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Il presidente Weah ammette la sconfitta nel voto in Liberia. Eletto uno del giro amico di Soros

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Il presidente liberiano George Weah ha ammesso la sconfitta al suo rivale Joseph Nyuma Boakai dopo una dura competizione al secondo turno delle elezioni presidenziali.

 

La dichiarazione di Weah, ex campione di calcio noto per aver militato in Italia nel Milan, è stata salutata come un esempio storico di democrazia e una fonte di sollievo per la Liberia. Il Paese è stato segnato da una brutale storia di guerra civile e la regione dell’Africa occidentale ha vissuto sconvolgimenti politici e colpi di stato negli ultimi anni.

 

Il presidente Weah ha ottenuto il 49,11% dei voti nel ballottaggio del 14 novembre, mentre il leader dell’opposizione Boakai ha ricevuto il 50,9%, secondo i risultati del 99,58% dei seggi elettorali, ha annunciato venerdì la Commissione elettorale nazionale (NEC).

 

In un discorso trasmesso alla radio nazionale dopo l’annuncio della NEC, l’ex attaccante rossonero ha detto di aver parlato con il «presidente eletto» Boakai per congratularsi con lui per la sua vittoria.

 

«Questo è il momento della gentilezza nella sconfitta, il momento di porre il nostro Paese al di sopra dei partiti e il patriottismo al di sopra degli interessi personali», ha detto Weah, esprimendo il suo «sincero impegno a lavorare» con il Boakai per il «miglioramento» della Liberia.

 

«La vicinanza dei risultati rivela una profonda divisione all’interno del nostro Paese. Mentre passiamo alla nuova amministrazione Boakai, dobbiamo essere vigili rispetto ai pericoli della divisione e lavorare insieme per trovare un terreno comune», ha aggiunto l’ex milanista divenuto capo di Stato africano.

 

L’accettazione della sconfitta da parte di Weah pone le basi per il secondo trasferimento pacifico del potere da parte dello stato dell’Africa occidentale in più di 70 anni, il primo dei quali è avvenuto quando è stato eletto con una vittoria schiacciante sei anni fa.

 

L’ex calciatore diventato politico è stato eletto presidente nel 2017 durante la prima transizione democratica del governo della Liberia in settant’anni, ottenendo il 60% dei voti al secondo turno contro l’ex vicepresidente, lo stesso Joseph Boakai. Il Paese africano ha dovuto affrontare due devastanti guerre civili tra il 1989 e il 2003, che hanno ucciso 25.000 persone, nonché un’epidemia mortale di Ebola nel 2016.

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La presidenza dell’ex campione del Milan è stata segnata da accuse di corruzione, con i critici, compreso il suo avversario, che lo hanno accusato di non aver mantenuto le promesse chiave della campagna elettorale e di aver portato la Liberia in difficoltà economiche.

 

Boakai, che è stato vicepresidente sotto Ellen Johnson Sirleaf, la prima donna africana eletta capo di stato, dal 2006 al 2018, si è impegnato a mantenere le sue promesse durante una funzione religiosa domenica nella capitale della nazione, Monrovia.

 

«Questo è ciò che sto dicendo a questa congregazione e all’intera nazione: questo è ciò che sono chiamato a fare, e lo farò. Per la vostra attenzione e le vostre preghiere, voglio assicurarvi che i prossimi anni saranno un periodo di realizzazione e non più di speranza», ha detto, secondo il quotidiano Liberian Observer.

 

Il Boakai si era impegnato durante la sua campagna a formare un governo che rappresentasse veramente la diversità politica, sociale e religiosa della Liberia se fosse eletta presidente.

 

La Sirleaf, di cui il Boakai fu vice, è nota per i suoi contatti stretti con George Soros, al punto da essere tra gli invitati una diecina di anni fa del suo ultimo matrimonio, celebrato nella fastosa villa che lo speculatore acquistò dallo scrittore Michael Crichton. (Tra gli altri ospiti, Emma Bonino ed Edi Rama).

 

Il rapporto si è mantenuto negli anni, come testimonia un post su Twitter nel 2020.

 

 

«Il George Soros che conosciamo ha passato la vita a sostenere l’elevazione e la dignità delle persone svantaggiate ed emarginate attraverso una società aperta che promuove la libertà di espressione, la libertà di scelta e la giustizia per tutti. Il mondo è un posto migliore grazie a lui».

 

Il sito dell’ambasciata americana della Liberia riporta ancora un discorso fatto da Boakai il 5 agosto 2014 ad un pranzo delle Open Society Foundations (OSF) di George Soros, presente il Soros stesso.

