Scuola
INVALSI e PNRR: a scuola nasce il mostro tecnocratico-predittivo che segnerà il futuro dei nostri figli

Il PNRR, che vomita denaro a fiotti, ha inondato di dobloni anche l’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di istruzione e formazione), il quale se ne esce in grande spolvero col trucco rifatto. Beninteso, è sempre il mostro di prima, ma tirato a lustro, e finalmente libero di esibire tutte le perverse potenzialità con cui era stato concepito nel lontano 1999. Perché i tempi, ora, sono maturi.
Come per gli altri mille tentacoli dell’apparato – una giungla di sigle cacofoniche che sbucano da ognidove – anche l’evoluzione dell’INVALSI serve l’obiettivo principe di completare il processo di smaterializzazione e disumanizzazione di tutto quanto su questa terra pulsi di vita. E il mondo della scuola è, per sua natura, un concentrato di vita: per questo è urgente intrappolarlo nella prigione ermetica del digitale, neutralizzando tutto il suo contenuto di carne e di spirito.
L’INVALSI è uno strumento di valutazione, che opera attraverso la somministrazione di test standardizzati composti da quesiti a risposta chiusa o a risposta aperta univoca.
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Inizialmente ce lo avevano venduto come strumento di valutazione delle scuole, e non degli studenti: l’analisi dei risultati su larga scala avrebbe permesso – ci era detto – di monitorare l’andamento generale del sistema scolastico. Ci avevano altresì venduto le prove come non obbligatorie, e infatti qualcuno le schivava, infastidito da tutte quelle richieste di informazioni su status familiare, titoli di studio e professione dei genitori, numero di locali in casa, numero di auto possedute, di libri, eccetera eccetera. Insomma, con la scusa di valutare le scuole, qualcuno intanto acquisiva una fotografia socio-economica delle famiglie, scattata dai figli.
Ci avevano assicurato che, comunque, tutto si svolgeva in regime di totale anonimato, non essendo possibile risalire in nessun modo dai codici alfanumerici all’identità dell’autore della prova.
Di fatto, l’INVALSI ha invaso le scuole e, grazie alla carica intimidatoria insita nella sua funzione, si è circondato di un’aura di sacralità, fino a convincere molti docenti a sperperare ore su ore di lezione ad allenare gli sventurati alunni con batterie di test a crocette, invece che insegnare la propria materia. Perché sì, accade anche questo: la didattica tarata sull’INVALSI.
Comunque, non tutti se l’erano bevuta. C’era qualcosa che non tornava nel libretto di istruzioni dello strambo marchingegno.
E infatti, un po’ alla volta, il mostro è sbocciato, secondo la sua natura. A un certo punto le prove Invalsi sono diventate propedeutiche agli esami di terza media e di maturità, cioè requisito necessario per l’ammissione, cioè obbligatorie. Ma non è finita là. Ora, il decreto legge PNRR stabilisce che i risultati delle prove Invalsi entreranno a fare parte del curriculum dello studente allegato al diploma finale di scuola superiore e contenuto nell’E-Portfolio cui si accede tramite la piattaforma Unica. Il mostro si è finalmente trasfigurato.
Conviene aprire una breve parentesi per spiegare a grandi linee cos’è UNICA. A proposito di mostri. Ce la presentano come un sublime incrocio tra: una scatola nera (sic!), perché contiene e ricorda tutto ciò che uno studente ha fatto nel suo percorso scolastico; una piazza virtuale, a cui possono avere accesso docenti, famiglie, tutor, orientatori, e chi più ne ha più ne metta; e una bussola, che serve a capire dove andare. O meglio: dove altri vogliono farti andare.
UNICA è una piattaforma nella quale vengono raccolti tutti i dati di tutti gli studenti italiani, e che promette di far dialogare gli studenti con le famiglie, il territorio, le imprese, le università, nonché di realizzare i quattro obiettivi fondamentali della scuola 4.0, che sono: orientamento, personalizzazione, digitalizzazione, semplificazione (le quattro parole d’ordine del ministro che sintetizzano la devastazione in programma). INVALSI stesso suggerisce agli studenti di scaricare le certificazioni ottenute in italiano, matematica, inglese, «per arricchire il proprio curriculum o e-portfolio, evidenziare i livelli di competenze raggiunti sui social network o su altre piattaforme professionali, fornire una rappresentazione visiva delle proprie competenze su un sito web»; insomma, per farsi profilare al meglio, anche attraverso un Open Badge (ed ecco spuntare un altro mostro).
