Gender
Il World Economic Forum ci informa che a parità di genere è ora lontana 132 anni
Le donne starebbero sopportando il peso maggiore dell’attuale recessione e della crisi del costo della vita. Ce lo rivela il World Economic Forum di Klaus Schwab.
Secondo un paper del club di Davos, la pandemia COVID-19 e i diversi shock economicistanno ostacolando la chiusura del divario di genere.
Nel suo Global Gender Gap Report 2022, il WEF ha stimato che, all’attuale tasso di progresso, ci vorranno 132 anni prima che uomini e donne raggiungano la piena parità, con il divario di genere globale che verrà colmato del 68,1%.
La ONG dello Schwab con sede a Ginevra ha notato che si tratta di un leggero miglioramento rispetto ai 136 anni previsti nel 2021, tuttavia ha affermato che c’è ancora molto lavoro da fare.
Secondo il documento, la pandemia ha peggiorato notevolmente la disparità di genere, perché ha colpito molti settori dominati dalle donne, tra cui l’industria dei viaggi, del commercio al dettaglio e del turismo.
«L’attuale recessione, a differenza dei precedenti crolli economici che tendevano a essere peggiori per gli uomini, è sproporzionatamente negativa per le donne», afferma il rapporto davosiano.
Allo stesso tempo, il Forum sostiene che la transizione verso un mondo equo di genere potrebbe essere accelerata attraverso salari adeguati per i lavoratori essenziali, investimenti nelle infrastrutture e responsabilizzazione politica.
La ricerca ha anche valutato vari continenti in termini di progressi nel percorso verso la parità di genere, con il Nord America e l’Europa che hanno chiuso oltre il 76% del loro divario di genere.
Altre regioni sono in coda, tra cui l’America Latina e i Caraibi (72,6%), l’Asia centrale (69,1%) e l’Asia orientale e il Pacifico (69%). La performance più bassa è stata dimostrata dall’Asia meridionale, che nel 2022 ha chiuso il 62,4% del suo divario di genere.
Il rapporto schwabbico ha altresì fornito una ripartizione per paese sull’uguaglianza di genere, dando il massimo dei voti all’Islanda e a diversi Paesi nordici, nonché a Nuova Zelanda, Ruanda, Nicaragua e Namibia.
Tuttavia, lo studio rileva che nessun paese ha raggiunto la Piena parità di genere.
È utile ricordare cosa è, almeno in apparenza, il World Economic Forum: un consesso di leader politici ma soprattutto del grande business delle multinazionali.
In un recente articolo di Renovatio 21, è stato rapidamente spiegato chi ha inventato il motore della dottrina della parità di genere, cioè il femminismo: le grandi aziende, le multinazionali, il grande capitale globale.
È il grande capitale a volere l’aborto, per creare una classe lavoratrice che, in attesa di poterla sostituire per sempre con robot, non abbia la distrazione della famiglia, e possa dedicarsi esclusivamente all’istituzione economica per cui lavora, senza l’impiccio di piccoli esseri umani, affetti personali non negoziabili, etc.
«Non puoi dirlo ad alta voce, ovviamente. Sarebbe troppo ovvio. Dacci gli anni migliori della tua vita e in cambio ti pagheremo quello che è effettivamente un salario di sussistenza in qualunque inferno urbano troppo costoso in cui risiediamo e poi ti prenderemo l’unica cosa che potrebbe dare alla tua esistenza un significato e gioia nella mezza età , che è avere figli» aveva riassunto Tucker Carlson.
Questo è, in breve, il perché il World Economic Forum – l’Olimpo del capitalismo terminale globale e della sua Necrocultura – si occupa di parità di genere, lanciando queste cifre esilaranti, imbarazzanti.
Come riportato da Renovatio 21, neanche gli dèi di Davos sono in realtà immuni alla vergogna: altrimenti non avrebbero fatto sparire l’articolo del 2018 vergato dal loro Agenda Contributor Ranil Wickremesinghe, il premier cingalese ora cacciato dal suo popolo inferocito. Il pezzo si intitolava «Come arricchirò lo Sri Lanka netro il 2025», ora sul sito del WEF non lo si trova più. Tuttavia in Sri Lanka potete trovare fame, blackout, debito internazionale, rivolte, morti alla pompa di benzina.
Cioè, il collasso della società. Non tra 132 anni. No, adesso, mentre leggete queste righe.
Gender
La donna più forte del mondo in realtà era un uomo
Jammie Booker, vincitrice del torneo «La donna più forte del mondo» 2025, è stata privata del titolo dopo che gli organizzatori hanno accertato che l’atleta di Philadelphia era nata maschio. La squalifica, l’ultima di una serie crescente di polemiche sui maschi biologici che gareggiano nelle categorie femminili, è arrivata a pochi giorni dalla competizione.
Il caso è esploso durante i Cerberus Strength Official Strongman Games in Texas lo scorso fine settimana, dove Booker ha dominato la categoria Women’s Open. Gli organizzatori hanno precisato di non essere stati informati in anticipo del background biologico dell’atleta e, a seguito di un’indagine urgente, l’hanno esclusa dalla classifica. «Abbiamo la responsabilità di garantire equità, assegnando gli atleti alle divisioni maschile o femminile in base al sesso alla nascita», si legge in un comunicato diffuso sui social da Official Strongman, che ha aggiornato i punteggi e incoronato la britannica Andrea Thompson come nuova campionessa.
La partecipazione di atlete transgender a competizioni sportive continua a generare dibattiti accesi. A luglio, il Comitato Olimpico e Paralimpico degli Stati Uniti (USOPC) ha vietato alle donne transgender di gareggiare nelle categorie femminili alle Olimpiadi, in linea con un ordine esecutivo del presidente Donald Trump che esclude le trans dalle squadre femminili e minaccia di tagliare i fondi alle istituzioni che lo violano.
