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Politica

La «Bestia» sacrificata: assalto finale alla Lega Nord

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Guardate la cronaca e pensate quello che volete, ma oramai ci pare ovvio che siamo davanti all’assalto finale contro la Lega Nord. O meglio, alla Lega salviniana (se poi la Lega possa sopravvivere senza Salvini, non siamo in grado di dirlo).

 

La storia dell’artefice del successo in rete di Salvini – cioè del successo di Salvini tout court – nelle peste per storie di droga e festini con giovani rumeni, ci è parsa da subito «strana». E non siamo gli unici ad essersi posti un paio di domande sui fatti raccontati dai giornali.

 

Non siamo gli unici ad essersi posti un paio di domande sui fatti raccontati dai giornali

«Tutto comincia a metà agosto quando vengono fermati tre giovani e nell’auto hanno un flacone di droga liquida. La versione ufficiale racconta che sono loro ad accusare Morisi di avergliela ceduta», si è letto sul Corriere della Sera. «In realtà c’è il sospetto che Morisi fosse sotto osservazione già da qualche settimana e il controllo apparentemente casuale dei tre giovani sia scattato proprio monitorando i suoi contatti».

 

«Il quantitativo è modesto, ma il fatto che i tre ragazzi lo abbiano indicato come lo spacciatore, fa scattare l’accusa più grave di cessione e non la semplice detenzione. Morisi finisce dunque nel registro degli indagati».

 

Dagospia si chiede quindi se quel «sotto osservazione» stia a significare che Morisi sia stato incastrato.

 

Riepiloghiamo:

 

I tre ragazzi, giovani, vengono dalla Romania. È trapelato che si sarebbero «probabilmente conosciuti online», non è dato di sapere se grazie ad una app particolare: «contatto abbastanza occasionale», è stato detto. Sono stati fermati dai carabinieri e perquisiti. Avrebbero quindi indicato come fornitore il capo della Bestia.

 

Sui giornali già si ammiccaetteppareva – ad una fantomatica «pista russa»: la Barchessa che contiene l’appartamento (ce ne sono tra i quaranta e cinquanta), sarebbe stata restaurata da un tale imprenditore con agganci internazionali… e poi un vicino di casa è russo. Le telecamere di una trasmissione di RAI 3 erano già state lì in passato, alla caccia di dettagli della tenebrosa trama Putin-Salvini.

 

Sui giornali già si ammicca – etteppareva – ad una fantomatica «pista russa»

Il voto delle amministrative il 3 e il 4 ottobre è alle porte. La «Bestia» è decapitata. Salvini, dicono, è da tempo che non ne azzecca una. La Meloni lo sta in pratica superando. Soprattutto: la Meloni è l’opposizione che piace, perché, in realtà, non sembra nemmeno così invisa all’establishment: non tutti si strapperebbero i capelli a vederla al governo.

 

Ma il problema non è solo fuori dalla Lega. In molti si sono svegliati quando Giorgetti (cugino del banchiere e grand commis di Stato prodiano Massimo Ponzellini), percepito come l’uomo dell’establishment dentro alla Lega, ha fatto l’endorsement per Calenda sindaco a Roma. «Rispetto Giorgetti come avversario politico» ha dichiarato Calenda (il figlio di Cristina Comencini, nipote di Luigi Comencini, manager Ferrari sotto Montezemolo, quello che candida i ragazzini con il Rolex in bella vista).  Fiori di rosa, fiori di pesco.

 

La Lega si sta giorgettizzando: è ciò che si sussurrava dentro al partito già a inizio 2020, come la fatale batosta delle elezioni regionali dell’Emilia Romagna. Di lì in poi, il disastro che ha dissipato il consenso che Salvini aveva raccolto alle Europee, uno strabiliante 35%, con tutte le figure del sovranismo europeo, dalla Le Pen in giù, ad applaudirlo mentre invoca la Madunina sul palco di Piazza Duomo a Milano.

 

Probabilmente il trapasso dalla Lega sovranista – che già costituisce una mutazione addomesticata di quella bossiana – alla Lega di governo è meno facile di quello che sembra.