Dunque, come si diceva, con l’avvento del PNRR i risultati delle prove INVALSI, stabiliti insindacabilmente dagli algoritmi, entreranno a fare parte del curriculum dello studente contenuto nell’E-Portfolio che sta nella piattaforma Unica. Cioè, il curriculum si arricchirà di una specifica sezione dedicata ai livelli di apprendimento raggiunti nelle prove Invalsi per ciascuna disciplina.
L’inserimento dei risultati INVALSI nel curriculum dello studente consentirebbe – così ci è detto – oltre al riconoscimento delle competenze acquisite durante il percorso formativo, anche la valorizzazione delle eccellenze, ovvero di «premiare gli studenti che si sono distinti nelle diverse discipline, offrendo loro un vantaggio in vista di future attività formative e lavorative».
Dal che risulta evidente come, nella mens del legislatore, i dati raccolti e immortalati nel profilo virtuale dello studente lungo il corso della sua storia personale sono tali da condizionarne le opportunità future. Vale a dire che sono in grado di rappresentare, nel bene e nel male, uno stigma indelebile.
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Ciò significa che, all’esito di una specifica prestazione, localizzata nel tempo e nello spazio, viene ricondotta la etichettatura definitiva di un soggetto in via di formazione: l’etichetta scolpita nella memoria delle banche dati gli resterà appiccicata addosso, facendo strame del suo potenziale di crescita e di maturazione, delle metamorfosi imprevedibili, delle salite e delle discese, delle cadute e dei miracoli che costellano la vita di ogni essere umano, soprattutto se in fase di crescita.
Le sorti dell’umano, insomma, le decide in anticipo la macchina valutando delle crocette sulla base di automatismi imponderabili, senza che all’umano sia possibile financo verificare ex post la correttezza del procedimento usato e del risultato ottenuto dalla macchina, e quindi senza alcuna possibilità di ripeterlo e di correggerlo, e nemmeno di ottenerne l’oblio.
È evidente dunque che, attraverso il PNRR e la sovrastruttura tecnologica che ad esso è legata, è stato portato a compimento un mastodontico piano di raccolta dati (non solo relativi al rendimento scolastico, ma anche al contesto sociale e culturale di appartenenza) e di schedatura capillare degli studenti italiani affidata integralmente agli algoritmi e affrancata da qualsiasi interferenza umana.
Dal 2022, INVALSI ha introdotto un nuovo indicatore individuale per identificare gli studenti in condizione di fragilità, alla cui scuola di appartenenza saranno destinate risorse aggiuntive per attuare didattiche differenziate.
Si tratta di un bollino assegnato sempre algoritmicamente in base ai risultati dei test standardizzati, il quale, certificando il rischio di dispersione implicita o abbandono scolastico, permetterebbe di predisporre precocemente misure ad hoc, non si sa bene di che tipo. Ne ha scritto diffusamente Rossella Latempa su Roars: qui, qui e qui, e a lei si rimanda per un’analisi più approfondita del tema.
È chiaro che INVALSI, in questo modo, assume una funzione non più solo valutativa, ma anche predittiva, intestandosi un’operazione di schedatura di massa degli studenti supposti fragili. Lo ha confermato il suo presidente Roberto Ricci, nel maldestro tentativo di negare tutto: «Nessuna certificazione, nessuna etichettatura. L’idea è proprio quella di fornire indicatori che probabilisticamente individuano dei fragili. Come dire: se ho determinate caratteristiche fisiche, sono esposto a determinati rischi, e mi controllerò per prevenirli. Un’altra lettura delle cose favorisce l’oscurantismo». Commento che si commenta da solo.
