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Pensiero

Il Green pass sarà eterno: DCPM del 2 marzo. Pronti per la sottomissione bio-elettronica

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Il DCPM dello scorso 2 marzo, sul quale pochi hanno concentrato l’attenzione, rende il green pass valido 540 giorni dopo il booster – cioè, 18 mesi. Alla scadenza dei quali deve venire emesso un altro documento, di durata equivalente.

 

Distratti dalla guerra in Ucraina, non abbiamo visto quel che stava facendo il governo Draghi: ha istituito un green pass eterno. Con buona pace di chi poteva pensare che il suo uso si sarebbe esaurito con lo stato di emergenza, che (in teoria) dovrebbe scadere a breve.

 

Il testo è nella Gazzetta Ufficiale del 4 marzo.

Distratti dalla guerra in Ucraina, non abbiamo visto quel che stava facendo il governo Draghi: ha istituito un green pass eterno

 

«Nella realtà, senza tanti giri di parole, all’articolo 1 (comma b) spiega che la blockchain sottostante il lasciapassare, una volta somministrata la dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale, durerà 540 giorni. Al termine dei quali la piattaforma nazionale provvederà in automatico a emettere un secondo green pass, anch’esso valido per altri 540 giorni. In tutto farebbe 1080 giorni, la bellezza di quasi tre anni» scrive Claudio Antonelli su La Verità, praticamente il solo giornalista in Italia (in Europa) ad aver capito cosa si cela dietro al certificato verde.

 

«Attenzione. Nulla ci dice che tutto si ferma lì. L’automatismo dovrebbe poi essere interrotto. Ma nel testo del DCPM non c’è alcuna traccia di una tale intenzione. In pratica (…) un green pass sarà per sempre».

 

Il DCPM inoltre emana le direttive per la lettura di tutte le categorie di cittadini italiani (forse dovremmo dire «classi»? Forse dovremmo dire «razze»?) attualmente considerate dallo Stato biotico: da una parte i triplodosati e i rarissimi esentati. Dall’altra i non vaccinati, i terribili no vaxi, ora incasellati informaticamente per ordine del Primo Ministro.

 

Parlano di anonimizzazione, ma sappiamo tutti, alcuni per esperienza, che è una palla colossale: nelle app attuali il controllore deve sapere in anticipo quale green pass scansionare, se uno da vaccinato o da tamponato.

 

La privacy poi sparisce del tutto se pensiamo che i non vaccinati continueranno ad essere esclusi dal lavoro, dalla scuola, dai trasporti, dagli eventi, dai locali, dalla palestra, dalla piscina, paria biomolecolari del XXI secolo.

 

Nel DCPM si parla quindi di sincronizzazione del nostro green pass con quello degli altri Paesi. Inoltre il DCPM «prevede nel dettaglio le modalità di controllo per i lavoratori dipendenti e l’iter di comunicazione tra ministero della salute (che gestisce l’anagrafe vaccinale) e l’Agenzia delle Entrate».

 

«Per capirsi, per coloro che si lamentavano dei ritardi nelle multe agli over 50 non vaccinati, ecco la risposta».

 

Vengono così infrante le speranze che tutto si sarebbe fermato, come qualcuno sussurrava, il 15 giugno.

Il sistema del green pass non avrebbe teoricamente più motivo di esistere. A meno che, dietro a tutto questo, non vi sia qualcos’altro. Un altro progetto. Un altro «programma»

 

Leggendo il DCPM, diviene chiaro il pattern del governo: dicono che ad aprile apriranno a tutti i locali all’aperto, dicono a breve chiunque potrà salire su treni e autobus. Poi, nella realtà, fa l’esatto contrario.

 

La quasi totalità della popolazione italiana è vaccinata, dicono, perfino con terza dose. La quasi totalità della popolazione italiana, vaccinata e non, ha preso il COVID questo inverno: e questo lo sappiamo tutti.

 

Il sistema del green pass non avrebbe teoricamente più motivo di esistere. A meno che, dietro a tutto questo, non vi sia qualcos’altro. Un altro progetto. Un altro «programma».

 

Come riportato da Renovatio 21, di fatto, l’Unione Europea lavorava da anni alla piattaforma di digitalizzazione della cittadinanza, dove ogni abitante d’Europa diviene un account di una piattaforma europubblica, dotato poi di un wallet, un portafogli elettronico su cui, a breve, far correre l’«inevitabile» euro digitale, la monte virtuale che la BCE si appresta ad emettere.

«L’obbiettivo dichiarato è quello di trasformare i governi in piattaforme e i cittadini in identità digitali»

 

Come abbiamo scritto varie volte, questo progetto di controllo massivo dell’economia e della popolazione è partito da ben prima della pandemia, anzi ha trovato in quest’ultima il combustibile definitivo per il suo lancio. Vale la pena di ricordare che la struttura informatica blockchain del green pass è la stessa di quella sviluppata da anni dalla UE.