 

La Lega si sta giorgettizzando: è ciò che si sussurrava dentro al partito già a inizio 2020, come la fatale batosta delle elezioni regionali dell’Emilia Romagna

E allora, ecco il baluginio dei lunghi coltelli. Ci sono defezioni, veleni, ipotesi di scissione. Ci sono alcuni deputati che capiscono perfettamente in che situazione ci ha relegato la pandemia, ma sembrano scorati, affranti, incapaci di reagire, torturati nell’animo sino a sembrare schizofrenici.

 

Tutt’intorno è la pacchia dei maramaldi. La Bestia è ferita, iene ed avvoltoi si assiepano.

 

È l’assalto finale ad un partito che, forse, a differenza degli altri, credevano di non poter controllare completamente, nonostante i leghisti avessero votato bovinamente green pass e ogni altra porcheria.

 

Il problema, forse, è solo Salvini. Nonostante l’idillio con la figlia di Verdini, forse cova ancora qualche ambizione politica intollerabile. Non si può dargli la fiducia che è stata data, chiavi in mano, a personaggi come un Di Maio, etc. Del resto, Salvini era quello che un giornale internazionale aveva messo in copertina come «l’uomo in grado di distruggere l’Europa». Era vero.

 

All’orizzonte c’è la partita più importante: l’elezione del Presidente della Repubblica, ora più che mai figura politicamente decisiva

Oggi invece l’Europa ha piazzato il suo Drago in casa di Salvini. Non bastava.

 

Ribadiamo, le elezioni sono tra poche ore. La macchina della propaganda salviniana potrebbe essere inceppata. Il suo ruolo nel partito scosso.

 

E soprattutto, all’orizzonte c’è la partita più importante: l’elezione del Presidente della Repubblica, ora più che mai figura politicamente decisiva – per i prossimi sette anni, che chissà cosa hanno in serbo per noi.

 

Ecco quindi le manovre da basso impero. Chi può esserci dietro, non sappiamo dirlo. Sono in corso, senza che le possiamo vedere, lotte tra gli apparati, lotte tra i partiti, tra  Paesi UE – e anche lotte tra le superpotenze digitali, che dispongono di certi dati che potrebbero in questi casi tornare utili.

 

L’unica Bestia che rimarrà, alla fine, sarà il Drago

È tutto un disegno più grande dei festini a Belfiore, delle elezioni a Roma, della Lega Nord, di Salvini.

 

Il disegno richiedeva il sacrificio della Bestia. E non è, probabilmente, l’unico in programma.

 

L’unica Bestia che rimarrà, alla fine, sarà il Drago.

 

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I detenuti minacciano Sarkozy e giurano vendetta vera per Gheddafi

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Un video girato con un cellulare nella prigione parigina La Santé sembra mostrare che i detenuti hanno minacciato l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy di vendicare la morte del defunto leader libico Muammar Gheddafi.

 

Sarkozy, 70 anni, ha iniziato a scontare la sua condanna a cinque anni martedì, dopo che un tribunale di Parigi lo ha dichiarato colpevole di associazione a delinquere finalizzata a finanziare la sua campagna presidenziale del 2007 con denaro di Gheddafi, contro il quale in seguito guidò un’operazione di cambio di regime sostenuta dalla NATO che distrusse la Libia e portò alla morte di Gheddafi.

 

Martedì hanno iniziato a circolare video ripresi da La Sante, in cui presunti detenuti minacciavano e insultavano Sarkozy, che sta scontando la sua pena nell’ala di isolamento del carcere.

 

«Vendicheremo Gheddafi! Sappiamo tutto, Sarko! Restituisci i miliardi di dollari!», ha gridato un uomo in un video pubblicato sui social media. «È tutto solo nella sua cella. È appena arrivato… se la passerà brutta».

 

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Il ministro degli Interni francese Laurent Nunez ha sottolineato che, a causa del pericolo, due agenti di polizia della scorta di sicurezza assegnata agli ex presidenti saranno di stanza in modo permanente nelle celle adiacenti a quella di Sarkozy.

 

«L’ex presidente della Repubblica ha diritto alla protezione in virtù del suo status. È evidente che sussiste una minaccia nei suoi confronti, e questa protezione viene mantenuta durante la sua detenzione», ha dichiarato Nunez mercoledì alla radio Europe 1.