Egli poi, sempre tentando di negarlo, ammette anche che i codici identificativi consentono di associare il valore dell’indicatore di fragilità alla scheda personale di ogni studente; e che il bollino viene loro appiccicato a totale insaputa delle famiglie. Un capolavoro assoluto di trasparenza e di democrazia, non c’è che dire.
Tutta la procedura si dispiega al riparo da ogni controllo esterno; non è contestabile né riproducibile; sono ignoti i criteri utilizzati per segnare la soglia di fragilità, tutto è secretato. I risultati, come dice Latempa, vanno accettati come puro atto di fede. Ipse (dove ipse è INVALSI) dixit.
Le parole della stessa Autorità Garante per la protezione dei dati personali (in un recente dibattito dal titolo: «Intelligenza artificiale: come proteggere i dati e come utilizzarli per la dispersione scolastica?») rendono ragione della gravità di questo potenziamento dell’INVALSI con la ridefinizione dei test in senso predittivo. Di seguito alcuni stralci del suo discorso, riportati qui.
«Quando uniamo IA e dati la miscela diventa esplosiva. I dati sono di fatto proiezioni, frammenti dell’identità di una persona. Messi insieme rappresentano la persona. Il chi siamo nella dimensione digitale». E ancora: «In una stagione in cui il tecnologicamente impossibile non esiste più e il tecnologicamente possibile è tutto, se cedo all’idea che quello che è tecnologicamente possibile e legittimo è democraticamente sostenibile, il risultato finale (…) è che il governo diventa della tecnologia. La tecnocrazia travolge la democrazia perché la vera regola la fissa la soluzione tecnologica (…) Rischiamo di consegnarci mani e piedi agli algoritmi e alla tecnologia (…) che esce dai laboratori di ricerca ormai sempre più nelle mani dei privati e quindi è sviluppata nel loro legittimo interesse».
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Il Garante ha fatto anche un esempio delle aberrazioni cui questo sistema può condurre:
«Pensiamo all’accesso abusivo a quell’informazione con il dato di Paolo Rossi, che per colpa di un algoritmo che ha messo in fila in maniera non corretta dei fattori si ritrova classificato come a rischio dispersione, poi quando quello proverà ad entrare in un’Università X o Y che cerca solo quelli bravi resterà fuori dalla porta; o quando ci sarà qualcuno che dovrà selezionarlo per un lavoro e avrà accesso ai dati dirà ma era addirittura “a rischio dispersione”». È solo un esempio, e nemmeno il più grave, nel panopticon che ci aspetta.
Per concludere. Attraverso una valutazione standardizzata che fuoriesce completamente dal controllo umano si pretende non soltanto di fotografare il presente, in termini di livello di apprendimento dello studente, ma anche di prevedere statisticamente i futuri possibili e di intervenire per modificarli; si pretende, tecnicamente, di influenzare il futuro ingabbiando le vite in fiore dentro una prigione informatica dalla quale diventa impossibile evadere.
Come dice Rossella Latempa, «L’effetto immediato è quello di rendere presenti quei futuri selezionati come più probabili, non solo attraverso la classificazione individuale, la cui traccia sociale è imprevedibile, ma soprattutto per mezzo della catena di interventi attivati (progetti di potenziamento didattico, recupero…)». In sostanza, dice sempre Latempa: «la valutazione automatizzata è un processo performativo, cioè coinvolto nella creazione della realtà che pretende di rappresentare. Il potere auto-rappresentante di una classificazione come quella di fragilità emessa dall’INVALSI non è paragonabile al giudizio umano di un insegnante, negoziabile e revisionabile. Automatizzare le valutazioni significa naturalizzare le disuguaglianze e rafforzarle».
Nell’incommensurabilità tra il giudizio umano, che implica una relazione interpersonale in divenire, e la tassonomia computerizzata, che sigilla una prestazione in un dato indelebile, risiede il nucleo di questa perversione.
Insomma, la mole imponente di dati raccolti dall’INVALSI per ciascuno studente lungo tutto il corso della sua carriera scolastica alimenta un database da cui trarre informazioni personali e premonizioni oracolari. In pratica, un mostro cibernetico inafferrabile – programmato e reso onnipotente da frotte di poveri nerd inconsapevoli – traccia e pilota le biografie dei nostri figli, obbligati a viaggiare per la vita ciascuno con la propria scatola nera cucita addosso. Non per nulla li chiamano «capitale umano».
