Scuola
La scuola italiana, sistema degenerato che si autoalimenta

Il ministero dell’Istruzione e del Merito ha da ultimo sfoderato una norma – ora sub judice – che per le sue implicazioni, pur riguardando una fattispecie circoscritta, dice molto su quale sia la rotta segnata per la scuola italiana in generale – «rotta» in tutti i sensi, verrebbe da aggiungere.
Col decreto ministeriale 32/2025, in applicazione del decreto legge 71/2024 convertito nella legge 106/2024, il governo ha introdotto la possibilità per le famiglie di chiedere la conferma, per il successivo anno scolastico, del docente di sostegno (specializzato, o anche no) già assegnato in supplenza al proprio figlio nell’anno precedente.
Cioè: se a te genitore è piaciuta la persona che in questo giro di giostra ti è toccata in sorte per seguire tuo figlio, in presenza di certe condizioni puoi far sì che gli sia rinnovato l’incarico, sottraendolo al meccanismo delle graduatorie; il suo destino lavorativo (e non solo) dipende in sostanza da te.
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La ratio della norma viene individuata dal legislatore stesso nella esigenza di garantire la continuità educativa e didattica per gli studenti con disabilità al fine di favorire la serenità della relazione educativa tra costoro e i docenti, e di promuovere l’inclusione scolastica.
Il provvedimento è stato impugnato innanzi al Tribunale amministrativo del Lazio da alcuni sindacati che ne contestano la legittimità ritenendolo discriminatorio e lesivo del principio di equità nell’accesso alle supplenze, e invocando anzitutto la violazione dei principi di imparzialità e di trasparenza dell’azione amministrativa.
Sul fronte opposto, a sostenere la linea ministeriale, sono schierate le associazioni delle famiglie insieme al garante per la disabilità, a tutela «del benessere e della stabilità» considerati essenziali per il successo formativo degli studenti con bisogni educativi speciali.
Le riviste di settore costruiscono la notizia titolando di «frattura tra scuola e famiglie», ma mica vero: magari si incrinasse qualcosa
In verità regna sovrana la solita, saldissima corrispondenza di amorosi sensi tra tutti gli attori istituzionali, solo condita stavolta dallo schiamazzo estemporaneo di qualche sigla di categoria mobilitata in difesa di interessi corporativi perché, evidentemente, i padroni concedono: ricordiamo bene, infatti, con quale zelo si sia manifestato l’attivismo sindacale nell’epoca in cui il lavoro e lo stipendio erano subordinati al ricatto farmaceutico, e chi non cedeva il proprio corpo alla sperimentazione coatta veniva istituzionalmente bullizzato, denigrato, emarginato, discriminato, condannato alla fame.
Sindacati zittissimi. Anzi, peggio: garruli sostenitori della persecuzione legalizzata.
Visti i precedenti, c’è da aspettarsi che pure la controversia pendente si giocherà tutta nel campo della scuola «buona»: quella del mercato, degli stakeholder e delle alleanze educative, del benessere e dell’inclusione selettiva. La scuola buonissima, che non ammette dissenso che non sia di cartapesta, controllato e organico al sistema.
Quella che la dialettica vera la rifiuta e la esclude. Quella che fa la guerra a chi non si conforma all’andazzo distruttivo che alla fine sta travolgendo tutti: insegnanti, scolari, famiglie, società.
Senza soffermarsi sui dettagli della misura in oggetto – la quale guarda caso ha le sue radici più profonde proprio nella famigerata legge 107, cosiddetta «la buona scuola»: madre, se non di tutte, della più parte delle aberrazioni scolastiche gabellate come innovazioni – vale allora la pena di discuterne il senso più lato, che trascende le diatribe interne tra singoli, fazioni e consorterie, per investire le strutture portanti di un carrozzone alla deriva.