 

«L’obbiettivo dichiarato è quello di trasformare i governi in piattaforme e i cittadini in identità digitali», scrive Antonelli. Riconosciamo che non si tratta di un fenomeno legato solo all’Europa: pochi giorni fa abbiamo visto l’inquietante video dell’Associazione delle Banche del Canada che promuove l’ID digitale unico per tutti i cittadini.

 

Su La Verità viene quindi notato che la Legge finanziaria approvata con lo scadere del 2021 aveva «infilato dentro a un decreto legge collegato» il fatto che «il ministero dell’Economia ha unilateralmente prorogato a fine 2022 l’autorizzazione a tracciare la salute degli italiani in barba alla privacy».

 

«Si tratta di uno schema nato ad aprile 2020 assieme allo stato di emergenza. Serviva per lanciare la app Immuni e Io. Poi è servito per lanciare il green pass». Ora, con un blitz, è stato sganciato dallo stato di emergenza ed è entrato nella manovra. «C’è da scommettere sarà rinnovato con la prossima manovra».

Si tratta di un «tassello del progetto più ampio: rendere permanente la carta verde, al di là di ogni natura emergenziale o persino sanitaria»

 

Si tratta di un «tassello del progetto più ampio: rendere permanente la carta verde, al di là di ogni natura emergenziale o persino sanitaria».

 

Bisogna rammentare che il decreto Riaperture consentirà agli enti pubblici di scambiare i nostri dati senza che si dichiari l’uso che intendono fare: in gergo tecnico è la «interoperabilità dei silos di dati. Tradotto, è la possibilità di tracciare i cittadini che a questo punto possono essere chiamati utenti digitali».

 

Il cittadino digitale, come sappiamo, non si troverà la libertà limitata solo dallo status vaccinale giudicato insoddisfacente dall’autorità. Un domani, lo stesso sistema si applicherà ai sospetti evasori, ai sospetti inquinatori, ai sospetti dissidenti – chi è bannato da Facebook sta solo esperendo l’avanguardia di un mondo di censura totale, e i social media hanno semplicemente iniziato a fare il lavoro per conto dello Stato moderno.

 

E poi, lo ripetiamo. Con l’euro digitale, cioè il danaro programmabile, ogni vostra transizione sarà tracciata, studiata, o proibita. Ai diabetici non sarà concesso di compare la nutella.

La libertà, che giocoforza passa dal portafogli, sarà possibile togliervela con un clic. Perché, di fatto, il portafogli è loro. Chi comanda la piattaforma, decide il destino degli utenti, cioè degli esseri umani

 

A chi ha un basso reddito sarà impedito di comprare il salmone. A chi è in lockdown (o nelle forme ibride che seguiranno, incrociate con  le «domeniche senza auto»), non sarà concesso di spendere in un luogo che non sia quello deciso.

 

Oppure, vista la crisi alimentare che arriva con la guerra nelle Russie, potranno permettervi di acquistare la quantità di cibo che secondo lo Stato è più consona a voi: un sistema immediato di razionamento del cibo, per il quale non serve nemmeno che, come in guerra, ve lo portino – semplicemente, non ne potete acquistare di più.

 

Potranno mettere un tetto alla quantità di benzina che acquistate (se ve la potrete ancora permettere), o impedirvi del tutto di fare il pieno – perché c’è il climate change. Che non è discutibile, e chi osa dire una parola deve essere cacciato, isolato, zittito.

 

Fino al momento in cui a coloro che dimostrano, secondo la Scienza e il CTS, una possibile predisposizione genetica al cancro, sarà impedito di compare le sigarette. Oppure: predisposizione genetica all’alcolismo? Niente birra. Gene dell’obesità? Niente dolci.

 

La fase di immissione della genetica nella piattaforma digitale ci porta al capitolo più importante: i figli.

 

Pensate che, con l’emergenza climatica, vi lasceranno figliare liberamente? Il Partito Comunista Cinese ancora oggi multa chi ha più figli di quelli consentiti dallo Stato: piazzato il tetto alla prole anche da noi, semplicemente potrebbero svalutare il denaro del cittadino-coniglio che ha voluti farne cinque, quattro, tre, due, uno. Tra gli insulti social dei benpensanti che votano PD e fanno controllano la differenziata degli altri.

