Pensiero
Il ritorno del sacrificio umano in Ucraina, spiegato bene

La settimana scorsa è apparso in rete questo bizzarro, inquietante video.
Con probabilità, il lettore lo ha già visto. Su uno sfondo digitale, fatto di cielo e di campi di grano – i colori della bandiera ucraina – una ragazza agghindata con solenni vesti tradizionali declama parole poetiche, per poi sgozzare quello che, da quel che ci è dato di capire, è un uomo russo.
Moltissimi di coloro che lo hanno rilanciato – compresi alcuni grandi analisti internazionali – hanno detto che si trattava di una sorta di Pubblicità progresso del potere ucraino. Non sembra essere così: pare essere opera di un’attrice, originaria di Leopoli. La fattura del video è compatibile con uno studio di posa domestico o di modeste dimensioni, nonostante sia visibile uno sforzo produttivo non estemporaneo (trucco e parrucco, costume, luci, etc.).
Il video è stato caricato per la prima volta sul profilo Instagram dell’attrice ucraina. L’account è stato poi chiuso.
Questo filmato, caricato con sottotitoli in vari canali su YouTube e Twitter, ha cominciato rapidamente a sparire.
Alcuni soldati russi hanno già reagito.
Nei canali Telegram legati all’Operazione Z si è diffuso un video in cui alcuni soldati al fronte dicono che l’attrice dovrebbe rimanere a casa, e se la prendono con gli uomini ucraini, che mandano avanti le donne a parlare di queste cose.
Parole che qui, nel metaverso NATO, sono oramai illegali: «Non vi vergognate che le donne parlino per voi?»
Dicono che devono essere i valori europei verso cui gli uomini ucraini ora tendono. Anzi, si chiedono: ci sono ancora uomini in Ucraina?
ISIS nazi-pagana
Vari commentatori occidentali hanno subito collegato il videosgozzamento ucraino all’ISIS.
Et pour cause: è piuttosto facile che gli autori del video non se ne rendessero conto, ma si tratta esattamente della stessa pulsione – esibire dinanzi al mondo il proprio zelo sfrenato, con il nemico in ginocchio, in un atto arcaico, sacrificale.
Il nemico è disumanizzato, reso bestia – da sgozzare, appunto, come un agnello, come un capretto, come un maiale, in un antico atto alimentare e religioso. L’omicidio produce brivido, fierezza piacere.
Sì, decisamente assomiglia ai video dello Stato Islamico.
ISIS ؛ made by U.S
Ukraine ؛ supported by U.S pic.twitter.com/xs5huMive9— Fatemeh Abv ???????? (@fa_abv) April 11, 2022
Questo sito ha parlato da subito al fatto che l’Ucraina, con le sue fiammate neonaziste vendute come poesia romantica dai giornali occidentali, era di fatto parte di un programma del tutto simile a quello subito da siriani e iracheni. La radicalizzazione. La zeloteria. La sete di sangue. Lì, il wahabbismo, l’islamo-nichilismo assassino. Qui, il nazismo, più qualche sfumatura di paganesimo paleoslavo.
L’Ucraina è il territorio di coltura di un’ISIS neonazista, non v’è dubbio. Sappiamo bene che, qualora dovessero sopravvivere al conflitto, ci ritroveremo molti dei suoi uomini qui a generare caos. Oppure riassorbiti in qualche altro conflitto – l’ex ispettore ONU Scott Ritter ritiene che, addestratissimi dalla NATO come sono, i battaglioni ucronazisti sono ora piazzabili in qualsiasi forza, ufficiale o meno, del Patto Atlantico.
La ragazza tagliagole è un primo segno di maturità mediatica di questa ISIS slava, creata sinteticamente dai soliti noti. Certo.
Tuttavia non è di questo che vogliamo scrivere qui. Vogliamo trattare un tema più profondo. Proibito.
Il ritorno materiale degli dei
Guardate bene il video. La ragazza è più di una ragazza: è calma, ieratica. Sulla testa una elaboratissima corona di fiori, che sa di qualche tradizione locale millenaria.
