanda: perché tutta questa fretta nell’avviare i protocolli e attivare una serie di procedure che non sono a rischio zero per i pazienti, ma che possono causare loro ulteriori danni?   C’è il fondato sospetto che questa immotivata celerità nel dichiarare la morte cerebrale risponda all’esigenza di evitare che la vittima possa dare segni di ripresa – ovvero che esca dal coma – rendendo vani gli sforzi delle strutture sanitarie nel reperire organi freschi da trapianto.   È noto come i centri autorizzati ad effettuare i trapianti sparsi nel territorio abbiano dei budget di produzione da rispettare e come il raggiungimento di questi obiettivi sia necessario all’acquisizione di rilevanti finanziamenti pubblici e privati. Del resto, i direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere sono dei veri e propri manager d’azienda.

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A questo punto è quanto mai opportuno porsi la seguente domanda: per la legge, siamo tutti potenziali donatori di organi?   Dunque, la normativa italiana ha stabilito il principio del consenso o dissenso esplicito, sulla base di cui ad ogni persona maggiorenne viene data la possibilità di dichiarare validamente la propria volontà in merito alla cosiddetta donazione degli organi.   Nello specifico, la legge 91/99 agli articoli 4 e 5 ha istituito il principio del silenzio-assenso, in base a cui la mancata dichiarazione di volontà viene considerata come consenso alla donazione. Tuttavia, tale enunciato non può essere applicato, in quanto – come previsto dalla legge stessa – non è stata ancora costituita un’anagrafe informatizzata che consenta la notifica ad ogni cittadino, da parte di un Pubblico Ufficiale, di un modulo per la dichiarazione di volontà.   Per cui, allo stato attuale, le principali modalità con cui è possibile esprimersi in un senso o nell’altro sono le seguenti:  
  • presso gli uffici comunali, firmando un apposito modulo predisposto al momento del rilascio o del rinnovo della carta d’identità;
  • presso gli sportelli delle Aziende sanitarie locali;
  • attraverso una dichiarazione in carta libera completa di tutti i dati personali, datata e firmata.
  Le dichiarazioni di volontà sono considerate valide ai sensi di legge e sono registrate all’interno del Sistema Informativo Trapianti.   Nel caso in cui si scelga di non esprimersi secondo le modalità previste, il consenso viene chiesto ai parenti più stretti o agli aventi diritto. Pertanto, l’espianto può essere effettuato solo in presenza di un esplicito consenso.   È dunque sufficiente opporsi al trapianto per sfuggire alla trappola della morte cerebrale? Purtroppo no. Anche in caso di mancato assenso alla donazione, la legge impone il distacco dai supporti vitali del soggetto dichiarato cerebralmente morto, il quale viene così lasciato morire per mancanza di cure (del resto se il paziente è dichiarato deceduto deve essere necessariamente trattato alla stregua di un cadavere, quantomeno per coerenza).   Comunque, malgrado la massiccia propaganda massmediatica messa in atto dalle istituzioni – che tende a far leva sui sentimenti e sull’emotività per tentare di convincere più cittadini possibili a diventare donatori di organi (la cosiddetta «cultura del dono») – la percentuale di opposizioni ai trapianti si attesta, almeno nel nostro paese, intorno al 40% (una percentuale decisamente alta).   È anche per tale motivo che la macchina delle predazioni è sempre alla ricerca di nuove tecniche per reperire organi. Una di queste è la cosiddetta donazione a cuore fermo (donation after cardiac death o DCD), che mette in evidenza lo stretto legame tra la predazione degli organi e l’eutanasia.   Schematicamente, esistono due tipi di donatori a cuore fermo: controllati e non controllati.   La DCD non controllata concerne tutti i pazienti nei quali la morte per arresto cardiaco avviene in modo improvviso, solitamente fuori dall’ospedale o in pronto soccorso. In tali situazioni non è possibile controllare l’evento acuto che determina la morte e non è possibile studiare clinicamente il paziente come potenziale donatore, per cui a differenza degli altri organi il cuore non può essere prelevato.