Ché, infatti, non sono in gioco soltanto la trasparenza e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Senz’altro c’è giuridicamente qualcosa che non va se dei genitori, investiti del potere di trattenere in una determinata sede un lavoratore che non ne avrebbe diritto in base alle graduatorie ufficiali, diventano di fatto arbitri delle nomine annuali dei docenti, così interferendo con le complesse dinamiche dei conferimenti delle cattedre e dei trasferimenti.
Ma questa anomalia non spunta dal nulla come un fungo: nasce e trova terreno fertile nel ventre di un sistema degenerato che si autoalimenta, prolifera di organismi patogeni e genera mostri per partenogenesi. La ratio legis che, come si è visto, fa appello alla continuità educativa e didattica, alla serenità della relazione educativa, all’inclusione scolastica – fornisce più di qualche indizio alla comprensione del fenomeno.
Infatti, se certamente la continuità rappresenta un obiettivo da perseguire – per tutti gli studenti, non solo per quelli disabili – la scuola pubblica dovrebbe favorirla attraverso modalità congrue al ruolo e alla fisionomia dell’istituzione, e non ricorrere a squallidi stratagemmi che, mentre accarezzano le corde della emotività più irrazionale, puntano a procacciarsi supporter politici a buon mercato.
Le famiglie dal canto loro, rintronate da anni e anni di pubblicità progresso sulla scuola del benessere, del successo formativo, di alleanze e di patti, dell’accoglienza, di cammini e relazioni, di programmi personalizzati, di comunità educanti, di sinergie e percorsi condivisi, e di partecipazione democratica, tendono a considerare non solo logica ma persino doverosa la commistione tra interesse pubblico e favore privato, specie se il tutto è sublimato dal sacro crisma dell’inclusione.
L’inclusione appartiene ormai alla metafisica della scuola, e sta lì, nell’iperuranio, a colorare ogni pezzo di questa giostra impazzita con una patina autoprodotta di alto valore morale e sociale.
Nella scuola del mercato, dove il cliente ha sempre ragione, va da sé che sia lecito pretendere, oltre al bel voto, alla promozione, all’interrogazione programmata, al piano personalizzato, anche l’insegnante on demand. Così il riformatore compulsivo prende due piccioni con una fava: fidelizza la clientela assicurandosene l’appoggio incondizionato e, al contempo, corre indisturbato sulla via della demolizione delle ultime vestigia dell’edificio che gli è affidato in custodia.
E a nessuno viene in mente come questo bizzarro sistema di reclutamento possa incoraggiare un commercio implicito o esplicito di favori, l’instaurarsi di rapporti più amicali che professionali, forme varie di captatio benevolentiae tali da mettere in secondo piano i doveri primari del docente nei confronti dell’allievo. Il docente, stipendiato dal ministero, diventa di fatto un precettore privato alle dipendenze della famiglia, perdendo fatalmente la propria autonomia e la propria libertà: perché prima dovrà prodigarsi per conquistare il gradimento di studente e genitori; poi, se confermato per loro gentile intercessione, dovrà pure sdebitarsi.
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Insomma, a prescindere dall’esito del contenzioso amministrativo – che si celebrerà girando dentro la ruota del metamondo della metascuola, con le sue categorie distorte e le sue melense formule magiche – il solo fatto che una norma come questa sia stata concepita e approvata, e sia pervicacemente sostenuta, costituisce un ulteriore segno, e grave, del degrado che travolge una scuola del cui senso e del cui decoro si è perduta ogni consapevolezza, tanto ai vertici quanto alla base.
Il trionfo del paradigma soggettivistico fondato su emozioni e sentimenti – dove il benessere si è definitivamente inghiottito il bene, comune e individuale – impedisce di ritrovare il vero perché di un’istituzione irrinunciabile, di recuperare il suo prestigio, di ricostruirne le mura. E intanto ruba con destrezza alle nuove generazioni, insieme al volto e alla voce di veri maestri, la luce della conoscenza e la forza della ragione. Ma è tutto bellissimo. Perché bastano le parole.