Sì, è il Grande Reset che disinstalla la democrazia costituzionale, e carica uno Stato-macchina, invincibile e onnipervadente, dinanzi a cui solo una forma di rapporto è possibile: la sottomissione

 

È importante ricordare che di certo, quando la riproduzione artificiale sarà istituzionalizzata e resa il primario metodo di «figliare», chi sceglierà la strada «naturale» sarà emarginato e punito, perché è crudele e sbagliato sottoporre il nascituro alla roulette della biologia, quando possiamo programmargli geni che lo facciano eccellere a scuola e nello sport, e che lo tengano lontano dall’AIDS, dalla depressione, dal diabete e magari anche da certi caratteri disobbedienti.

 

Anche lì: possono colpire, subito, il vostro wallet. Prelevare la multa senza che possiate fare nulla. Congelarvi il conto – come sono abituati a subire i vostri account social. Oppure farvi acquistare solo determinate classi di prodotto. Le opzioni per sorvegliare e punire il reo, con il supertotalitarismo digitale, sono infinite.

 

La libertà, che giocoforza passa dal portafogli, sarà possibile togliervela con un clic. Perché, di fatto, il portafogli è loro. Chi comanda la piattaforma, decide il destino degli utenti, cioè degli esseri umani.

 

Qualcuno pensa alla Cina, con il suo sistema di credito sociale, dove puoi perdere la possibilità di accedere a aerei, treni, mutui semplicemente perché hai fatto un commento che non va bene al Partito. Ebbene, il caso che sta montando in Europa è, senza dubbio molto, molto peggiore.

 

Vi potranno spegnere con un clic: un giudice, o magari un vigile – o magari un algoritmo. Diverrete paria senza più alcun potere senza possibilità alcuna di riscatto.

 

Sì, è il Grande Reset che disinstalla la democrazia costituzionale, e carica uno Stato-macchina, invincibile e onnipervadente, dinanzi a cui solo una forma di rapporto è possibile: la sottomissione.

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

Gender

L’Italia è ora una grande discoteca gay. Ma quanto durerà ancora la musica?

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È finalmente finito il mese arcobaleno. Lo sapete, agli omotransessualisti alfabetici non bastava prendersi un dì l’anno per celebrarsi: no, dovevano prendersi trenta giorni, e quindi tutto giugno diventa il mese arcobalenato. Ed ogni istituzione lo pretende.

 

Eppure, una canzone ancora mi turbina per la testa. È eccezionale, dire orecchiabile è sbagliato, è proprio irresistibile.

 

Una travolgente musichetta gay militante, dove a parlare però è uno che conosco – probabilmente il maggior intellettuale cattolico vivente.

 

Ascoltate voi stessi. Si chiama «One Big Gay Disco». Cioè: «una grande discoteca gay».

 

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Sentite che roba, che tiro. Ascoltate il testo:

 

«America is now one big gay disco». «L’America è ora una grande discoteca gay».

 

«One-Big-Gay-Disco».

 

L’autore è un DJ di cui ignoravamo l’esistenza, e più o meno ci sa che continueremo così così. In pratica, ha preso un pezzo disco-funk anni Settanta – basso ritmato e gai urletti «uh-aahh» inclusi – e ci ha aggiunto delle parole campionate da un discorso.

 

Nella didascalia di YouTube, il musicista scrive che il pezzo è «un perfetto omaggio alla scena dei club dalla mentalità aperta degli anni Settanta, con un video scintillante e nostalgico». Il video in realtà fa abbastanza schifo, è la classica robetta fatta senza soldi e con ancora meno idee: la bella ragazza in tuta non c’entra nulla, con il resto, ma va bene. La prosa di autopromozione, che sembra davvero, quella sì, vecchia di cinquanta anni,  del DJ continua: la traccia «avrebbe potuto facilmente illuminare le iconiche piste da ballo di Studio 54, The Loft e Paradise Garage. Completo di archi vorticosi e ritmi ipnotici che richiamano i classici della discoteca del benessere».

 

Soprattutto l’autore si dichiara in grado di «riposizionare il discorso d’odio e trasformarlo in una celebrazione edificante della musica house e disco e in un inno per la comunità LGBTQ+».

 

Discorso d’odio? Ma quale discorso d’odio?

 

Dimenticavo: il discorso d’odio è qualunque discorso l’establishment e i suoi servi odino. È un genitivo oggettivo: l’odio è di chi ascolta più che di chi emette il discorso.

 

Le parole sono tratte da un video di E. Michael Jones, studioso e scrittore cattolico americano noto non a moltissimi, ma la cui portata intellettuale è senza pari, ovunque. Professore di letteratura inglese in un College cattolico dell’Indiana (zona Università cattolica di Notre Dame), fu licenziato a fine anni Settanta per la sua posizione sull’aborto: lui era contrario, tutti i «cattolici» dell’università «cattolica» erano invece a favore. Il mondo si era rovesciato già allora…

 

Ho incontrato Jones a Nuova York una decina di anni fa: io cercavo di far pubblicare i miei libri negli USA, lui voleva che i suoi fossero tradotti in Italiano. Non ricavammo molto, ma non è detto che in futuro con Renovatio 21, e l’aiuto dei lettori, non riesca a fare qualcosa.