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Diverso è il caso della DCD controllata, in cui l’arresto cardiaco è atteso, ossia previsto. Essa fa seguito alla sospensione dei trattamenti intensivi a motivo della loro supposta mancanza di proporzionalità. In altre parole, il malato viene staccato dai supporti vitali, in particolare dal supporto ventilatorio, in una circostanza prevista e medicalmente controllata.   In questo caso il cuore è sano e può essere prelevato dopo i venti minuti di assenza di battito e di circolo, come prescritto dalla legge italiana. Il muscolo cardiaco, già prima del prelievo e del trapianto, viene accuratamente valutato e spesso collegato ad un sistema di circolazione artificiale che permette di verificarne la funzionalità in vista del trapianto.   In pratica, si tratta di pazienti terminali che non soddisfano i criteri della morte encefalica e che hanno in qualche modo manifestato la loro volontà di sospendere i sostegni vitali, oppure che siano stati i familiari (si discute tanto in Italia di questi tempi di rischio eutanasico ma come possiamo constatare l’eliminazione programmata del malato terminale già viene fatta e sotto l’egida della legge).   In un articolo pubblicato sul New York Times il 20 luglio scorso sono stati riportati diversi casi di pazienti la cui morte è stata programmata in anticipo affinché potessero diventare donatori di organi.   C’è da considerare che il periodo di mancanza di battito cardiaco considerato necessario affinché l’ipossia danneggi irreversibilmente il tessuto cerebrale varia, in America, dai due ai cinque minuti, quando l’esperienza clinica dimostra che il cuore può riprendere a battere anche diverso tempo dopo.   In un caso descritto dal New York Times, una donna sottoposta alla DCD controllata ha cominciato ad ansimare in cerca d’aria mentre i chirurghi le segavano lo sterno e il suo cuore ha ripreso a battere. A quel punto l’operazione è stata annullata e dodici minuti dopo la sfortunata signora è stata dichiarata morta per la seconda volta.   Ora, è necessario comprendere che il problema non è solamente legato alla rigorosità delle procedure di accertamento o al fatto che ci sono casi come quelli descritti negli USA in cui le diagnosi di morte risultano, per così dire, «affrettate».   Il problema vero è la definizione stessa di morte cerebrale e la concezione filosofica dell’essere umano che c’è dietro.   E visto che non c’è, né ci potrà mai essere, un protocollo universalmente valido con cui si possa accertare ciò che semplicemente non esiste in natura, le scorciatoie procedurali per rendere più facile l’approvvigionamento degli organi sono inevitabili e tenderanno sempre più ad essere utilizzate in ambito ospedaliero.   A dimostrazione di quanto sia presente tale deriva, sempre il New York Times ha pubblicato un editoriale dal titolo: «Donor Organs Are Too Rare. We Need a New Definition of Death» («Gli organi donati sono troppo rari. Abbiamo bisogno di una nuova definizione di morte»), in cui alcuni cardiologi di fama mondiale sembrano lanciare un appello affinché la comunità scientifica elabori una nuova definizione di morte. Di seguito un breve estratto:   «Una persona può diventare donatrice di organi solo dopo essere stata dichiarata morta (…) La morte cerebrale è tuttavia rara (…) La soluzione, a nostro avviso, è ampliare la definizione di morte cerebrale per includere i pazienti in coma irreversibile sottoposti a supporto vitale».   «Le funzioni cerebrali più importanti per la vita sono la coscienza, la memoria, l’intenzione e il desiderio» – continuano i cardiologi intervistati – «Una volta che queste funzioni cerebrali superiori sono irreversibilmente perdute, non è forse corretto affermare che una persona (in contrapposizione a un corpo) ha cessato di esistere?»   È dunque evidente come la nuova definizione di morte sdoganata dai cosiddetti esperti di Harvard contenga al suo interno tutte le premesse per un suo superamento.   Infatti, privata del fine soprannaturale, l’esistenza umana perde il suo valore intrinseco e finisce per acquisire significato solamente in relazione a quanto essa può essere utile a qualcun altro.