P.S. Nel frattempo il TAR del Lazio ha rigettato l’istanza cautelare dei ricorrenti per ritenuta mancanza dei presupposti (fumus boni juris e periculum in mora), in attesa dell’esito del giudizio di merito.
Elisabetta Frezza
Articolo previamente apparso su Ricognizioni
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Intelligenza Artificiale
Scuola e Intelligenza Artificiale, le linee guide verso «conseguenze personali e sociali sconosciute» per i nostri figli

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Uso consapevole e responsabile, come la droga
Al malcapitato che si appresta a leggerle, viene subito spiegato nelle prime righe che le linee guida vogliono fornire «un quadro di riferimento strutturato per l’adozione consapevole e responsabile dei sistemi di Intelligenza Artificiale», affinché «diventino uno strumento per rafforzare la competitività del sistema educativo italiano». Dopo di che parte il primo elenco (ne seguiranno vari altri) delle meraviglie che, nell’ambito della propria discrezionalità, ciascuna istituzione scolastica può realizzare con l’IA. Come potevano mancare la consapevolezza e la responsabilità? È questo infatti il mantra numero uno che è stato conficcato nelle teste soprattutto dei genitori/educatori/animatori dei tecnoutenti in erba, per far credere loro che sia giusto dotare il pargolo di protesi elettroniche di ultima generazione e immergerlo nel metaverso, che sia anzi una scelta necessaria per non condannarlo a crescere nel medioevo; con l’unica accortezza, per mostrarsi davvero coscienziosi, di fargli spiegare dall’esperto come affogare in modo consapevole. Un po’ come l’uso consapevole della droga, insomma: drògati, ma fallo con responsabilità. Non è un parallelo stravagante, perché il digitale ottunde i sensi e genera dipendenza, alla stregua della cocaina. Lo diceva a chiare lettere anche la relazione finale dell’indagine conoscitiva promossa dalla VII Commissione permanente del Senato nel 2019 (quindi ancora in era pre-Covid, prima del Piano Scuola 4.0 uscito dal laboratorio della pandemia) intitolata Sull’impatto del digitale negli studenti, con particolare riguardo ai processi di apprendimento e che si può trovare sul sito governativo. È insomma un narcotico dell’intelligenza umana, specie di quella che dovrebbe essere educata a crescere. Privarsi del dispositivo elettronico, infatti, è come subire l’amputazione di un arto, e del resto gli algoritmi sono programmati per adescare l’utente, catturarlo e tenerlo in ostaggio il più a lungo possibile. Poi quella relazione diceva molte altre cose, basandosi su un ricco compendio di letteratura ed esperienza consolidate. Tipo che l’uso-abuso del digitale sta decerebrando le nuove generazioni (proprio così): riduce la neuroplasticità del cervello e frena lo sviluppo delle aree cerebrali responsabili di singole funzioni; fa sì che si inibiscano sul nascere, o si atrofizzino, facoltà cognitive, abilità psicofisiche, attitudini relazionali. Inoltre genera isolamento, danni fisici di varia natura, psicosi assortite. Insomma, un disastro. Tutte conclusioni peraltro che, oltre a radicarsi in una bibliografia ormai sterminata, sono raggiungibili in autonomia da qualunque persona di buon senso che abbia a che fare con un cucciolo d’uomo contemporaneo e con i suoi coetanei. Bastava una mamma sensata qualunque, per arrivarci. In ogni caso, nel tempo in cui invocare la scienza equivale a calare la carta vincente, il fatto di disporre di evidenze pressoché unanimi che certificano il fallimento della didattica digitale e, ancor più, la sua fenomenale dannosità, e al contempo fregarsene completamente per dedicarsi a pompare le sue prestazioni miracolose, bisogna riconoscere che richiede una buona dose di sfrontatezza. Vien da pensare che ci sia sotto una faccenda grossa di bilanciamento di interessi, e che gli interessi dei colossi della tecnologia educativa debbano avere la meglio, per