L’effetto della visione, unita ai campi rigogliosi dietro di lei, ci fanno pensare decisamente ad una figura divina, ad una dea: Cerere, dea della fertilità, dei fiori, della frutta e dei raccolti. In Grecia è conosciuta come Demetra. È la madre di Prosperpina, Persefone per i greci – la dea della crescita del grano, rapita da Ade, dio dell’ombra e della morte, signore del sotterraneo che chiamiamo, per estensione, sempre «Ade».
Alla fine del filmato, il commiato ci riporta proprio qui: «dobro pozhalovat’ v Ad», benvenuti all’Inferno, dove quest’ultimo è reso con la parola russa, classicamente risonante in ogni europeo mediterraneo ma non solo, «Ad».
Sì, è effettivamente l’immagine di una dea. La sua flemma, il suo pallore… quelle labbra, che sembrano piene di lividi, o forse… si tratta di un pasto vampiresco?
Non stiamo proiettando significati nostri. È la signora dei campi che, ad un certo punto, comincia a parlarne, quando dice che «qualcosa che dormiva da secoli nelle profondità del fiume Dnepr … il dio iniziale ed antico dell’Ucraina» si è svegliato.
«E ora stiamo raccogliendo il nostro raccolto di sangue», dice questa dea dei campi, della fertilità e della morte.
Una divinità arcaica è stata fatta tornare sulla terra. E ora esige il suo tributo di violenza, una violenza che è necessaria, che è sacra.
Un’immagine migliore della ripaganizzazione del mondo non potevamo trovarla. Perché qui si va molto nel dettaglio: non si riesuma un rito, un mito… ma un dio, una dea, un essere antropomorfo, vivente, intelligente.
Non una mera forza storica o naturale – no, si tratta di una persona. Sia pure, una persona non umana…
Non ho inventato io questa storia del ritorno materiale degli dei. Il lettore la può trovare romanzata nel libro di Neil Gaiman American Gods, e più ancora dalla serie che ne hanno tratto, dove vediamo miriadi di divinità minori vivere tra noi, in cerca di adorazione e sacrificio.
Il ritorno degli dèi: in Italia vi è una prestigiosissima casa editrice che si occupa solo di quello. Tanta fumisteria della destra tossico-narcotica, da Evola a De Benoist, ne ha scritto in modo fremente. Ma soprattutto, colui che ha preparato il campo per questo tipo di pensiero è lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung, che per qualche oscura ragione riuscito a scampare, al momento, alla cultura della cancellazione.
Jung scriveva di archetipi, cioè di forme di rappresentazione psichiche preesistenti all’individuo e comuni a tutte le culture del mondo. L’allievo ribelle di Freud è tuttora celebrato per l’idea di questa grammatica di simboli dietro ogni vita umana, individuale e collettiva.
La realtà è che Jung, personaggio esoterico assai, probabilmente nutriva pensieri più radicali sul tema. Nel 1937, Jung scrisse che «un medium (…) il portavoce degli antichi Dei». E ancora «Non c’è dubbio che Hitler appartenga alla categoria dello stregone veramente mistico (… Hitler è un vaso spirituale, una semidivinità o, ancora meglio, un mito».
Quale divinità sia coinvolta nella tumultuosa Germania degli anni Trenta Lo Jung – che una biografia americana definisce «profeta ariano» – lo spiega con chiarezza nel saggio Wotan, che è il nome germanico di colui che da questi parti chiamiamo Odino:
«Siamo sempre convinti che il mondo moderno sia un mondo ragionevole, basando la nostra opinione su fattori economici, politici e psicologici. (…) In effetti, azzardo il suggerimento eretico che le profondità insondabili del carattere di Wotan spieghino più del nazionalsocialismo di tutti e tre i fattori ragionevoli messi insieme».
«Un movimento collettivo è composto da milioni di individui, ognuno dei quali mostra i sintomi del Wotanismo e dimostra così che Wotan in realtà non è mai morto, ma ha conservato la sua originaria vitalità e autonomia. La nostra coscienza immagina solo di aver perso i suoi dèi; in realtà sono ancora lì e basta una certa condizione generale per riportarli in pieno vigore».