 

«Signor Soros, l’OSF e le sue organizzazioni partner sono stati veri amici della Liberia, durante i nostri anni di lotta fino ad oggi. Le sue posizioni riguardo al buon governo, alla responsabilità e alla trasparenza – per non parlare di tutti i diritti umani – sono ben note. E ci sforziamo di lasciarci guidare da loro, nonostante le molteplici sfide che continuiamo ad affrontare come nazione post-conflitto».

 

Il sito dell’OSF contiene ancora pagine riguardanti eventi sulla «Trasparenza e responsabilità in Africa» in cui tra gli speaker, oltre allo stesso Soros, campeggia il Boakai.

 

La storia della Liberia iniziò all’inizio del XIX secolo come progetto dell’American Colonization Society (ACS), che credeva che i neri avrebbero avuto migliori possibilità di libertà e prosperità in Africa che negli Stati Uniti. Tra il 1822 e lo scoppio della guerra civile americana nel 1861, più di 15.000 afroamericani liberati e nati liberi, insieme a 3.198 afro-caraibici, si trasferirono in Liberia.

 

Sviluppando gradualmente un’identità americo-liberiana, i coloni neri portarono con sé la loro cultura e tradizione. La Liberia dichiarò l’indipendenza il 26 luglio 1847, ma gli Stati Uniti la riconobbero solo il 5 febbraio 1862. La capitale del nuovo Stato fu chiamata Monrovia in onore del 5° presidente americano James Monroe (1758-1831)

 

Nel 1980, le tensioni politiche derivanti dal governo di William R. Tolbert portarono a un colpo di stato militare durante il quale il Tolbert fu ucciso, segnando la fine del dominio del gruppo americo-liberiano nel Paese e dando inizio a oltre due decenni di instabilità politica.

 

Cinque anni di governo militare da parte del People’s Redemption Council («Consiglio popolare di Redenzione») e cinque anni di governo civile da parte del Partito nazionale democratico della Liberia furono seguiti dalla prima e dalla seconda guerra civile liberiana.

 

I conflitti civili hanno provocato la morte di 250.000 persone – circa l’8% della popolazione – e lo sfollamento di molte altre, con una contrazione dell’economia della Liberia del 90%. Le guerre intestine liberiane sono spesso ricordate per le loro estreme atrocità, tra cui spiccano l’uso di bambini soldato, la pratica delle mutilazioni e casi conclamati di cannibalismo.

 

Un accordo di pace nel 2003 aveva portato a elezioni nel 2005.

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Biden ha insabbiato un rapporto sullo scandalo di corruzione in Ucraina della sua famiglia

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Joe Biden, mentre era vicepresidente degli Stati Uniti nel 2015, avrebbe chiesto alla CIA di occultare un rapporto sulle presunte attività commerciali corrotte della sua famiglia in Ucraina. Lo rivelano documenti desecretati.   Martedì, il direttore della CIA John Ratcliffe ha reso pubblici i documenti, in gran parte censurati. Uno dei documenti, un’e-mail governativa datata 10 febbraio 2016 e inviata all’agenzia, recitava: «Buongiorno, ho appena parlato con il Vicepresidente/Consigliere per la Sicurezza Nazionale e lui preferirebbe fortemente che il rapporto non venisse diffuso. Grazie per la comprensione».   Il nome del mittente è stato oscurato, indicando solo il titolo «PDB Briefer». Il Presidential Daily Brief è un documento top secret destinato alla distribuzione giornaliera al presidente degli Stati Uniti e a un ristretto gruppo di alti funzionari autorizzati.

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Il rapporto in questione riferiva che i funzionari ucraini dell’amministrazione dell’allora presidente Petro Poroshenko «hanno espresso sconcerto e delusione» durante la visita di Biden nel dicembre 2015.   «Questi funzionari hanno ritenuto che i presunti legami della famiglia del vicepresidente degli Stati Uniti con la corruzione in Ucraina fossero la prova di un doppio standard all’interno del governo degli Stati Uniti in materia di corruzione e potere politico».   Hunter Biden, figlio di Joe Biden e condannato per reati gravi, occupava una posizione ben remunerata nel consiglio di amministrazione di Burisma Holdings, un conglomerato energetico ucraino, durante il mandato da vicepresidente del padre.   Joe Biden ha ammesso pubblicamente di aver esercitato pressioni su Kiev per licenziare un procuratore generale che indagava su Burisma nel 2016. Tuttavia, ha negato di aver mai accettato tangenti o di essere stato a conoscenza degli affari esteri del figlio.   Nel dicembre dello scorso anno, Biden ha firmato un ampio atto di grazia per suo figlio, contraddicendo le precedenti promesse di non farlo. L’atto di grazia protegge Hunter da procedimenti penali per crimini commessi tra il 2014 e il 2024.   La diffusa corruzione in Ucraina ha sollevato preoccupazioni tra i funzionari statunitensi riguardo al possibile uso improprio degli aiuti. Recenti sondaggi indicano che la maggior parte degli ucraini ritiene che il problema stia peggiorando.   Come riportato da Renovatio 21, la famiglia Biden era stata accusata al Congresso USA di aver preso mazzette dalla Russia. La Commissione di supervisione della Camera afferma di aver identificato 20 milioni di dollari in pagamenti da fonti estere alla società di Hunter Biden, che descrivono come una copertura per vendere l’accesso al «network Biden» mentre suo padre era vicepresidente di Barack Obama dal 2009 al 2017.