ordine superiore, su quelli della gente comune, dei giovani e della società. Tanto più che il ministero che oggi celebra i prodigi dell’IA con la pecetta (l’additivo cautelare) dell’«uso consapevole», è lo stesso che ieri – dicembre 2023 – mandava in giro sottoforma di circolare la relazione di cui sopra nelle scuole di ogni ordine e grado. Uno strano caso di strabismo istituzionale, passato del tutto sotto silenzio forse per l’abitudine diffusa, divenuta rassegnata assuefazione, di sentir predicare simultaneamente tutto e il contrario di tutto dagli stessi identici predicatori. Pare normale.Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Inevitabile tecnolatria
Ma la sensazione più irritante che, scorrendo quelle pagine, assale il lettore non tecnolatra deriva dal fatto che esse danno per presupposto che uno per forza lo sia. Cioè, non è nemmeno lontanamente contemplata l’eventualità che non tutti tutti – nella grande ammucchiata di genitori, studenti, docenti, dirigenti, personale di altro genere – non aspettassero altro che aderire felici all’utilizzo dell’IA nella propria scuola. «L’introduzione dell’IA nelle istituzioni scolastiche rappresenta una grande opportunità, che richiede un impegno costante da parte di tutti gli attori coinvolti». Lo hanno deciso loro. Qualcuno è stato consultato? No. Si è registrata approvazione unanime? No. Ma entra in gioco qui un altro tic verbale e mentale (il mantra numero due) appiccicato ad arte al fenomeno della IA: la sua pretesa inevitabilità. Il progresso non si può scansare, va cavalcato per una questione di destino invincibile, qualunque esso sia. Una species del suggestivo genus «there is no alternative» (TINA) coniato, al tempo, dalla lady d’oltremanica. Non ha quindi senso manifestare contrarietà verso qualcosa di ineluttabile: tanto vale buttarcisi a pesce, forti dell’illusione indotta di essere più scafati degli altri e di essere in grado di governare la macchina. Siccome però in questa fattispecie specifica abbiamo visto che si va incontro a rischi e danni certi, severi e documentati, con l’aggravante che ad esserne travolti sono i più indifesi, la dichiarazione di inevitabilità equivale praticamente ad ammettere che abbiamo creato un mostro che ora vive di vita propria e non si può più fermare, o – detta altrimenti – che abbiamo aperto il vaso di Pandora, abbiamo perso il coperchio, ma amen, lasciamolo aperto e restiamo a guardare l’effetto che fa. Niente male come tacita confessione di impotenza per l’uomo del terzo millennio che si crede onnipotente.Iscriviti al canale Telegram
Effetti avversi sconosciuti
Tra l’altro le linee guida in esame non fanno affatto mistero della quantità dei rischi derivanti dalla adozione della IA nelle scuole e nemmeno della loro gravità. Si parla ripetutamente di rischi, così, in scioltezza, quasi come un intercalare. In fondo perché drammatizzare, se siamo di fronte all’inevitabile? I sistemi di IA vengono divisi, ai fini della diversa disciplina applicabile, in due categorie: sistemi ad alto rischio, se presentano una serie di caratteristiche espressamente elencate; sistemi non ad alto rischio tutti gli altri (categoria residuale). È bellissimo però che a un certo punto (p. 30), nel mezzo di un lunghissimo discorso sul trattamento dei dati personali – dove con ammirevole disinvoltura si elenca una serie interminabile e complicatissima di passaggi burocratici prescritti, che è prevedibile porteranno in manicomio più di qualcuno – si dice anche che le istituzioni scolastiche, in qualità di titolari del trattamento, tra gli adempimenti e i sottoadempimenti cui sono obbligate, devono procedere alla «esecuzione di una valutazione di impatto (DPIA)» sulla protezione dei dati personali «volta a individuare i rischi connessi al trattamento di dati». E poco più avanti si spiega che «la DPIA risulta necessaria in considerazione della innovatività dello strumento tecnologico utilizzato