Casi emblematici come quello della nuotatrice statunitense Lia Thomas e della sollevatrice neozelandese Laurel Hubbard hanno riacceso il confronto su eventuali vantaggi fisici persistenti per le atlete transgender rispetto alle donne biologiche, nonostante il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) abbia affermato nel 2021 che non si debba presumere un «vantaggio automatico» e abbia demandato le regole di idoneità alle singole federazioni sportive.
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La questione è tornata d’attualità alle Olimpiadi di Parigi 2024, quando la pugile algerina Imane Khelif – squalificata l’anno prima ai Mondiali per presunti motivi di genere – ha conquistato l’oro, spingendo l’ex presidente del CIO Thomas Bach a negare l’esistenza di un «sistema scientificamente solido» per distinguere uomini e donne nello sport.
Ora il CIO è orientato a escludere le donne transgender dalle categorie femminili alle prossime Olimpiadi, sulla base di una nuova politica di ammissibilità prevista per il 2026, come riportato dal Times all’inizio di novembre citando fonti interne. La revisione si fonda su una valutazione scientifica che conferma come i vantaggi acquisiti durante la pubertà maschile possano perdurare anche dopo trattamenti farmacologici per ridurre i livelli di testosterone.
Come riportato da Renovatio 21, l’ex presidente del CIO Thomas Bach sosteneva all’epoca che non esisteva «un sistema scientificamente solido» per distinguere tra uomini e donne nello sport.
Come riportato da Renovatio 21, il sollevamento pesi, come ogni altra disciplina (il nuoto, la maratona, il ciclismo, la BMX, l’hockey, il sollevamento pesi, il basket, il ju jitsu, etc.), era già stato colpito dal transessualismo sportivo. Lo è stato persino il biliardo in un’episodio noto, Alexandra Cunha, 49 anni, capitano della squadra nazionale femminile portoghese, si è ritirata dal torneo International Rules Pool Tour, incolpando i recenti cambiamenti alle regole da parte dell’autorità governativa dello sport, la World Eightball Pool Federation.
Come riportato da Renovatio 21, alle Olimpiadi di Tokyo vi fu il caso del sollevatore di pesi supermassimi transessuale Laurel Hubbard, 43 anni, che rappresentò la Nuova Zelanda a Giochi e riuscì, incredibilmente, a non vincere.
Due anni fa il pesista transessuale «Anne» Andres aveva stabilito il record nazionale durante un campionato durante il Campionato del Canada Occidentale 2023.
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La Corte UE ordina alla Polonia di riconoscere il matrimonio gay
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Studio della Sanità USA conferma i pericoli dei farmaci transgender e degli interventi chirurgici sui minori
Il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani (HHS) ha reso pubblico mercoledì un atteso rapporto sottoposto a revisione paritaria, che mette in guardia contro i rischi dell’«assistenza di affermazione di genere» per i minori, scatenando l’ira delle associazioni pro-LGBTQ+.
Lo studio, intitolato «Trattamento della disforia di genere pediatrica: revisione delle prove e delle migliori pratiche», si basa su un’analisi preliminare diffusa a maggio sui giovani con confusione di genere. Conferma che bloccanti della pubertà, ormoni di sesso opposto e interventi chirurgici provocano «danni significativi e a lungo termine, spesso trascurati o monitorati in modo inadeguato». Tra i rischi elencati: infertilità, disfunzioni sessuali, ridotta densità ossea, effetti cognitivi negativi, problemi cardiovascolari e metabolici, disturbi psichiatrici, complicanze operatorie e rimpianti post-trattamento.
Il segretario HHS Robert F. Kennedy Jr. ha appoggiato le conclusioni, accusando l’establishment medico di «negligenza». «L’American Medical Association e l’American Academy of Pediatrics hanno diffuso la menzogna che procedure chimiche e chirurgiche di rifiuto del sesso potessero giovare ai bambini», ha dichiarato in una nota. «Hanno tradito il giuramento di non nuocere, infliggendo danni fisici e psicologici duraturi a giovani vulnerabili. Questa non è medicina, è negligenza».
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Il rapporto giunge dopo l’ordine esecutivo firmato a gennaio dal presidente Donald Trump, che limita gli interventi di «cambio di sesso» per under 19, definendoli «mutilazioni chimiche e chirurgiche» mascherate da cure mediche necessarie.
Sempre più ospedali e medici stanno riducendo questi trattamenti: tra gli esempi, l’Università del Michigan, Yale Medicine, Kaiser Permanente, il Children’s Hospital di Los Angeles, UChicago Medicine e il Children’s National Hospital di Washington stanno eliminando o limitando bloccanti della pubertà e farmaci analoghi per i minori.
Negli USA circa 2,8 milioni di persone dai 13 anni in su si identificano come transgender, con la Gen Z che raggiunge il 7,6% tra chi si dichiara LGBTQ+.
Oltre al rapporto HHS, un’ampia letteratura scientifica indica che «affermare» la disforia di genere espone a pericoli gravi: oltre l’80% dei bambini la supera spontaneamente entro la tarda adolescenza, e anche una «riassegnazione» completa non riduce i tassi elevati di autolesionismo e suicidio tra chi soffre di confusione di genere.
Inchieste come quella del 2022 sulla Vanderbilt University Medical Center hanno documentato medici che promuovevano questi interventi pur consapevoli dei rischi, ammettendo in email e video che «fanno un sacco di soldi».
L’HHS ha precisato di aver invitato l’American Academy of Pediatrics e l’Endocrine Society a contribuire al rapporto, ma entrambe hanno declinato.
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Immagine di Gage Skidmore via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
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