Di solito, a questo punto, agli scettici si fa vedere un dipinto del pittore simbolista Franz Von Stuck (1863-1928). Il quadro si chiama Die Wilde Jagd, la «caccia selvaggia»: secondo il mito nordico, un corteo di creature preternaturali guidato da Odino, che viaggia per il cielo o per la terra come in una grande battuta di caccia. Chi testimonia la caccia selvaggia può essere rapito e portato nel Regno dei Morti, oppure deve aspettarsi l’arrivo di una catastrofe.
L’opera è datata 1889. È decisamente impossibile non vedere che nel ruolo di Odino è rappresentato quel famoso personaggio, non ancora dimenticato (specie da certi ucraini), che era nato proprio nel…1889.
Qualcuno lo considera un quadro profetico: c’è la visione di schiere ctonie che portano morte e catastrofe sulla terra, e il volto dell’uomo attraverso il quale passerà tanta parte del disastro.
A noi serve per ricordarci quello che diceva Jung. Gli dei vogliono tornare a vivere. Gli dei demandano per loro un tributo di sangue.
Il ritorno degli dèi quindi ha come immediato effetto il ritorno del sacrificio umano.
Pensatela così: gli dèi sono scacciati dalla terra con l’arrivo di Cristo. Egli sulla croce compie di fatto l’esorcismo definitivo: non sono più gli umani a dover far sacrifici alla divinità, ma è Dio stesso che si sacrifica per gli umani. Dopo Gesù più nessun sacrifizio, nemmeno quello animale, è necessario: anzi, egli continua a sacrificarsi per i suoi figli ogni giorno ed in ogni latitudine tramite la Santa Messa, che è ripetizione materiale del sacrificio di Dio per l’uomo.
Nel mondo pagano valeva precisamente l’inverso: gli uomini doveva sacrificare alla divinità, preferibilmente quanto c’è di più prezioso: la vita umana. Magari, la vita dei loro stessi figli, dei primogeniti. Laddove c’è il paganesimo, c’è il sacrificio umano. Fra gli Aztechi come a Cartagine con Moloch, con Baal, con il Faraone, a Roma, nei misteri greci. Tuttora, mi raccontarono sottovoce a Calcutta, succede per il culto segreto della dea Kali.
Dove ci sono gli dèi, c’è la necessità di versare per loro il sangue degli esseri umani. Dove c’è Cristo, vi è l’esatto contrario: non la determinazione a portare la morta, ma a generare la vita. Questo semplice assunto è una delle basi di quella che chiamiamo Necrocultura, la Cultura della Morte di cui parlava Giovanni Paolo II.
Resettare e ripaganizzare
In pratica, questo è ciò che sta succedendo in Ucraina. Questo sito è stato l’unico a parlare e ad insistere sul fatto che il battaglione Azov avesse eretto a Mariupol’ un templio al dio del tuono degli antichi slavi – secondo il paganesimo rodnoverico – Perun.
La ripaganizzazione del Paese è il risorgere di un demone antico pronto a riprendersi quella fetta di umanità. Ciò che esso farà e invertire completamente l’insegnamento di Cristo – ama il prossimo tuo come te stesso. In termini pratici, ciò significa la disintegrazione della dignità umana. Il prossimo tuo diventa non un nemico da sconfiggere, ma un suino da sgozzare, da offrire alla divinità risvegliata come raccolto di sangue: il video qui sopra dice proprio questo, letteralmente.
Senza la barriera – il katechon, direbbe qualcuno – della dignità umana, ogni forma di massacro è possibile: non solo quella del nemico, ma anche quella dell’amico. Perché, gli dèi sono in fondo indifferenti al tributo di morte che gli si offre, anzi… ricordiamo come a loro piacciano i primogeniti, le vite più vicine al cuore di chi intraprende il sacrificio.