 

Negli anni Jones ha animato una rivista, Fidelity, poi divenuta Culture Wars, e una casa editrice che ha pubblicato i suoi enormi tomi: si è occupato della degenerazione dell’arte, dell’ingegneria sociale dietro ai piani urbanistici, del significato dell’horror, della dottrina economica della chiesa, del ruolo sociale della musica da Wagner a Mick Jagger e, tema importante, della cosiddetta «liberazione sessuale», che lui ritiene essere uno strumento di controllo politico. Ad un certo punto, Jones ha cominciato ad occuparsi di un tema particolare e di lì sono stati dolori e problemi: l’influenza degli ebrei nella vita sociale. Potete capire a cosa è stato sottoposto da allora: depiattaformato già da tantissimo, tutti i suoi libri spariti da un giorno all’altro da Amazon. Tuttavia qui il discorso è un altro.

 

Jones è stato preso di sorpresa da questo remix funky della sua invettiva, tuttavia adesso ogni suo show – che è trasmesso su Rumble, perché, figurarsi – si apre proprio col pezzo. One-Big-Gay-Disco. Oh-ahhhh.

 

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Lui racconta da quale suo discorso sono state estrapolate quelle parole. Era un video in cui descriveva un suo recente viaggio in Germania – Paese di cui conosce lingua e cultura, e lo ricorda spesso. Si trovava vicino alla porta di Brandeburgo a Berlino. Lì c’è l’ambasciata USA, e quindi lui, da buon americano, ha buttato l’occhio dentro.

 

Dice di aver visto che dentro, nell’atrio, c’era una grande statua dell’orso, il simbolo di Berlino (sapete: l’etimo germanico della città, come quello di Berna, è baer, appunto l’orso). Il marmoreo plantigrado diplomatico, tuttavia, recava una caratteristica che saltava all’occhio: era ricoperto da una bandiera arcobaleno.

 

«Non sapevo che l’orso di Berlino fosse omosessuale» si disse il Jones. Poi gli spiegarono che il monumento era così agghindato in occasione di un triste evento: in quei giorni di fine primavera 2016 un nightclub gay ad Orlando, era stato oggetto di un brutale attacco «terrorista»: un uomo entrò e sparò uccidendo 49 avventatori e ferendone 53.  Il perpetratore era un ragazzo afghano americano, Omar Mateen, che si disse subito aveva fatto bay’ah (cioè, giurato lealtà) al califfo ISIS Al Baghdadi. Alcuni dissero che in realtà l’assassino era un gay che frequentava i locali gay e le app di incontro uraniste. Storia passata.

 

Jones quindi arrivò a pensare che se persino l’ambasciata americana a Berlino è investita del lutto arcobaleno per qualcosa avvenuto in un locale gay in Florida, significa che allora tutta l’America è ora una grande discoteca gay. Non vi sono altri valori: a pochi passi da lì, ricordiamo Kennedy pronunciò lo storico discorso dell’Ich bin ein berliner. Il potere americano tuttavia ora ha più necessità di ricordare i «martiri» omosex-discotecari.

 

Lo ha detto il segretario di Stato Blinken in settimana: i «diritti» gay sono per la superpotenza un tema di sicurezza. L’ammiraglio Kirby, portavoce militare della Casa Bianca, aveva detto più o meno lo stesso l’anno scorso: i diritti LGBT sono il cuore della politica estera americana, aveva detto l’alto militare coi capelli tinti. Si trattava di una risposta a chi gli chiedeva dell’Uganda, tagliata fuori da aiuti e commerci con gli USA (e dai fondi della Banca Mondiale) a causa della sua legge anti-sodomia. En passant, ricordiamo cosa successe subito dopo: strane, improvvise stragi nel Paese ad opera di sigle terroriste che sembravano sparite da decenni… e poi gli islamisti che in Somalia trucidano una quarantina di soldati della forza di pace ugandese

 

Ma torniamo alla One-Big-Gay-Disco.

 

Guardando le immagini del pride di Milano, con politici, cantati e migliaia di tizi a caso ricoprono le strade della città, non si può non vedere che anche l’Italia ora è una grande discoteca gay.

 

Ma quanta gente c’era, tanta, tantissima. Ma da dove vengono tutti quelli? Sono tutti omo? Forse sì. Loro dicono di essere l’8% della popolazione, cifra molto esagerata, quando un libro di psicologia generale di quando ero all’università parlava invece di 2% – altra cifra contestata come gonfiata. Tuttavia, è innegabile: il divorzio ha prodotto ondate di omosessuali, il femminismo – che autorizza la primazia della madre sul padre, e immaginiamo la combinazione con l’inclinazione matriarcale di certe regioni del Sud – ha proseguito l’opera di creare bambini, uomini, a cui è stata fatta mancare, più o meno programmaticamente, la figura paterna – e da lì la questione dell’omosessualità, secondo la famosa teoria freudiana, ora mostruosamente proibita, dell’origine per padre assente o padre debole.