 

Sarkozy, che ha guidato la Francia tra il 2007 e il 2012, ha negato tutte le accuse a suo carico, sostenendo che siano di matrice politica. Il suo team legale ha presentato una richiesta di scarcerazione anticipata, in attesa del procedimento di appello.

 

L’inchiesta su Sarkozy è iniziata nel 2013, in seguito alle affermazioni del figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, secondo cui suo padre aveva fornito alla campagna dell’ex presidente circa 50 milioni di euro.

 

A dicembre 2024, la Corte Suprema francese ha confermato una condanna del 2021 per corruzione e traffico di influenze, imponendo a Sarkozy un dispositivo elettronico per un anno. È stato anche condannato per finanziamento illecito della campagna per la rielezione fallita del 2012, scontando la pena agli arresti domiciliari.

 

Nel 2011, Sarkozy ha avuto un ruolo di primo piano nell’intervento della coalizione NATO che ha portato alla cacciata e alla morte di Gheddafi, facendo sprofondare la Libia in un caos dal quale non si è più risollevata.

 

Come riportato da Renovatio 21, all’inizio del 2025 gli era stata revocata la Legion d’Onore. In Italia alcuni hanno scherzato dicendo che ora «Sarkozy non ride più», un diretto riferimento a quando una sua risata fatta con sguardo complice ad Angela Merkel precedette le dimissioni del premier Silvio Berlusconi nel 2011 e l’installazione in Italia (sotto la ridicola minaccia dello «spread») dell’eurotecnocrate bocconiano Mario Monti.

 

 

Nell’affaire Gheddafi finì accusata di «falsificazione di testimonianze» e «associazione a delinquere allo scopo di preparare una frode processuale e corruzione del personale giudiziario» anche la moglie del Sarkozy, l’algida ex modella torinese Carla Bruni, la quale, presentatole il presidente dall’amico comune Jacques Séguela (pubblicitario autore delle campagne di Mitterand e Eltsin) secondo la leggenda avrebbe confidato «voglio un uomo dotato della bomba atomica».

 

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Il Giappone elegge una donna conservatrice come primo ministro

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Sanae Takaichi è diventata la prima donna Primo Ministro del Giappone, vincendo le elezioni parlamentari di Tokyo martedì. Esponente di lungo corso del Partito Liberal Democratico (LDP), nota come la «Lady di Ferro» del Giappone per la sua ammirazione verso l’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher, Takaichi è riconosciuta per il suo conservatorismo sociale, il nazionalismo e il sostegno a un ruolo più ampio per le forze armate giapponesi.   A 64 anni, Takaichi ha sostenuto la revisione della clausola pacifista della costituzione postbellica del Giappone e il riconoscimento ufficiale delle Forze di autodifesa come esercito nazionale. Ha inoltre appoggiato un aumento della spesa per la difesa e una maggiore cooperazione militare con gli Stati Uniti.   Le sue posizioni sulla sicurezza nazionale richiamano le politiche dell’ex premier Shinzo Abe, di cui è considerata una protetta e con cui aveva stretti legami politici.   Frequente visitatrice del Santuario Yasukuni di Tokyo, che rende omaggio ai caduti giapponesi, inclusi criminali di guerra della Seconda Guerra Mondiale, Takaichi è stata spesso criticata dai Paesi vicini per quello che considerano revisionismo storico. Ha difeso le sue visite come atti di rispetto personale, sostenendo che i crimini di guerra dei soldati giapponesi siano stati esagerati.