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In particolare danari sarebbero arrivati dall’oligarca russa Yelena Baturina, vedova del controverso sindaco di Mosca Yurij Luzhkov, a Rosemont Seneca Thornton, una società di comodo gestita da Hunter Biden e dal suo socio in affari Devon Archer. Dei 3,5 milioni di dollari trasferiti dalla Baturina, 1 milione di dollari è stato trasferito direttamente ad Archer, mentre il resto è stato utilizzato per avviare Rosemont Seneca Bohai, un nuovo account utilizzato per ricevere più finanziamenti dall’estero, ha affermato la Commissione camerale.   Accuse per il giro di corruzione dei Biden in Ucraina sono arrivate da Igor Shokin, il procuratore di Stato che a Kiev investigava, tra le altre cose, sul colosso gasiero Burisma, che aveva assunto nel board l’inesperto Hunter Biden. Il vicepresidente Joe Biden si è vantato in pubblico di averlo fatto licenziare durante un suo breve viaggio diplomatico, in cui praticò estorsione nei confronti di presidente e premier ucraini.  

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Come riportato da Renovatio 21, la scorsa estate Viktor Medvedchuk, un politico ucraino e del partito Piattaforma di Opposizione – Per la Vita, ora in esilio in Russia dopo essere stato arrestato dal regime Zelens’kyj e scambiato con Mosca, ha accusato Kiev di essere la «mangiatoia» per la corruzione del clan Biden.   Renovatio 21 aveva segnalato una pista kazaka ancora a inizio 2022 quando il Kazakistan fu oggetto di disordini, e riaffiorò una foto dei Biden con oligarchi di Astana, ripubblicata da organizzazioni locali anti-corruzione che chiedono la restituzione dei miliardi dei corrotti, politica poi abbracciata dall’attuale presidente Tokaev.   Un’altra parte consistente della corruzione del clan Biden riguarderebbe la Cina, con affari che comprendono anche investimenti in centrali atomiche, con legami con personaggi legati all’Intelligence della Repubblica Popolare così come, si è ipotizzato, il network interno di Xi Jinpingo.   Sull’origine del capitale del fondo internazionale di Hunter Biden fece un’ammissione un professore pechinese ad una conferenza pubblica appena dopo le elezioni 2020.

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Bill Gates critica la Svezia per l’aumento della spesa militare

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Il miliardario statunitense Bill Gates ha espresso critiche nei confronti della Svezia per l’aumento dei finanziamenti destinati all’esercito, a scapito del supporto ai programmi di aiuti internazionali.

 

In un’intervista pubblicata mercoledì dal quotidiano svedese Dagens Industri, l Gates, noto per il suo impegno in iniziative «filantrocapitaliste» globali, ha lamentato che il bilancio svedese di quest’anno non preveda fondi per il Fondo globale, un’organizzazione dedicata alla lotta contro AIDS, tubercolosi e malaria a livello mondiale.

 

Commentando l’incremento della spesa militare di Stoccolma, Gates ha dichiarato che la questione «meriterebbe un dibattito più approfondito». «È davvero ciò che i cittadini desiderano e di cui c’è effettivamente bisogno?» ha chiesto l’ultramiliardario.

 

Il ministro del Commercio estero Benjamin Dousa ha replicato alle critiche di Gates, difendendo il cambio di priorità del Paese. «Se non vogliamo che i nostri figli parlino russo in futuro, dobbiamo avere una difesa molto solida», ha dichiarato all’agenzia di stampa TT.

 

A seguito dell’escalation del conflitto in Ucraina nel 2022, la Svezia ha abbandonato la sua storica neutralità, richiedendo e ottenendo l’adesione alla NATO due anni dopo.

