Pensiero
Il sindacato del Nuovo Ordine Mondiale

Il video sta girando pazzamente su Telegram, quindi lo avrete visto.
La scena rappresentata è molto semplice: un comizio del 1° maggio di Landini, capo CGIL con cravatta rossa, attorniato da fedelissimi alternativamente con fazzolletto rosso al collo o mascherina rossa.
Landini parla di guerra (enunciando il teorema per cui la pace è «sconfiggere la logica di Putin», qualsiasi cosa voglia dire) e vaccini, sostenendo che investire in armi invece che nella sierizzazione di tutti i Paesi è una cosa sbagliata, cui bisogna rimediare.
Poi sgancia la formula magica, quella che tutte le antenne drizzare fa:
«… Vuol dire affermare un Nuovo Ordine Mondiale».
????1 MAGGIO 2022.
Landini parla di NUOVO ORDINE MONDIALE spudoratamente…non riesco a crederci… pic.twitter.com/z6ye0x0iH6
— jac (@JacPr4185774) May 2, 2022
Patapum.
Prendete il più grande artista del pianeta, Mel Gibson. Egli nel 1997 fece un film, titolo italiano Ipotesi di Complotto, che apriva proprio con un suo monologo sul tema di quelli che usano in pubblico l’espressione.
Il personaggio da lui interpretato, un tassista reso paranoico da esperimenti del programma di controllo mentale MK-Ultra (tutto verissimo: e qualche rivolo chissà che non sia arrivato anche da noi, nelle manipolazioni delle mente specie infantili viste di recente) dichiara che è impossibile che George Bush senior, in un suo discorso del 1990, abbia parlato di New World Order senza aspettarsi che una massa di persone che riconoscono l’espressione non si agitino assai. Perché, sia pure da nicchie, sono diversi decenni che c’è chi riconosce l’esistenza di un piano per un Nuovo Ordine Mondiale, e che non può sobbalzare ad ogni sua pubblica invocazione.
Bush 41 parlava degli Stati ex sovietici, e la cosa oggidì cade proprio a fagiuolo. Scandì le parole con tale chiarezza, con tale solennità, che un gruppo musicale dell’epoca, i Ministry, ci dedicò un memorabile pezzo di industrial-metal, chiamato appunto N.W.O., dove la voce di Bush padre era campionata e ripetuta macchinalmente. «A New World Order… A New World Order… A New World Order».
Bush padre mica era il solo. Nel corso di questi decenni la formula hanno pronunziata. Il presidente americano Woodrow Wilson. Winston Churchill. Henry Kissinger. Gordon Brown. Papa Benedetto XVI. Recentissimamente, A New World Order. Poi, ovviamente Bergoglio.
Ora nel club dei grandissimi arriva anche il Maurizio Landini, una carriera a capo degli operai metallurgici FIOM ora a capo del più acuminato dente della triplice. Su Wikipedia ci informano che il padre era «attivo nella Resistenza», e lui ha dovuto lasciare l’istituto geometri per «contribuire al sostentamento famigliare» per poi, negli anni Ottanta (quaranta anni fa!) smettere di lavorare per impegnarsi a tempo pieno dentro la struttura sindacale.
Ecco: bisogna avere fiducia nel sogno sindacale italiano: Landini ora è qualcuno che può dire in pubblico, su un palco attorniato da tizi che fanno di sì con la testa, «Nuovo Ordine Mondiale». Come i presidenti americani, come i papi.
Che bello sentire quest’espressione così netta, così carica di storia per tutti noi. Sono colpi di sincerità di cui essere grati. Sono quadretti che colpiscono indelebilmente il nostro cuore: abbiamo in Italia il sindacato del Nuovo Ordine Mondiale.
Non che non vi fossero già i segni, e da prima della pandemia.
Quattro anni fa Renovatio 21 già notava la strana tendenza dei sindacati a favorire le vaccinazioni, in particolare quelle degli anziani. Campagne di comunicazioni martellanti per i pensionati da sottoporre alla siringa – quegli stessi vecchietti che fini a pochi anni fa era medicalmente blasfemo proporre di inoculare. E invece, il paradigma, già prima del COVID, cambiava in fretta… e con
Non è la sola briciola che abbiamo raccolto nel percorso.
La primavera scorsa, nella giornata mondiale contro l’omotransfobia (c’è: il 17 maggio) la CGIL disse che il DDL Zan andava approvato senza modifiche, organizzando un solenne webinario alla presenza della «responsabile Politiche di genere della CGIL nazionale Susanna Camusso, i e le capogruppo del M5S, del PD e del Gruppo Misto al Senato –(…) e rappresentanti delle Associazioni LGBTI+».
Andiamo oltre.
Nel 2016 la CGIL portò l’Italia davanti davanti al Consiglio d’Europa, ove veniva lamentata l’applicazione dell’obiezione di coscienza come limite inaccettabile per il ricorso all’aborto.
In pratica: era messa in dubbio una facoltà del lavoratore, quella di lavorare secondo la propria coscienza, di fronte al diritto al feticidio, che per qualche motivo interessa il sindacato. La facoltà di astenersi da un lavoro ritenuto contrario alla propria coscienza dovrebbe essere una battaglia dell’ente preposto a difendere e potenziare i diritti del lavoratore: pensiamo, ad esempio, a quanti si sono recentemente rifiutati di caricare «aiuti» per l’Ucraina che invece erano armi.
E invece, il sindacato fa il contrario di quello che ti aspetti.
È successo, nello showdown definitivo della storia sindacale, con il COVID. Non possiamo dimenticare la lettera con cui i capi della triplice dicevano a Draghi di procedere con il green pass – ossia la più grande violazione dei diritti dei lavoratori mai esperita dalla Repubblica, con disintegrazione patente dell’articolo 1 della Costituzione.
Di più: nella loro lettera a Draghi, essi si dimostravano più draghiani del drago. Di fatto, invocano l’obbligo totale, l’mRNA per tutta la popolazione nazionale.
«In particolare Le ribadiamo il nostro assenso ad un provvedimento che, in applicazione della nostra Carta, il Governo decida di assumere finalizzato a rendere la vaccinazione obbligatoria quale trattamento sanitario per tutti i cittadini del nostro Paese».
Testuali parole. Di mezzo, lo capiamo, c’era la possibilità di sedersi con politici e industriali al tavolo del PNRR.
Ora, bisogna sapere che tra quei pazzerelli che credono nel Nuovo Ordine Mondiale, è diffusa da decenni l’idea che esso passerà attraverso un mutamento della riproduzione umana, in particolare tramite il controllo delle nascite, cioè la contraccezione e l’aborto. Celo.
Il controllo della popolazione, hanno detto dal giorno uno i complottisti del NWO stile Alex Jones, si servirà dei vaccini e dei loro obblighi. Celo.