 

Maree di uomini gay, certo. Ma anche tante ragazze: perché? Sono tutte lesbiche? Ma no, è che in una società dove la maschilità è definita «tossica», la femmina sincero-democratica vede nell’omosessuale l’unico umano dotato di pene rimasto frequentabile.

 

È, a suo modo, una forma di desessualizzazione della donna: invece che stare con gli uomini, vuole stare con gli uomini gay, dove non rischia nulla (non è osservata, desiderata, o ancora peggio, non desiderata) e dove trova magari una claque adorante (…«adoro!») con cui esibire magari una versione forsennata della propria femminilità, o forse il contrario – l’importante è che in giro non ci sia la sfida del maschio, perché costa tensione, incertezza, dolore, fatica. Ecco spiegato anche il fenomeno delle cicci (in gergo, i gay chiamavano così le donne che frequentano omoessessuali) o fag-hug («abbracciafroci»): e non siamo nemmeno sicuri del fatto che non sappiano che, quando non ci sono, i loro amici gay magari si lasciano andare a crudeli battute di scherno e disprezzo nei loro confronti.

 

Tuttavia, la musica pompa alla grande al gay pride meneghino, e sul carro c’è Elly Schlein. Massì, proprio lei, il segretario PD, che ballonzola con a fianco l’onorevole Zan, intonso dopo le inchieste di Report sulle colossali manifestazioni LGBT da lui organizzate. Eccola che tira l’urletto: «uuh-oooh», poi mette in fila due parole aggressive sull’«orgoglio», mentre intorno ha una quantità di persone travestite come nemmeno a carnevale.

 

Elly Schlein, sì. La guardiamo e continuiamo a non capire: gli eredi del PCI davvero hanno preferito lei a Bonaccini? Lei che in Svizzera guardava la sigla di Occhi di gatto mentre il Bonaccia martellava il consiglio comunale di Modena e la Festa dell’Unità di qualsiasi microcomune emiliano? Lei che non sembra nemmeno toccata dalla responsabilità – nonostante l’armocromista, non pare grande lo sforzo estetico, diciamo così – mentre quell’altro per le elezioni 2020 (perse di un soffio contro la Lega…) aveva accettato un restyling metrosessualizzante fatto di barbetta e occhiali a goccia, finiti in un logo dove dietro ad essi non vi era nulla, un po’ come il ras democristiano Giovanni Goria (il maestro di Crosetto) disegnato da Forattini negli anni Ottanta.

 

Elly – Nully, la chiamano i cattivi – non è che sembra tremare al pensiero che siede nel trono che fu di Togliatti (sì): maddeché, le sta facendo, appunto, un giro sul carro. Finché dura. Musica appalla.

 

Uuh-oooh.

 

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E poi, una domanda, che sorge a visionare un po’ di immagini del festone omotransessualoide: ma perché non ci sono, da nessuna parte, persone avvenenti? Perché sono tutti o sovrappeso, o vecchi, o con qualche elemento (taglio o colore di capelli, piercing) che sembra negare ogni possibilità di beltà personale?

 

È un rifiuto programmatico? Forse: rigettando la legge naturale ci si deve allontanare, giocoforza, anche dalla bellezza.

 

E poi: tutte queste persone che hanno occupato, oltre che un intero mese e le città e  le scuole e i palinsesti TV, anche un aggettivo che indica la felicità – gay, «gaio» – sono felici?

 

In realtà, ci si chiede dove siano finiti anche tutti quei gay, palestrati e magari un po’ pompatelli di steroidi, che si vedevano sfilare in gruppi pettonudisti o nudisti tout court (o con la mise sadomaso, o da puppy: quelli che fingono di essere dei cani dobermanni, e si fanno portare a spasso con guinzagli borchiati, e abbaiano) alle grandi  marce arcobaleniste. Perché al loro posto ci sono occhialute lesbiche diabetiche? Perché ci sono ometti in gonna, che mai sono passati per una sala pesi? La risposta drammatica potrebbe essere che oggi essere frocio è divenuto troppo facile. Nessun sacrificio, perché tutto quello che vuoi, incluso il sesso, lo ottieni subito, per «diritto». Quindi perché sbattersi in palestra?

 

Abbiamo ascoltato qualche discorso dal palco, dove tizi vari, in alcuni casi dal sesso davvero indefinibile, sparano truismi e nullismi, di vario tipo, educandoci sul fatto che adesso si dice LGBTQI+, con il più letto «plus», cioè «plas», all’anglofona: tanto per capire dove tira il vento geopolitico della «frociaggine» (copyright Staff Bergoglio) .