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Non è dunque così improbabile che si arrivi a rendere obbligatoria la donazione degli organi. La cardiologa Maria Frigerio, ex direttrice del reparto di cardiologia dell’ospedale Niguarda di Milano, in un’intervista pubblicata lo scorso febbraio dal Corriere della Sera preconizza l’obbligatorietà dei trapianti.   Secondo la Frigerio, l’elevata percentuale di opposizioni ai trapianti limita pesantemente la possibilità di salvare delle vite ed è «per questo che la donazione potrebbe diventare un obbligo».   Per concludere, vorrei accennare ad un aspetto poco conosciuto che riguarda l’aspettativa e la qualità di vita dei trapiantati.   L’uso continuo e a vita dei farmaci immunosoppressori, necessari a sopprimere la risposta del sistema immunitario verso l’organo trapiantato, riduce la capacità del sistema immunitario stesso di combattere le infezioni e di distruggere le cellule tumorali.   Sussiste dunque un rischio molto elevato di contrarre alcuni tipi di cancro, in particolare i tumori della pelle, alcuni dei quali potenzialmente letali.   Attraverso una ricerca scientifica è stato scoperto inoltre che i trapiantati hanno un rischio particolarmente elevato di sviluppare melanomi che hanno già raggiunto uno stadio avanzato al momento della diagnosi.   Sempre a causa dei farmaci immunosoppressori, le persone che hanno ricevuto un trapianto di fegato, cuore o polmone hanno il 64% in più di probabilità, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare patologie cardiovascolari.   Un altro aspetto che rende più probabile l’incidenza di tali malattie è l’obesità: ben il 50% dei trapiantati subisce un aumento di peso che oscilla tra il 10% e il 35% del loro peso corporeo.   Questo breve e niente affatto esaustivo elenco di problemi a cui vanno incontro i trapiantati ci fa comprendere meglio come la «medicina» dei trapianti, pur presentandosi come una vittoria della scienza, in realtà trasformi il malato in un paziente cronicizzato, dipendente a vita dai farmaci e costretto a sottoporsi a frequenti screening clinici, quindi inserito in una filiera che alimenta enormi interessi economici.   Questo non significa negare la sofferenza di chi è malato e ripone le sue speranze nel ricevere un organo, ma ci invita a guardare più in profondità: quando la vita viene piegata alle logiche di mercato e ridotta a un mezzo, essa perde il suo valore autentico. Ed è proprio qui che si gioca la posta più alta: riconoscere e difendere la dignità dell’uomo, che non è mai un insieme di funzioni biologiche, ma una persona unica, creata a immagine e somiglianza di Dio.   Ho concluso, grazie a tutti voi per l’attenzione.   Alfredo De Matteo

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Ambiente

Studi sui metodi per testare le sostanze chimiche della pillola abortiva nelle riserve idriche

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I funzionari governativi USA stanno valutando se sia possibile sviluppare metodi per rilevare le sostanze chimiche contenute nella pillola abortiva nelle riserve idriche degli Stati Uniti, in seguito all’iniziativa del gruppo Students for Life. Lo riporta LifeSite.

 

Quest’estate, i funzionari dell’Agenzia per la Protezione Ambientale americana (EPA) hanno incaricato gli scienziati di determinare se fosse possibile sviluppare metodi per rilevare tracce di pillole abortive nelle acque reflue. Sebbene al momento non esistano metodi approvati dall’EPA, è possibile svilupparne di nuovi, hanno recentemente dichiarato al New York Times due fonti anonime.

 

La divulgazione fa seguito alla richiesta di 25 membri repubblicani del Congresso USA che hanno chiesto all’EPA di indagare sulla questione.

 

«Esistono metodi approvati dall’EPA per rilevare il mifepristone e i suoi metaboliti attivi nelle riserve idriche?», chiedevano i deputati in una lettera del 18 giugno. «In caso contrario, quali risorse sono necessarie per sviluppare questi metodi di analisi?»

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I legislatori hanno osservato che il mifepristone è un «potente bloccante del progesterone» che altera l’equilibrio ormonale e potrebbe «potenzialmente interferire con la fertilità di una persona, indipendentemente dal sesso».

 

Dopo l’annullamento della sentenza Roe v. Wade, Students for Life aveva rilanciato una campagna per indagare sulle tracce di pillole abortive e sui resti fetali nelle acque reflue. Il gruppo ha affermato che il mifepristone e i resti fetali potrebbero potenzialmente danneggiare gli esseri umani, gli animali e l’ambiente.