nonché del volume potenzialmente elevato dei dati personali trattati» (i grassetti sono nel testo originale). Infatti, continua il testo «il ricorso a tale nuova tecnologia può comportare nuove forme di raccolta e di utilizzo dei dati, magari costituendo un rischio elevato per i diritti e la libertà delle persone. Infatti le conseguenze personali e sociali dell’utilizzo di una nuova tecnologia potrebbero essere sconosciute» (qui il grassetto è nostro). Conseguenze personali e sociali sconosciute. Cioè, un salto nel vuoto, messo nero su bianco nei documenti ufficiali. La popolazione scolastica, composta in buona parte di minorenni, è travolta (ancora una volta) in un mega esperimento di massa condotto (ancora una volta) con prodotti dei quali è nota a priori la dannosità, la quale comunque potrebbe esprimersi in forme ulteriori ancora non note. Sostanze sperimentali – farmaci, droghe e simildroghe – inoculate nel cuore pulsante della società che fu democratica, ad effetto sorpresa: senza nemmeno un bugiardino e, quindi, senza un vero consenso informato possibile.Aiuta Renovatio 21
La partecipazione democratica è una beffa
Nonostante queste premesse, il ministero dà per scontato che tutti insieme appassionatamente partecipino al grande gioco di società apparecchiato in tutte le scuole d’Italia dalle aziende Ed Tech e dall’indotto che ne discende: un’orgia digitale collettiva alla quale nessuno deve sottrarsi. A p. 21 si afferma, sempre in modo assertivo, che «il processo di transizione digitale richiede un coinvolgimento sinergico e sistemico del dirigente scolastico, del direttore dei servizi generali e amministrativi, del personale tecnico, ausiliario, amministrativo, dei docenti, degli studenti, tenendo conto del diverso grado di sviluppo connesso all’età, e delle rispettive rappresentanze di tali categorie di soggetti, delle famiglie, degli organi di indirizzo e di gestione degli aspetti organizzativi in ambito scolastico (ad esempio i Consigli di Istituto)». Insomma, si tratta di allestire un balletto brulicante di ballerini improvvisati che saltellano sulla pelle di incolpevoli scolari tutt’intorno a una grande mangiatoia per predatori privati, più e meno corpulenti ma tutti parimenti affamati. Per non farsi mancare nulla, si suggerisce anche il coinvolgimento di stakeholder «attraverso la costituzione o l’adesione a parternariati, a reti di scuole, oppure stabilendo accordi con startup, università, istituti di ricerca, con approccio di ricerca-azione (…)». Dulcis in fundo, al fine di «facilitare il coinvolgimento di tutti gli attori nel processo di cambiamento», il ministero veste pure i panni del coach motivazionale e consiglia di predisporre un «piano di comunicazione strutturato», perché si sa bene che «una strategia operativa efficace facilita il consenso e motiva i singoli a contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni» (p. 24) e incoraggia «il senso di appartenenza, il clima positivo». Naturalmente per implementare tutta questa giostra, occorre che i docenti acquisiscano particolari «competenze digitali, approccio critico e attenzione a etica e professionalità, da sviluppare attraverso specifici percorsi formativi» (altra miniera d’oro, per i tenutari dei corsi). E così essi potranno finalmente accedere a un repertorio infinito di funzioni sostitutive delle proprie normali mansioni – fa tutto lei, e lo fa meglio di te – e predisporsi felici, in modalità suicidaria, alla soppressione prossima ventura della propria figura professionale. Questa enfasi sulla partecipazione, di interni ed esterni, vuole evidentemente dare una mano di vernice di simil-democrazia sopra un gigantesco apparato industriale – la scuola è la più grande industria al mondo di estrazione dati (cit.) – che con i connotati propri di un’istituzione pubblica, specie se di natura educativa, non ci piglia neanche di striscio. Forse a questo punto si può capire l’irritazione del lettore non conforme, al quale le linee guida si rivolgono come a uno scimunito che passa di là, pronto a farsi trascinare nelle danze dall’animatore del villaggio vacanze.Sostieni Renovatio 21