 

Ma non tutto è privo di succo: ecco sul palco un tizio con evidente paura dei capelli bianchi che, dopo aver detto che «siamo tutti uguali perché diversi» (esiste per i luoghi comuni più estremi un premio internazionale chiamato Bulwer-Lytton, autore di un romanzo il cui incipit suonava: «era una notte buia e tempestosa») si lascia scappare qualcosa di interessante.

 

Dice: non lo Stato, né Dio, può ordinare loro come devono vivere. Interessante: quindi, Dio esiste? E se esiste, posso fare il contrario di quello che mi comanda? Un attimo: come è che si chiama quello che iniziò facendo il contrario di quello che chiedeva Dio? Sul tema: ricordo uno striscione, ad una manifestazione dinanzi la Casa Bianca: «I bet hell is faboulous», «scommetto che l’inferno è favoloso».

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La bandiera arcobaleno, che in verità ora è diversa da quella di pochi anni fa perché dispone di un inserto incistatovi dentro, il triangolone rosa-bianco-marron-nero dei trans, garrisce possente ovunque. Su Twitter si vedono immagini di Londra, dove le bandierine omotransessualiste hanno totalmente sostituito l’Union Jack, e in Gran Bretagna ti arrestano se in rete fai ironia con un meme sull’argomento. Australia, stessa cosa: difficile pensare, vista l’assenza di simboli nazionali e l’abbondanza di bandiere aliene, che non sia il segno del fatto che si sia finiti sotto un potere occupante.

 

Rammentate la Casa Bianca l’anno passato? Il drappo omotrans splendeva al centro del colonnato palladiano, le bandiere degli USA ai lati – il posto d’onore è per il vessillo di Sodoma… E solo la settimana scorsa Biden stava sul prato, sempre in evidente stato di amenza, mentre a due metri da lui ballava un nero barbuto vestito da donna.

 


La faccenda è che, parrebbe, la faccenda potrebbe non durare. Un signore, padre di famiglia ed investitore famigliare, ha vergato pochi giorni fa un lungo post su Twitter, raccontando di aver notato come Greenport, un ricco paesino turistico della costa di Long Island, si è svuotato dal flusso di famiglie allegre ed altri visitatori.

 

Come mai? Lui fa capire che è perché una serie di negozi hanno esposto la bandiera omotransessuale, e le famiglie in USA cominciano a non sentirsi più sicure davanti a questo segno.

 


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Un commentatore scrive del pendio scivoloso per cui «sono passati dal “non ti deve interessare quello che faccio in camera da letto” al “devi assolutamente sapere cosa faccio in camera da letto”».

 

È un’osservazione bonaria: la realtà è che siamo passati – in pochi anni! – dal «diritto di visitare il compagno in ospedale» al diritto alla mutilazione sessuale dei bambini. Siamo lontani da una presa di coscienza della massa rispetto alla questione: tuttavia le immagini provenienti dalle drag queen story hour – dove, si raccontano, abbondano i bambini portati dalle loro mamme single – stanno svegliando qualche genitore.

 

C’è poi lo specioso caso dei murales stradali: bandiere arcobaleno al posto delle strisce pedonali, così da essere simbolicamente obbligati a passare per i colori dell’iride sodomista. Non ogni americano, tuttavia, sembra starci: ecco che si è innescata questa nuova tradizione di fare sgommate (con il SUV, con il motorino, con qualsiasi veicolo su ruota) sopra le strisce del gender stradale obbligatorio. Arresti e processi per i perpetratori: ma pensano sul serio che la repressione farà cambiare idea di chi non ne può più? Davvero non si rendono conto che la repressione non farà che radicalizzare ancora di più la crescente massa dei dissidenti?

 


I gay lo hanno capito? Gli oligarchi, loro creatori, pure? Probabilmente no, non ancora. È l’atteggiamento classico di chi sa che qualcosa di fondamentale esiste – tipo: Dio, la natura, la morale, la coscienza, etc. – ma preferisce far finta di niente e ignorare tutto. Fino al «ritorno del rimosso», un altro concetto del Freud ora in via di divieto totale. Cioè, fino a che la realtà, la verità, non torna in superficie, e ti esplode in faccia.

 

Ma, con questo ritmo che pompa, qualcuno si preoccupa?

 

Per il momento, tutti in strada a ballare. Perché l’Italia, l’Europa, il mondo, è una grande discoteca gay. One-Big-Gay-Disco.

 

Il problema è che la musica potrebbe finire prima di quello che pensano.