 

Nel novembre 2022, i dipendenti di Students for Life si sono lamentati del fatto che le agenzie governative non controllassero le acque reflue per individuare eventuali sostanze chimiche contenute nelle pillole abortive e hanno deciso di assumere i propri «studenti investigatori» per analizzare l’acqua.

 

La campagna era fallita sotto l’amministrazione Biden. Nella primavera del 2024, undici membri del Congresso, tra cui il senatore Marco Rubio della Florida, attuale Segretario di Stato, scrissero all’EPA chiedendo in che modo il crescente uso di pillole abortive potesse influire sull’approvvigionamento idrico.

 

Secondo due funzionari, l’EPA ha scoperto di non aver condotto alcuna ricerca precedente sull’argomento, ma non ha avviato alcuna nuova indagine correlata.

 

Kristan Hawkins, presidente di Students for Life, ha annunciato venerdì: «tre presidenti democratici hanno promosso in modo sconsiderato l’uso della pillola abortiva chimica. Ora l’EPA sta finalmente indagando sull’inquinamento causato dalla pillola abortiva».

 

«Ogni anno oltre 50 tonnellate di sangue e tessuti contaminati chimicamente finiscono nei nostri corsi d’acqua», ha continuato su X. «Spetta al presidente Trump e al suo team ripulire questo disastro».

 

A giugno un rapporto pubblicato da Liberty Counsel Action indicava che più di 40 tonnellate di resti di feti abortiti e sottoprodotti della pillola abortiva sono infiltrati nelle riserve idriche americane.

 

«Come altri farmaci noti per causare effetti avversi sul nostro ecosistema, il mifepristone forma metaboliti attivi», spiega il rapporto di 86 pagine. «Questi metaboliti possono mantenere gli effetti terapeutici del mifepristone anche dopo essere stati escreti dagli esseri umani e contaminati dagli impianti di trattamento delle acque reflue (WWTP), la maggior parte dei quali non è progettata per rimuoverli».

 

Non si tratta della prima volta che vengono lanciati gli allarmi sull’inquinamento dei fiumi da parte della pillola abortiva RU486, detta anche «pesticida umano».

Come riportato da Renovatio 21, le acque di tutto il mondo sono inquinate da fortemente dalla pillola anticoncenzionale, un potente steroide usato dalle donne per rendersi sterili, che viene escreto con l’orina con effetto devastante sui fiumi e sulla fauna ittica. In particolare, vi è l’idea che la pillola starebbe facendo diventare i pesci transessuali.

 

Danni non dissimili sono stati rilevati per gli psicofarmaci, con studi sui pesci di fiume resi «codardi e nervosi».

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Nonostante i ripetuti allarmi sul danno ambientale dalla pillola, le amministrazioni di tutto il mondo – votate, in teoria, all’ecologia e alla Dea Gaia – continuano con programmi devastatori, come quello approvato lo scorso anno a Nuova York di distribuire ai topi della metropoli sostanze anticoncezionali. A ben guardare, non si trova un solo ambientalista a parlare di questa sconvolgente forma di inquinamento, ben più tremenda di quello delle auto a combustibile fossile.

 

Ad ogni modo, come Renovatio 21 ripeterà sempre, l’inquinamento più spiritualmente e materialmente distruttore è quello dei feti che con l’aborto chimico vengono espulsi nel water e spediti via sciacquone direttamente nelle fogne, dove verranno divorati da topi, pesci, insetti, anfibi e altri animali del sottosuolo.

 

Su questo non solo non si trovano ambientalisti a protestare: mancano, completamente, anche i cattolici.

 

Come riportato da Renovatio 21, l’OMS poche settimane fa ha aggiunto la pillola figlicida alla lista dei «medicinali essenziali». Il segretario della Salute USA Robert Kennedy jr. aveva promesso una «revisione completa» del farmaco di morte (gli sarebbe stato chiesto dallo stesso Trump) ma negli scorsi giorni esso è stato approvato dall’ente regolatore FDA.

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