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A luglio, l’emittente pubblica SVT ha riportato che il governo svedese intende innalzare l’età massima di coscrizione per gli ex ufficiali militari da 47 a 70 anni, come parte di un piano per raddoppiare il personale militare a 115.000 unità entro il 2030.

 

All’inizio dell’anno, il parlamento svedese ha approvato una legge che stanzia ulteriori 300 miliardi di corone (circa 26,8 miliardi di euro) per le forze armate, oltre agli aumenti annuali del bilancio.

 

Durante un vertice all’Aia a giugno, i membri della NATO si sono impegnati ad aumentare la spesa per la difesa dal precedente 2% al 5% del PIL entro il 2035.

 

Anche l’Unione Europea, di cui la Svezia fa parte, ha approvato quest’anno diversi programmi per incrementare la spesa militare, tra cui l’iniziativa ReArm Europe da 800 miliardi di euro.

 

Come riportato da Renovatio 21, il Gates ha avuto in Isvezia investimenti particolari, come quello degli esperimenti di «geoingegneria solare», ovvero di oscuramento artificiale del sole con l’irrorazione nel cielo di sostanze chimiche. L’esperimento fu in seguito annullato a causa della protesta della popolazione autoctone lapponi.

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Puff Daddy chiede pietà, ma il giudice lo condanna alla galera

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Sean «Diddy» Combs ha espresso rammarico per le sue azioni passate e ha chiesto clemenza in una lettera indirizzata a un giudice di Nuova York, poco prima della sua condanna, che i pubblici ministeri ritengono debba superare i dieci anni di carcere.   Il magnate della musica, 55 anni, rischia fino a 20 anni di reclusione dopo essere stato riconosciuto colpevole di due capi d’imputazione per trasporto a fini di prostituzione. I procuratori hanno chiesto al giudice Arun Subramanian di infliggere almeno 11 anni e tre mesi, sottolineando che i reati «gravi» di Combs sono paragonabili a casi in cui sono state comminate condanne superiori a un decennio.   In una lettera pubblica di quattro pagine, Combs ha sostenuto che il periodo trascorso in custodia cautelare da settembre 2024 lo ha profondamente cambiato.

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«Oggi vi chiedo umilmente un’altra possibilità: un’altra possibilità di essere un padre migliore, un figlio migliore, un leader migliore nella mia comunità e di vivere una vita migliore», ha scritto.   Il rapperro ha riconosciuto di aver commesso «molti errori» e si è scusato con la sua ex fidanzata, Cassie, la cui testimonianza ha contribuito a una delle condanne.   «Le immagini di me che aggredisco Cassie mi perseguitano ogni giorno», ha dichiarato. «Ho perso la testa. Ho sbagliato gravemente a mettere le mani sulla donna che amavo. Mi dispiace profondamente e me ne pentirò per sempre».   Combs ha affermato di essere sobrio per la prima volta in 25 anni, descrivendo gli ultimi due anni come «i più difficili della mia vita».

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La richiesta di pietà non ha sortito effetto: il giudice di Nuova York ha condannato Sean «Diddy» Combs a 50 mesi, più di quattro anni di carcere, per «gravi reati di natura sessuale che hanno causato danni irreparabili a due donne». Il giudice Arun Subramanian ha dichiarato che una pena «significativa» è indispensabile «per inviare un messaggio chiaro sia agli autori di abusi sia alle vittime».   Combs è stato giudicato colpevole di «trasporto a fini di prostituzione», ovvero di aver accompagnato persone per attività sessuali illecite. L’accusa aveva richiesto una pena di undici anni, mentre la difesa aveva proposto un massimo di quattordici mesi.   L’ex icona dell’hip-hoppo, che ad agosto aveva chiesto la grazia presidenziale a Donald Trump, all’ultimo minuto ha ammesso le sue colpe in aula, definendo il proprio comportamento «disgustoso».   Come riportato da Renovatio 21, Puff Daddy era stato accusato di racket e traffico sessuale con un contorno di racconti imbarazzanti che parlano di forniture di centinaia di bottigliette di olio per bambini. Due mesi fa era emerso che l’uomo stava affrontando 120 nuove accuse di molestie sessuali, compresa quella di 10 mesi fa che parlava di una 13enne molestate assieme al celeberrimo produttore Jay-Z, marito dell’ancor più nota (e per taluni controversa) cantante nera Beyoncé Knowles, considerata vicina al Partito Democratico USA.   Secondo voci pubblicate sulla stampa americana, il Diddy sarebbe stato una sorta di Jeffrey Epstein in versione hip hop che avrebbe segreti, oltre che su tante stelle di Hollywood, anche su «politici» e «principi».  

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