 

Roberto Dal Bosco

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Civiltà

L’anarco-tirannia uccide: ieri ad Udine, domani sotto casa vostra

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È morto Shinpei Tominaga, l’imprenditore giapponese – ma italiano d’adozione – colpito da un pugno a Udine mentre tentava di sedare una rissa.   L’uomo è mancato in ospedale dove era tenuto in vita dalle macchine. Il giapponese, che tentava di mettere fine ad un pestaggio che si stava consumando davanti ai suoi occhi, sarebbe stato colpito da un pugno sferrato da un 19enne veneto. Secondo quanto riportato, il ragazzo avrebbe confessato.   Il giovane veneto si sarebbe accompagnato da due amici, uno con un nome apparentemente nordafricano, un altro con un cognome che pare ghanese. Si tratta, secondo una TV locale, di una «banda ben nota», che «all’inizio era una baby gang che ora non è più così baby, anzi, ed è di una grande pericolosità per tutti i cittadini». Il trio si sarebbe scontrato «con due ucraini residenti a Pescara, in città per lavoro in un cantiere edile».

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Secondo RaiNews, il GIP «ha convalidato l’arresto per rissa aggravata di tutti e cinque i partecipanti».   La dinamica dei fatti sarebbe stata ricostruita dalla Questura «grazie ai testimoni e alle telecamere, pubbliche e private», scrive il sito della radiotelevisione pubblica italiana.   «Poco dopo le 3, due dei ragazzi veneti fumano per strada, conversando tranquillamente con i due ucraini. Sopraggiunge il terzo amico e cerca subito uno scontro fisico. Seguono degli spintoni». Uno degli ucraini «viene colpito con un pugno, rovina a terra, dove viene picchiato con pugni, calci e con la sedia di un bar».   «Uno dei tre corre a prendere un coltello da cucina nel bed and breakfast in cui alloggiavano, poco distante».   «Interviene una donna di passaggio, termina la prima fase dell’aggressione. I due ucraini si rifugiano nel vicino ristorante kebab. Vengono inseguiti dai tre ventenni».   È qui che avviene l’incontro fatale con l’imprenditore giapponese.   «Tominaga chiede loro di stare tranquilli, lasciar perdere. Un pugno al volto, e il 56enne cade per terra e sbatte violentemente la testa, finendo in arresto cardiaco». Non basta: sarebbero stati «aggrediti – anche con uno sgabello – i due amici che erano con Tominaga».   «I tre avevano già precedenti, a vario titolo, per rapina, lesioni e minacce».   Per quanto riguarda invece gli ucraini, «niente misura cautelare in carcere. Per uno di loro disposto il divieto di dimora in Friuli Venezia Giulia».   A parte il ragazzo che avrebbe sferrato il cazzotto fatale, parrebbe quindi una rissa tra immigrati. Una delle tante che si consumano, finendo al massimo in un trafiletto di cronaca locale (ma spesso neanche quello), in aree urbane oramai divenute preda della prepotenza dei «migranti» – le zone, in cui, generalmente, abbondano di kebabbari.   Stavolta però la notizia sta avendo eco nazionale, perché c’è scappato il morto, sul quale vogliamo dire due parole.