Il Paese dei Balocchi e il mantra del pensiero critico
Quanto al regno incantato che si spalanca davanti agli studenti, la sua descrizione è lussureggiante. La campagna pubblicitaria del ministero sulle prodezze della IA punta a coprire e far dimenticare tutte le magagne sui pericoli e gli inconvenienti che, al confronto, sono bazzecole. Basti pensare che l’IA (pp. 27 e 28): rende il processo educativo più coinvolgente, crea percorsi formativi su misura in linea con le esigenze individuali, permette di ampliare e diversificare l’offerta formativa adattandola agli interessi di ciascuno, dà supporto nella creazione di materiali didattici personalizzati; favorisce l’approfondimento di argomenti specifici, stimola la curiosità e il desiderio di apprendere e una naturale voglia di scoprire, potenzia le competenze digitali, fa diventare co-creatori attivi di contenuti, nonché futuri leader che definiranno il rapporto di questa tecnologia con la società, supporta nelle attività didattiche orientate nella produzione di contenuti. Ancora: l’IA è un facilitatore della curiosità intellettuale, capace di alimentare la voglia di esplorare, aiuta nella scomposizione di problemi complessi e nella analisi di varie tipologie di informazioni; semplifica l’integrazione delle conoscenze, evidenziando punti di interconnessione tra diverse discipline; individua fonti di approfondimento pertinente, crea simulazioni interattive e ambienti virtuali. Promuove l’autonomia: chatbot o piattaforme di apprendimento personalizzate permettono di ricevere assistenza senza essere vincolati dagli orari scolastici tradizionali, facilitando la gestione autonoma del tempo e delle risorse, approccio che sviluppa capacità di autogestione e competenze trasversali come il pensiero critico e la capacità di problem solving. Aiuta a rimanere coinvolti e motivati rendendo il processo di apprendimento continuo e interattivo e incoraggiando a identificare i propri punti di forza e le aree di miglioramento. Un panegirico che pretende dal lettore un atto di fede, mentre tocca vette spudorate di impostura. Contiene passaggi esemplari da sfruttare nelle lezioni di italiano (ci sono ancora, le lezioni? e l’italiano?) per spiegare il significato dell’ossimoro: l’Intelligenza Artificiale che promuove l’autonomia, facilita la gestione autonoma del tempo e delle risorse, sviluppa capacità di autogestione, il pensiero critico e la capacità di problem solving. Cioè: a delegare alla macchina pensieri, parole e opere, a esternalizzare le funzioni fondamentali in un prolungamento artificiale del corpo, uno conquisterebbe autonomia. Notare, tra l’altro, l’evocazione qua e là del pensiero critico, altra stucchevolissima formuletta magica (mantra numero tre), estratta dal cilindro del prestigiatore come il classico coniglio, per legittimare se stesso da un lato e per nobilitare qualsiasi ciofeca dall’altro. Basta spruzzare in giro, a casissimo, qualche «pensiero critico», e la coscienza va subito a posto, e ci si gode l’applauso assicurato del pubblico pagante. Ma non c’è solo il pensiero critico. Sparse per il testo, tutte le classiche esche per i benpensanti, quelle che piacciono alla gente che piace, sfoderate per il lancio del grande gioco di società a cui siamo tutti chiamati coattivamente a giocare. Ecco infatti che, per raggiungere i traguardi stellari elencati a più riprese nel documento, «è necessario che l’IA supporti la crescita personale e l’acquisizione di competenze autentiche, promuovendo l’apprendimento critico e creativo senza sostituire l’impegno, la riflessione e l’autonomia degli individui». Essa «deve promuovere un’innovazione etica e responsabile», essere utilizzata «in modo trasparente, consapevole e conforme ai valori educativi delle Istituzioni scolastiche italiane»; deve essere sostenibile nel lungo termine e «per traguardare (sic) questo obiettivo deve garantire un equilibrio nei tre pilastri della sostenibilità: sociale, economica e ambientale». In sintesi: l’AI promuove l’autonomia, stimola il pensiero critico, ma per raggiungere questi fantastici obiettivi deve promuovere l’autonomia e stimolare il pensiero critico. Una autolegittimazione tautologica e circolare, formulata per la stessa banda di presunti scimuniti cui si accennava sopra.Aiuta Renovatio 21