Ecco perché facciamo fatica a credere alle storie dei massacri perpetrati dai russi, mentre con più facilità ascoltiamo le storie, come quelle raccontata da Patrick Lancaster, delle forze ucraine che sparano sui loro stessi civili per impedire loro di scappare (di modo da non avere più scudi umani), che nascondono armi e carroarmati fra i condomini, che piazzano cecchini sui palazzi residenziali, che usano le scuole come basi…
I russi – e i ceceni – non si sono piegati alla risorgenza maledetta degli dèi del male. Almeno, non ancora. Un cristiano, un musulmano, anche un laico (che ha vissuto, cioè, in una società informata dalla Civiltà cristiana) di suo non si dovrebbe lasciar andare alla crudeltà, neppure in guerra (con certe evidenti, patologiche eccezioni).
La crudeltà diviene generalizzata quando una cultura (uno… spirito) di morte è stato insufflato nei loro animi. Quando qualcosa li spinge verso il compimento del sacrificio umano.
Esso diviene la legge. Non è qualcosa di cui vergognarsi, anzi. La cattiveria del massacro diventa un vanto. Avete visto anche voi quel video di soldati ucraini che chiamano le mamme dei soldati russi morti per canzonarle. Qualcosa del genere è semplicemente indefinibile, spiegabile solo se pensiamo che ci si sia votati ad una divinità mortifera e ingannatrice, uno spirito del caos seminatore di dolore, un trickster…
Non credo si tratti di un fenomeno solo ucraino: un dio della morte si era svegliato nella Germania degli anni Trenta, qualcosa del genere deve aver danzato nel cuore dei Balcani nell’ultimo decennio del Secondo Millennio… In Sri Lanka, i Tamil, che tanto hanno sofferto sotto il tallone della buddocrazia genocida di Colombo, ad un certo punto, si narra, si sono messi a pregare la dea Kali, «madre della guerra». Poramma…
Tuttavia, l’Ucraina è ora l’avanguardia planetaria per la ripaganizzazione, e il ritorno del sacrificio umano – cioè per il più grande pericolo per la Civiltà come la conosciamo.
Non è un caso che essa sia il luogo in cui è risorto il nazismo: ossia, il regno del controllo totale sull’essere umano, dell’eugenetica, dei campi di concentramento, dello sterminio secondo la volontà del più forte – tutte cose che sono incontrovertibilmente vere anche per il mondo moderno, in ispecie in questi ultimi tempi. Si dice che il modello di Hitler venisse dall’America (come del resto il suo danaro…).
In realtà, il III Reich, dalla lotta contro il cancro all’animalismo, dall’eliminazione degli handicappati (che oggi si fa con l’eutanasia, o le diagnosi prenatali pagate dalla regione) alla propaganda martellante, dal culto del corpo al sogno del bambino perfetto è stato il pieno percursore della realtà che stiamo vivendo.
No, non ci stupiamo di niente: come diceva quello, il demone non se ne va mai via davvero, sta sempre lì sotto. Basta solo, evocarlo.
E chi lo ha evocato, per l’Ucraina? Se leggete Renovatio 21 qualche risposta un po’ ce la dovreste avere.
Così come dovrebbe esservi chiaro del perché il sacrificio umano stia tornando proprio lì: perché (lo abbiamo scritto, lo ripetiamo) una certa parte degli ucraini è stata resettata. Hanno detto loro che non sono pienamente slavi, sono germanici. Non devono niente alla Russia, il loro futuro è l’Occidente. Li hanno impoveriti, li hanno fatti impazzire – mentre qualcuno si ingrassava schifosamente. Hanno preso gli ultras (un gruppo sociale la cui determinata coesione, come abbiamo visto nella Yugoslavia di Arkan, è utilissima nel momento del collasso) e ne hanno fatto, a suon di addestramenti angloamericani, dei guerriglieri spietati.