Non bisogna dimenticare, a margine, la contestuale stretta sul cosiddetto «orientamento», il quale – sempre grazie al decreto PNRR – si avvia a grandi passi a diventare vincolante, ovvero sottratto alla volontà della famiglia (nel sito del MIM si legge: «si valorizza il consiglio di orientamento, rilasciato dalle istituzioni scolastiche agli alunni della classe terza della Scuola secondaria di I grado, demandando a un decreto del Ministro l’adozione di un modello unico nazionale di consiglio di orientamento, da integrare nell’E-Portfolio». Se ne parla più diffusamente qui).
Ecco a voi le meraviglie del progresso. Chi in questi anni avvertiva qualche disagio nel prestare la prole ai rilevamenti statistici richiesti per il miglioramento della scuola, della specie, dell’ecosistema, del pianeta; chi magari pensava addirittura che l’INVALSI, in realtà, fosse una polpetta avvelenata a lento rilascio, beh, ora sa che aveva ragione.
Stavano preparando il pasto perpetuo per il gigantesco Minotauro tecnocratico. Aspettiamo Teseo.
Elisabetta Frezza
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Intelligenza Artificiale
Scuola e Intelligenza Artificiale, le linee guide verso «conseguenze personali e sociali sconosciute» per i nostri figli

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Uso consapevole e responsabile, come la droga
Al malcapitato che si appresta a leggerle, viene subito spiegato nelle prime righe che le linee guida vogliono fornire «un quadro di riferimento strutturato per l’adozione consapevole e responsabile dei sistemi di Intelligenza Artificiale», affinché «diventino uno strumento per rafforzare la competitività del sistema educativo italiano». Dopo di che parte il primo elenco (ne seguiranno vari altri) delle meraviglie che, nell’ambito della propria discrezionalità, ciascuna istituzione scolastica può realizzare con l’IA. Come potevano mancare la consapevolezza e la responsabilità? È questo infatti il mantra numero uno che è stato conficcato nelle teste soprattutto dei genitori/educatori/animatori dei tecnoutenti in erba, per far credere loro che sia giusto dotare il pargolo di protesi elettroniche di ultima generazione e immergerlo nel metaverso, che sia anzi una scelta necessaria per non condannarlo a crescere nel medioevo; con l’unica accortezza, per mostrarsi davvero coscienziosi, di fargli spiegare dall’esperto come affogare in modo consapevole. Un po’ come l’uso consapevole della droga, insomma: drògati, ma fallo con responsabilità. Non è un parallelo stravagante, perché il digitale ottunde i sensi e genera dipendenza, alla stregua della cocaina. Lo diceva a chiare lettere anche la relazione finale dell’indagine conoscitiva promossa dalla VII Commissione permanente del Senato nel 2019 (quindi ancora in era pre-Covid, prima del Piano Scuola 4.0 uscito dal laboratorio della pandemia) intitolata Sull’impatto del digitale negli studenti, con particolare riguardo ai processi di apprendimento e che si può trovare sul sito governativo. È insomma un narcotico dell’intelligenza umana, specie di quella che dovrebbe essere educata a crescere. Privarsi del dispositivo elettronico, infatti, è come subire l’amputazione di un arto, e del resto gli algoritmi sono programmati per adescare l’utente, catturarlo e tenerlo in ostaggio il più a lungo possibile. Poi quella relazione diceva molte altre cose, basandosi su un ricco compendio di letteratura ed esperienza consolidate. Tipo che l’uso-abuso del digitale sta decerebrando le nuove generazioni (proprio così): riduce la neuroplasticità del cervello e frena lo sviluppo delle aree cerebrali responsabili di singole funzioni; fa sì che si inibiscano sul nascere, o si atrofizzino, facoltà cognitive, abilità psicofisiche, attitudini relazionali. Inoltre genera isolamento, danni fisici di varia natura, psicosi assortite. Insomma, un disastro. Tutte conclusioni peraltro che, oltre a radicarsi in una bibliografia ormai sterminata, sono raggiungibili in autonomia da qualunque persona di buon senso che abbia a che fare con un cucciolo d’uomo contemporaneo e con i suoi