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A livello interno, Takaichi si oppone al matrimonio tra persone dello stesso sesso, sostiene la successione imperiale esclusivamente maschile e ha criticato le proposte di cognomi separati per le coppie sposate.   La Takaicha ha inoltre appoggiato il rafforzamento dei confini e politiche migratorie più rigide, chiedendo misure contro i visti non concessi, il turismo eccessivo e l’acquisto di terreni da parte di stranieri, soprattutto vicino a risorse strategiche.   In politica estera, la Takaichi ha definito la crescente potenza militare della Cina una «seria preoccupazione», proponendo misure di deterrenza, tra cui un patto di sicurezza con Taiwan.   Si ritiene che Takaichi non intenda perseguire un significativo riavvicinamento con la Russia, avendo ripetutamente rivendicato la sovranità sulle isole Curili meridionali, annesse dall’Unione Sovietica nel 1945 come parte degli accordi postbellici.   Takaichi assume la carica in un momento critico per il Giappone, che affronta un tasso di natalità ai minimi storici, un rapido invecchiamento della popolazione, un’inflazione persistente e il malcontento pubblico per gli scandali politici che hanno eroso la fiducia nel PLD, il partito al governo.  

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Immagine di 内閣広報室|Cabinet Public Affairs Office via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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Elezioni in Bolivia, il Paese si sposta a destra

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Domenica si è svolto in Bolivia il ballottaggio per le elezioni presidenziali, che ha visto contrapporsi due candidati di destra: il senatore centrista Rodrigo Paz Pereira e l’ex presidente conservatore Jorge Quiroga.

 

I risultati preliminari indicano che Paz ha ottenuto il 54,6% dei voti, mentre Quiroga si è fermato al 45,4%. Sebbene sia prevista un’analisi manuale delle schede, è improbabile che il risultato definitivo differisca significativamente dal conteggio iniziale, basato sul 97% delle schede scrutinate.

 

Le elezioni segnano la fine del ventennale dominio del partito di sinistra Movimiento al Socialismo (MAS), che ha subito una pesante sconfitta nelle elezioni di fine agosto. Il presidente uscente Luis Arce – che ha recentemente accusato gli USA di controllare l’America latina sotto la maschera della «guerra alla droga» – non si è ricandidato, e il candidato del MAS, il ministro degli Interni Eduardo del Castillo, ha raccolto solo il 3,16% dei voti, superando di poco la soglia necessaria per mantenere lo status legale del partito.

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Nel primo turno, la destra ha dominato: Paz ha ottenuto il 32,1% dei voti e Quiroga il 26,8%. Il magnate di centro-destra Samuel Doria Medina, a lungo favorito nei sondaggi, si è classificato terzo con il 19,9% e ha subito appoggiato Paz per il ballottaggio.

 

Entrambi i candidati hanno basato la loro campagna sullo smantellamento dell’eredità del MAS, differendo però nei metodi. Paz ha promesso riforme graduali, mentre Quiroga ha sostenuto cambiamenti rapidi, proponendo severe misure di austerità per affrontare la crisi.

 

Il MAS non si è mai ripreso dai disordini del 2019, quando l’ex presidente Evo Morales fu deposto da un colpo di Stato subito dopo aver ottenuto un controverso quarto mandato. In precedenza, Morales aveva perso di misura un referendum per modificare la norma costituzionale che limita a due i mandati presidenziali e vicepresidenziali. Più di recente, Morales ha accusato tentativi di assassinarlo ed è entrato in sciopero della fame, mentre i suoi sostenitori hanno dato vita ad una ribellione. Il Morales, recentemente accusato anche di stupro (accuse che lui definisce «politiche»), in una lunga intervista aveva detto che dietro il suo rovesciamento nel 2019 vi erano «la politica dell’impero, la cultura della morte» degli angloamericani.

 

Il colpo di Stato portò al potere la politica di destra Jeanine Áñez, seconda vicepresidente del Senato. Tuttavia, il MAS riconquistò terreno nelle elezioni anticipate dell’ottobre 2020, mentre Áñez fu incarcerata per i crimini commessi durante la repressione delle proteste seguite al golpe.

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Il passaggio storico è stato definito da alcuni come la prima «guerra del litio», essendo il Paese ricco, come gli altri Stati limitrofi, della sostanza che rende possibile la tecnologia di computer, telefonini ed auto elettriche.

 

Come riportato da Renovatio 21, un tentato colpo di Stato vi fu anche l’anno scorso quando la polizia militare e veicoli blindati hanno circondato il palazzo del governo nella capitale La Paz.

 

Sotto il presidente Arce la Bolivia si era avvicinata ai BRICS e aveva iniziato a commerciare in yuan allontanandosi dal dollaro.

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