La questione degli omotransessuali plus: ricordiamo il libro di Ralph. A. Epperson New World Order del 1990.
«I matrimoni omosessuali saranno legalizzati; ai genitori non sarà permesso crescere i propri figli (lo Stato lo farà;) tutte le donne saranno impiegate dallo Stato e non potranno più fare le casalinghe; il divorzio diventerà estremamente facile e il matrimonio monogino verrà gradualmente eliminato».
Quindi, il sindacato femministo-gender-NWO, celo pure lui.
Di dubbi di cosa sia diventato il sindacato ne abbiamo pochi. E di enti pubblici e privati che sono passacarte del padrone del mondo ce ne sono oggi a BZF.
Tuttavia, come non notare come oggidì tutto sia spudorato, slatentizzato, osceno, dall’etimo greco, fuori scena. Non è più nemmeno un teatrino.
Oramai la questione della rappresentazione è superata da un pezzo. Non hanno bisogno di dissimulare un granché. Ve lo abbiamo detto, ve lo ripetiamo: nessuno ha intenzione di parlare con voi, ripetono solo qualche storiella per la massa vaccina, quella che ancora li segue ruminando il salario e magari al massimo muggendo per tre secondi mentre la si porta al macello.
E ancora: quei minions che fanno andare su e giù la testa quando gli si dice che «essere contro la logica di Putin (…) vuol dire affermare un Nuovo Ordine Mondiale» ci fanno venire un pensiero abissale: vuoi vedere che, davvero, Putin è un’impaccio dal Nuovo Ordine Mondiale? Vuoi vedere che il Paese che ha rifiutato l’imperativo globale l’mRNA e si sta scontrando con un Paese dove stavano introducendo l’app elettronica del controllo totale della cittadinanza, magari davvero qualche problema lo sta creando ai padroni del vapore? Vuoi vedere che Putin è l’ultimo tappo da far saltare perché vinca il mondialismo della fine dei tempi?
Sono pensieri che, ad una certa, saltano fuori da soli.
Tuttavia, senza sondare abissi metastorici e metapolitici e pure metageopolitici, ci basta pensarla in termini molto sintetici.
Il nuovo paradigma delle cose prevede il «restringimento» dei diritti dell’individuo. O meglio, la loro cancellazione – i due anni di restrizioni pandemiche servono a questo.
Come abbiamo ripetuto, la trasformazione del cittadino da avente diritto ad utente (che al massimo gode di un accesso deciso dalla piattaforma) è pressoché completa. Lo Stato non esiste più come emanazione del popolo; il popolo esiste in quanto concessione dello Stato. Ribaltamento assoluto.
I diritti, lo stato di diritto, hanno perso la loro sacralità. Sono sospendibili, eliminabili. Il diritto non nasce con il cittadino, viene elargito, al massimo come facoltà temporanea, dal potere costituito.
Si tratta della disintegrazione, concettuale e fisica, della democrazia costituzionale. Lo abbiamo ribadito varie volte: le carte alla base delle varie «democrazie liberali» (USA, Germania, Italia) sono uscite dalla pandemia strappate in mille brandelli.
Ad esempio, la democrazia costituzionale italiana è basata su una carta chiamata, appunto, «Costituzione», con la C maiuscola. La Costituzione italiana, a lungo celebrata nella sinistra politica e sindacale come «la più bella del mondo» – sì, quella che all’articolo 1 parla di «Repubblica fondata sul lavoro» – è stata annichilita dall’urto pandemico.
Il lavoro non conta più. Il diritto non conta più. La Carta non conta più. Conta solo il potere e la sua imposizione. Cioè, la sottomissione della persona umana.
Questo è, tecnicamente, il più concreto effetto del cambio di paradigma globale che volendo possiamo chiamare Nuovo Ordine Mondiale.
Ora, è il caso di chiedersi chi abbia dato una mano ad arrivare fino a qui.
I camerieri della Cultura della Morte abbondano. Per quanto, ancora non sappiamo.
Roberto Dal Bosco
Immagine di Bablu Miah via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)
Pensiero
Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.
Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.
Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…
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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.
L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.
Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)
Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)
Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.
È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.
Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).
Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.
A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.
Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.
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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.
Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.
Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.
Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.
La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).
Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)
Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.
Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).
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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.
La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.
La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese


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Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0






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Geopolitica
«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».
Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.
«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».
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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».
Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».
L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».
L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».
La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».
«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».
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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.
Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».
Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.
Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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