coetanei. Bastava una mamma sensata qualunque, per arrivarci. In ogni caso, nel tempo in cui invocare la scienza equivale a calare la carta vincente, il fatto di disporre di evidenze pressoché unanimi che certificano il fallimento della didattica digitale e, ancor più, la sua fenomenale dannosità, e al contempo fregarsene completamente per dedicarsi a pompare le sue prestazioni miracolose, bisogna riconoscere che richiede una buona dose di sfrontatezza. Vien da pensare che ci sia sotto una faccenda grossa di bilanciamento di interessi, e che gli interessi dei colossi della tecnologia educativa debbano avere la meglio, per ordine superiore, su quelli della gente comune, dei giovani e della società. Tanto più che il ministero che oggi celebra i prodigi dell’IA con la pecetta (l’additivo cautelare) dell’«uso consapevole», è lo stesso che ieri – dicembre 2023 – mandava in giro sottoforma di circolare la relazione di cui sopra nelle scuole di ogni ordine e grado. Uno strano caso di strabismo istituzionale, passato del tutto sotto silenzio forse per l’abitudine diffusa, divenuta rassegnata assuefazione, di sentir predicare simultaneamente tutto e il contrario di tutto dagli stessi identici predicatori. Pare normale.Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Inevitabile tecnolatria
Ma la sensazione più irritante che, scorrendo quelle pagine, assale il lettore non tecnolatra deriva dal fatto che esse danno per presupposto che uno per forza lo sia. Cioè, non è nemmeno lontanamente contemplata l’eventualità che non tutti tutti – nella grande ammucchiata di genitori, studenti, docenti, dirigenti, personale di altro genere – non aspettassero altro che aderire felici all’utilizzo dell’IA nella propria scuola. «L’introduzione dell’IA nelle istituzioni scolastiche rappresenta una grande opportunità, che richiede un impegno costante da parte di tutti gli attori coinvolti». Lo hanno deciso loro. Qualcuno è stato consultato? No. Si è registrata approvazione unanime? No. Ma entra in gioco qui un altro tic verbale e mentale (il mantra numero due) appiccicato ad arte al fenomeno della IA: la sua pretesa inevitabilità. Il progresso non si può scansare, va cavalcato per una questione di destino invincibile, qualunque esso sia. Una species del suggestivo genus «there is no alternative» (TINA) coniato, al tempo, dalla lady d’oltremanica. Non ha quindi senso manifestare contrarietà verso qualcosa di ineluttabile: tanto vale buttarcisi a pesce, forti dell’illusione indotta di essere più scafati degli altri e di essere in grado di governare la macchina. Siccome però in questa fattispecie specifica abbiamo visto che si va incontro a rischi e danni certi, severi e documentati, con l’aggravante che ad esserne travolti sono i più indifesi, la dichiarazione di inevitabilità equivale praticamente ad ammettere che abbiamo creato un mostro che ora vive di vita propria e non si può più fermare, o – detta altrimenti – che abbiamo aperto il vaso di Pandora, abbiamo perso il coperchio, ma amen, lasciamolo aperto e restiamo a guardare l’effetto che fa. Niente male come tacita confessione di impotenza per l’uomo del terzo millennio che si crede onnipotente.Iscriviti al canale Telegram
Effetti avversi sconosciuti
Tra l’altro le linee guida in esame non fanno affatto mistero della quantità dei rischi derivanti dalla adozione della IA nelle scuole e nemmeno della loro gravità. Si parla ripetutamente di rischi, così, in scioltezza, quasi come un intercalare. In fondo perché drammatizzare, se siamo di fronte all’inevitabile? I sistemi di IA vengono divisi, ai fini della diversa disciplina applicabile, in due categorie: sistemi ad alto rischio, se presentano una serie di caratteristiche espressamente elencate; sistemi non ad alto rischio tutti gli altri (categoria residuale). È bellissimo però che a un certo punto (p. 30), nel mezzo di un lunghissimo discorso sul trattamento dei dati personali – dove con ammirevole disinvoltura si elenca una serie interminabile e complicatissima di passaggi burocratici prescritti, che è prevedibile porteranno in manicomio più di qualcuno – si dice anche che le istituzioni scolastiche, in qualità di titolari del trattamento, tra gli adempimenti e i sottoadempimenti cui sono obbligate, devono procedere alla «esecuzione di una valutazione di impatto (DPIA)» sulla protezione dei dati personali «volta a individuare i rischi connessi al trattamento di dati». E poco più avanti si spiega che «la DPIA risulta necessaria in considerazione della innovatività dello strumento tecnologico utilizzato nonché del volume potenzialmente elevato dei dati personali trattati» (i grassetti sono nel testo originale). Infatti, continua il testo «il ricorso a tale nuova tecnologia può comportare nuove forme di raccolta e di utilizzo dei dati, magari costituendo un rischio elevato per i diritti e la libertà delle persone. Infatti le conseguenze personali e sociali dell’utilizzo di una nuova tecnologia potrebbero essere sconosciute» (qui il grassetto è nostro). Conseguenze personali e sociali sconosciute. Cioè, un salto nel vuoto, messo nero su bianco nei documenti ufficiali. La popolazione scolastica, composta in buona parte di minorenni, è travolta (ancora una volta) in un mega esperimento di massa condotto (ancora una volta) con prodotti dei quali è nota a priori la dannosità, la quale comunque potrebbe esprimersi in forme ulteriori ancora non note. Sostanze sperimentali – farmaci, droghe e simildroghe – inoculate nel cuore pulsante della società che fu democratica, ad effetto sorpresa: senza nemmeno un bugiardino e, quindi, senza un vero consenso informato possibile.Aiuta Renovatio 21
La partecipazione democratica è una beffa
Nonostante queste premesse, il ministero dà per scontato che tutti insieme appassionatamente partecipino al grande gioco di società apparecchiato in tutte le scuole d’Italia dalle aziende Ed Tech e dall’indotto che ne discende: un’orgia digitale collettiva alla quale nessuno deve sottrarsi. A p. 21 si afferma, sempre in modo assertivo, che «il processo di transizione digitale richiede un coinvolgimento sinergico e sistemico del dirigente scolastico, del direttore dei servizi generali e amministrativi, del personale tecnico, ausiliario, amministrativo, dei docenti, degli studenti, tenendo conto del diverso grado di sviluppo connesso all’età, e delle rispettive rappresentanze di tali categorie di soggetti, delle famiglie, degli organi di indirizzo e di gestione degli aspetti organizzativi in ambito scolastico (ad esempio i Consigli di Istituto)». Insomma, si tratta di allestire un balletto brulicante di ballerini improvvisati che saltellano sulla pelle di incolpevoli scolari tutt’intorno a una grande mangiatoia per predatori privati, più e meno corpulenti ma tutti parimenti affamati. Per non farsi mancare nulla, si suggerisce anche il coinvolgimento di stakeholder «attraverso la costituzione o l’adesione a parternariati, a reti di scuole, oppure stabilendo accordi con startup, università, istituti di ricerca, con approccio di ricerca-azione (…)». Dulcis in fundo, al fine di «facilitare il coinvolgimento di tutti gli attori nel processo di cambiamento», il ministero veste pure i panni del coach motivazionale e consiglia di predisporre un «piano di comunicazione strutturato», perché si sa bene che «una strategia operativa efficace facilita il consenso e motiva i singoli a contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni» (p. 24) e incoraggia «il senso di appartenenza, il clima positivo». Naturalmente per implementare tutta questa giostra, occorre che i docenti acquisiscano particolari «competenze digitali, approccio critico e attenzione a etica e professionalità, da sviluppare attraverso specifici percorsi formativi» (altra miniera d’oro, per i tenutari dei corsi). E così essi potranno finalmente accedere a un repertorio infinito di funzioni sostitutive delle proprie normali mansioni – fa tutto lei, e lo fa meglio di te – e predisporsi felici, in modalità suicidaria, alla soppressione prossima ventura della propria figura professionale. Questa enfasi sulla partecipazione, di interni ed esterni, vuole evidentemente dare una mano di vernice di simil-democrazia sopra un gigantesco apparato industriale – la scuola è la più grande industria al mondo di estrazione dati (cit.) – che con i connotati propri di un’istituzione pubblica, specie se di natura educativa, non ci piglia neanche di striscio. Forse a questo punto si può capire l’irritazione del lettore non conforme, al quale le linee guida si rivolgono come a uno scimunito che passa di là, pronto a farsi trascinare nelle danze dall’animatore del villaggio vacanze.Sostieni Renovatio 21