Accendere la resistenza
Viene da ridere, sì, ma poi sale la rabbia. L’onda d’urto di tanto delirio si abbatterà sui nostri figli se non ci predisponiamo a difenderli. Che dall’altra parte ci sia un grumo di potere non solo economico, ma soprattutto politico (nel senso che il suo intento egemonico sta nel controllare l’esistenza altrui e pilotarla a proprio uso e consumo) non è forse nemmeno il problema più grande. Il problema più grande è che la gente abbocca, anche se l’imbroglio è così plateale, e si lascia attirare nel girotondo per via di quel «piano di comunicazione strutturato» che funziona alla grande; oppure perché è semplicemente stanca, rassegnata, tanto da lasciarsi persuadere dalla narrazione truffaldina che fa leva sulla parola magica della «inevitabilità». E allora si convince a salire sulla giostra che gira sempre più forte, ma si sente rassicurata dall’essere «consapevole e responsabile», il tranquillante prescrittole dall’impresario circense. L’imposizione dell’IA ai nostri figli – proprio come è stato per l’mRNA – calpestando la Costituzione, uccidendo il diritto e disintegrando il concetto stesso di democrazia, mira dritto dritto al cuore della natura umana per colpire la sua integrità e un po’ alla volta sostituirla. Ma in pochi sembrano farci caso: la maggior parte obbedisce, zitta e mosca, al programma di sottomissione. E invece questo è proprio il momento della responsabilità. Dunque, che la forza sia con noi: con i docenti che non mollano, con i genitori che tengono ai propri figli, con gli scolari capaci di sopravvivere al trattamento loro riservato, e determinati a continuare a farlo per conquistarsi in premio una vita da vivere, e non da subire. Elisabetta FrezzaIscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Scuola
Elisabetta Frezza: tra raccolta massiva di dati e isolamento dei bambini «la scuola è il nuovo campo di sorveglianza»

La «scuola che cade a pezzi» continua senza freni il suo processo verso la digitalizzazione, con effetti tremendi sulle nuove generazioni.
Questo il pensiero di Elisabetta Frezza, intervistata da Gioia Locati, caso praticamente unico di giornalista della stampa nazionale che si occupa di temi come quello dei vaccini e della fecondazione in vitro con gli embrioni crioconservati.
In veste di responsabile di Scuola ContiamoCi!, racconta l’impatto della gestione pandemica sul sistema scolastico: isolamento, regressione cognitiva, medicalizzazione dell’ambiente educativo, eccessiva digitalizzazione e raccolta massiva di dati. Ancora più grave è l’oblio collettivo di quel trauma: nessuna spiegazione, riflessione pubblica o riconoscimento morale per una generazione che ha subito in silenzio.
Intanto, sotto il pretesto di «innovazione» e «personalizzazione», si rafforza un modello scolastico che rinuncia a trasmettere il sapere, sostituisce gli insegnanti con algoritmi e riduce gli studenti a profili digitali.
Un’analisi che – nel solco dei tanti interventi della Frezza su questo tema – esorta a riconoscere le precise cause del declino per poter cambiare direzione verso la salvezza dei nostro ragazzi programmati dal sistema per essere una vera gioventù terminale.
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Pensiero
Scuola, la tempesta sui nostri figli: dal terrore pandemico all’«educazione al consenso»

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