Gli ucraini resettati, abbiamo visto, stavano divenendo i primi a dotarsi di una app che governava, dal telefonino, tutte le loro vite, la stessa dove lo Stato poteva infilarti qualche soldo ogni volta che ti sottoponi al programma di vaccinazione COVID. Anche qui, notiamolo: pura avanguardia di ciò che sta per toccare a noi,
Agli ucraini hanno fatto ciò che sta per toccare a noi. Ed è per questo che gli Stati ci invitano a prenderli a modello, anzi, ci sostituiscono con essi…
Torniamo agli dèi del sangue. Anni fa feci a Rimini una conferenza per la Fraternità San Pio X dove coniai la parola «geodemonologia». Una parola che praticamente ho usato solo io: se la scrive su Google vi esce solo quella relazione, «Geodemonologia e salvezza planetaria», e ipotizzavo, con umiltà e misura, quanto ho scritto sopra: la realtà dei demoni che, lungo la storia, arrivano a riprendersi, e a guidare, intere nazioni. (Echi di questo discorso, sono in un altro articolo pubblicato qui)
Il caso, ora, è esattamente questo. Non sappiamo ancora con certezza il nome di quello che si sta riprendendo gli ucraini. Perun, Veles, Zhiva, Rugiaevit, Porevit, Devana, Morana… Chernobog, il dio oscuro finito nell’arte di Mussorgorsky e Walt Disney, il cui Monte Calvo sarebbe il colle boscoso Lysa Hora, appena fuori Kiev.
Potete capire però di cosa si tratta: di un processo di possessione della Terra.
I nostri sacrifici umani sono legge
L’altra sera ho intravisto l’ultima parte di Report. Con il consueto tonitruante afflato del giornalismo d’inchiesta che disvela ogni retroscena, spedivano i loro inviatini più o meno irsuti e erremosciati in giro per il mondo: ecco il tedesco con la faccia ecologica che dice che il Nord Stream 2 fa schifo, ecco il mister X russo che da un porto di Cipro non vede l’ora di dire a Rai 3 gli affaracci del gas, ecco Prodi invecchiatissimo che ammette che gli ucraini rubavano dai gasdotti, ecco ricicciata l’intervista dell’uomo ENI defunto da anni, e qualche filmato dall’impianto in Kazakistan…
La morale di tanto sforzo era: non avete capito nulla, la guerra si fa per il gas, altro che ideologia, nazionalismo, NATO etc. Dietro a tutto questo c’è solo il soldo dell’idrocarburo, punto. È il vecchio, immortale ritornello marxista, ma anche liberista: l’economia è il motore della storia. Follow the money.
Mi sento di rigettare in toto questa visione infantile. Io guardo la dèa che sgozza l’uomo russo, e penso che l’unica economia che conta per la Storia umana è quella fatta dal Bene e dal Male. Non il dollaro, il rublo, lo yuan, non l’oro e il petrolio: l’unica moneta che conta davvero è la vostra anima.
Gli antichi dèi stanno tornando per riprendersela. Stanno tornando per giocarsela, per spendersela come vorranno. Per farlo, devono cancellare la vostra umanità.
E non crediate che si tratta solo di questa piccola guerra ai nostri confini: essa è solo il momento in cui, abbiamo visto, certi esseri possono divenire più visibili.
No, la guerra va avanti da tanto, tanto tempo.
I sacrifici umani avvengono in questo stesso momento negli ospedali, nei laboratori. Persone squartate dopo un incidente stradale, mentre ancora batte loro il cuore, imbottiti di curaro. Neonati trucidati nel ventre materno, sempre più grandi, fino alle proposte, oramai realizzate, di «aborto post-natale», cioè di infanticidio vero e proprio. Milioni di embrioni umani prodotti in provetta, esaminati, scartati, congelati, ora pure manipolati. E ancora più vicino: pensate a quanti morti stiamo vedendo dopo l’avvento dell’mRNA, distribuito possibilmente in ogni corpo umano del pianeta.
I demoni della Necrocultura ci hanno dichiarato guerra da mo’. E i loro sacrifici umani sono per noi, letteralmente, legge.
Cara ragazza, te lo dobbiamo dire: è un po’ che siamo all’inferno.
Roberto Dal Bosco
Immagine screenshot da Twitter, modificata
Pensiero
Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.
Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.
Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…
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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.
L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.
Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)
Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)
Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.
È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.
Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).
Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.
A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.
Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.
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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.
Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.
Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.
Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.
La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).
Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)
Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.
Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).
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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.
La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.
La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
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Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese


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Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0






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Geopolitica
«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».
Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.
«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».
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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».
Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».
L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».
L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».
La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».
«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».
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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.
Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».
Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.
Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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