Il Paese dei Balocchi e il mantra del pensiero critico
Quanto al regno incantato che si spalanca davanti agli studenti, la sua descrizione è lussureggiante. La campagna pubblicitaria del ministero sulle prodezze della IA punta a coprire e far dimenticare tutte le magagne sui pericoli e gli inconvenienti che, al confronto, sono bazzecole. Basti pensare che l’IA (pp. 27 e 28): rende il processo educativo più coinvolgente, crea percorsi formativi su misura in linea con le esigenze individuali, permette di ampliare e diversificare l’offerta formativa adattandola agli interessi di ciascuno, dà supporto nella creazione di materiali didattici personalizzati; favorisce l’approfondimento di argomenti specifici, stimola la curiosità e il desiderio di apprendere e una naturale voglia di scoprire, potenzia le competenze digitali, fa diventare co-creatori attivi di contenuti, nonché futuri leader che definiranno il rapporto di questa tecnologia con la società, supporta nelle attività didattiche orientate nella produzione di contenuti. Ancora: l’IA è un facilitatore della curiosità intellettuale, capace di alimentare la voglia di esplorare, aiuta nella scomposizione di problemi complessi e nella analisi di varie tipologie di informazioni; semplifica l’integrazione delle conoscenze, evidenziando punti di interconnessione tra diverse discipline; individua fonti di approfondimento pertinente, crea simulazioni interattive e ambienti virtuali. Promuove l’autonomia: chatbot o piattaforme di apprendimento personalizzate permettono di ricevere assistenza senza essere vincolati dagli orari scolastici tradizionali, facilitando la gestione autonoma del tempo e delle risorse, approccio che sviluppa capacità di autogestione e competenze trasversali come il pensiero critico e la capacità di problem solving. Aiuta a rimanere coinvolti e motivati rendendo il processo di apprendimento continuo e interattivo e incoraggiando a identificare i propri punti di forza e le aree di miglioramento. Un panegirico che pretende dal lettore un atto di fede, mentre tocca vette spudorate di impostura. Contiene passaggi esemplari da sfruttare nelle lezioni di italiano (ci sono ancora, le lezioni? e l’italiano?) per spiegare il significato dell’ossimoro: l’Intelligenza Artificiale che promuove l’autonomia, facilita la gestione autonoma del tempo e delle risorse, sviluppa capacità di autogestione, il pensiero critico e la capacità di problem solving. Cioè: a delegare alla macchina pensieri, parole e opere, a esternalizzare le funzioni fondamentali in un prolungamento artificiale del corpo, uno conquisterebbe autonomia. Notare, tra l’altro, l’evocazione qua e là del pensiero critico, altra stucchevolissima formuletta magica (mantra numero tre), estratta dal cilindro del prestigiatore come il classico coniglio, per legittimare se stesso da un lato e per nobilitare qualsiasi ciofeca dall’altro. Basta spruzzare in giro, a casissimo, qualche «pensiero critico», e la coscienza va subito a posto, e ci si gode l’applauso assicurato del pubblico pagante. Ma non c’è solo il pensiero critico. Sparse per il testo, tutte le classiche esche per i benpensanti, quelle che piacciono alla gente che piace, sfoderate per il lancio del grande gioco di società a cui siamo tutti chiamati coattivamente a giocare. Ecco infatti che, per raggiungere i traguardi stellari elencati a più riprese nel documento, «è necessario che l’IA supporti la crescita personale e l’acquisizione di competenze autentiche, promuovendo l’apprendimento critico e creativo senza sostituire l’impegno, la riflessione e l’autonomia degli individui». Essa «deve promuovere un’innovazione etica e responsabile», essere utilizzata «in modo trasparente, consapevole e conforme ai valori educativi delle Istituzioni scolastiche italiane»; deve essere sostenibile nel lungo termine e «per traguardare (sic) questo obiettivo deve garantire un equilibrio nei tre pilastri della sostenibilità: sociale, economica e ambientale». In sintesi: l’AI promuove l’autonomia, stimola il pensiero critico, ma per raggiungere questi fantastici obiettivi deve promuovere l’autonomia e stimolare il pensiero critico. Una autolegittimazione tautologica e circolare, formulata per la stessa banda di presunti scimuniti cui si accennava sopra.Aiuta Renovatio 21
Accendere la resistenza
Viene da ridere, sì, ma poi sale la rabbia. L’onda d’urto di tanto delirio si abbatterà sui nostri figli se non ci predisponiamo a difenderli. Che dall’altra parte ci sia un grumo di potere non solo economico, ma soprattutto politico (nel senso che il suo intento egemonico sta nel controllare l’esistenza altrui e pilotarla a proprio uso e consumo) non è forse nemmeno il problema più grande. Il problema più grande è che la gente abbocca, anche se l’imbroglio è così plateale, e si lascia attirare nel girotondo per via di quel «piano di comunicazione strutturato» che funziona alla grande; oppure perché è semplicemente stanca, rassegnata, tanto da lasciarsi persuadere dalla narrazione truffaldina che fa leva sulla parola magica della «inevitabilità». E allora si convince a salire sulla giostra che gira sempre più forte, ma si sente rassicurata dall’essere «consapevole e responsabile», il tranquillante prescrittole dall’impresario circense. L’imposizione dell’IA ai nostri figli – proprio come è stato per l’mRNA – calpestando la Costituzione, uccidendo il diritto e disintegrando il concetto stesso di democrazia, mira dritto dritto al cuore della natura umana per colpire la sua integrità e un po’ alla volta sostituirla. Ma in pochi sembrano farci caso: la maggior parte obbedisce, zitta e mosca, al programma di sottomissione. E invece questo è proprio il momento della responsabilità. Dunque, che la forza sia con noi: con i docenti che non mollano, con i genitori che tengono ai propri figli, con gli scolari capaci di sopravvivere al trattamento loro riservato, e determinati a continuare a farlo per conquistarsi in premio una vita da vivere, e non da subire. Elisabetta FrezzaIscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Scuola
Elisabetta Frezza: tra raccolta massiva di dati e isolamento dei bambini «la scuola è il nuovo campo di sorveglianza»

La «scuola che cade a pezzi» continua senza freni il suo processo verso la digitalizzazione, con effetti tremendi sulle nuove generazioni.
Questo il pensiero di Elisabetta Frezza, intervistata da Gioia Locati, caso praticamente unico di giornalista della stampa nazionale che si occupa di temi come quello dei vaccini e della fecondazione in vitro con gli embrioni crioconservati.
In veste di responsabile di Scuola ContiamoCi!, racconta l’impatto della gestione pandemica sul sistema scolastico: isolamento, regressione cognitiva, medicalizzazione dell’ambiente educativo, eccessiva digitalizzazione e raccolta massiva di dati. Ancora più grave è l’oblio collettivo di quel trauma: nessuna spiegazione, riflessione pubblica o riconoscimento morale per una generazione che ha subito in silenzio.
Intanto, sotto il pretesto di «innovazione» e «personalizzazione», si rafforza un modello scolastico che rinuncia a trasmettere il sapere, sostituisce gli insegnanti con algoritmi e riduce gli studenti a profili digitali.
Un’analisi che – nel solco dei tanti interventi della Frezza su questo tema – esorta a riconoscere le precise cause del declino per poter cambiare direzione verso la salvezza dei nostro ragazzi programmati dal sistema per essere una vera gioventù terminale.
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Immagine screenshot da YouTube
Pensiero
Scuola, la tempesta sui nostri figli: dal terrore pandemico all’«educazione al consenso»

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