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Con Shinpei – che i giornali chiamano Shimpei, con la «m»: nella lingua giapponese il suono «mp» non esiste, ma non è escluso che se lo fosse italianizzato lui stesso – il nostro Paese non perde poco.   Innanzitutto, ricordiamo il suo lavoro: export di mobili verso il Giappone. Il mobile, in particolare la sedia, trova in Friuli un distretto di eccellenza, distrutto negli ultimi due decenni dalla concorrenza cinese. Tuttavia chi cerca la qualità della manifattura non si può far incantare dalla merce a buon mercato dei mandarini: il popolo del Sol Levante è noto per la sua appassionata pignoleria, da cui proviene il suo rispetto per l’Italia.   Shinpei, quindi, per l’Italia faceva un lavoro inestimabile: teneva in vita l’economia del prodotto di qualità, di per sé una vera resistenza alla globalizzazione, cioè alla cinesizzazione, che ha devastato la piccola e media impresa dell”Alta Italia consegnandoci all’incubo di disintegrazione della classe media e di deindustrializzante che stiamo vivendo.   Di più: Shinpei, che aveva la famiglia in Giappone, in realtà l’Italia la conosceva bene, e con probabilità l’amava davvero. Era cresciuto a Roma, dove il padre Kenichi Tominaga commercializzava i cartoni giapponesi divenuti centrali per l’infanzia di tanti italiani: con Orlando Corradi aveva fondato una casa di distribuzione chiamata Doro TV Merchandising, la cui sigla con il cagnolino è nei ricordi di moltissimi, che vendeva gli anime ai network televisivi pubblici e privati italiani. Goldrake e Conan li ha portati da noi il babbo di Shinpei.   Pezzi di storia, pezzi di relazioni vere, e profonde, tra due Paesi sviluppati, l’Italia e il Giappone, terminati dalla barbarie presente, che ora tocca senza problemi anche le città di provincia.   No, non si è al sicuro anche nella tranquilla cittadina a statuto speciale, nemmeno se sei con tre amici per strada, nemmeno se ti offri di aiutare un ragazzo insanguinato. Quello che ti aspetta, uscito di casa nell’Italia contemporanea, è la morte – un sacrificio gratuito sorto dalla fine della civiltà in Europa.   Su Renovatio 21 abbiamo adottato il concetto, introdotto nei primi anni Duemila dallo scrittore statunitense Samuel Todd Francis (1947-2005), chiamato «anarco-tirannia», cioè quella sorta di sintesi hegeliana in cui lo Stato moderno regola tirannicamente o oppressivamente la vita dei cittadini – tasse, multe, burocrazia – ma non è in grado, o non è disposto, a far rispettare le leggi fondamentali a protezione degli stessi. La rivolta etnica delle banlieue francesi della scorsa estate ne sono l’esempio lampante, lo è anche, se vogliamo, il grottesco e drammatico video in cui il poliziotto tedesco attacca il connazionale che stava tentando di contrastare un immigrato armato di coltello, il quale per ringraziamento pugnala e uccide lo stesso poliziotto.   C’èst à dire: nella condizione anarco-tirannica, il fisco ti insegue ovunque, la giustizia ti trascina in tribunale perché non portavi la mascherina o perché hai espresso idee dissonanti, ma se si tratta di fermare il ladro, il rapinatore, etc., non sembra che nessuno, viste le percentuali di reati rimasti impuniti, faccia davvero qualcosa. E qualora prenda il criminale, ben poco viene fatto perché il crimine non sia ripetuto. Nel caso presente, i tre fermati, ribadiamo, «avevano già precedenti, a vario titolo, per rapina, lesioni e minacce».   La legge, le forze dell’ordine, lo Stato non sembrano aver fatto moltissimo per fermare il crimine, e convertire il criminale, che prosegue ad agire come in assenza di un potere superiore a lui – appunto, l’anarchia. Anarchia per i criminali, tirannide per i cittadini comuni, incensurati, onesti, contribuenti. Va così.   Al di là dell’amarezza, è il caso di comprendere cosa significa materialmente – cioè, biologicamente – l’avvio dell’anarco-tirannia per le vostre vite. L’anarco-tirannide produce giocoforza la vostra insicurezza, perché minaccia direttamente i vostri corpi. Lo stato di anarchia è quello in cui, non valendo alcuna autorità, la violenza non può essere fermata.   Se ci fate caso, in tanti teorici dell’anarchia spunta ad un certo punto quest’idea del mondo che va portato verso il baccanale dionisiaco, con l’orgia e la violenza come grottesco strumento per testimoniare la supposta libertà dell’essere umano, slegato da ogni legge anche morale. Non è il caso che gli scritti di uno massimi teorici dell’anarchismo odierno, siano stati accusati di essere pedofili.

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E quindi, uscire di casa, per un bicchiere con gli amici, è di per sé un’azione pericolosa. La strada, la vita quotidiana stessa, diventa una minaccia. È già così in tante aree cittadini: circolarvi di notte è qualcosa di pericoloso. Ecco la formazione delle no-go zones, che sono – se mai ce n’era ulteriore bisogno – la dimostrazione fisica della possibilità di lasciare che si neghi la Costituzione, la nel suo articolo 16 prevede la libera circolazione dei cittadini su tutto il suolo nazionale.   Qui, nel contesto di aggressioni continue e randomatiche, non vi è solo la vostra incolumità fisica, in gioco: c’è la vostra natura morale ad essere pervertita, perché – come nella tragedia di Udine – le virtù cristiane, come tentare di terminare un conflitto o aiutare qualcuno in difficoltà, viene punita con il sangue.   È la fine dello stato di diritto, e al contempo della legge naturale, della fibra morale che unisce la società. È l’instaurazione del regime del più forte, trionfo ideale del nazismo, dove il debole deve accettare di essere sacrificato dall’aggressore vittorioso. È un’espressione che forse avete sentito dire a qualche bullo delle medie quando, oltre che l’obbiettivo, finiva per picchiare qualcun altro: «si è messo in mezzo».   Nel mondo nuovo, decristianizzato dall’immigrazione, dallo Stato e dal papato stesso, chi fa da paciere può finire ucciso. Quindi, meglio farsi gli affari propri, non intromettersi…   «Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinunzino all’azione», è un aforisma falsamente attribuito al filosofo settecentesco Edmund Burke, che tuttavia contiene una verità incontrovertibile. In una situazione di rischio fatale, chi mai ha voglia di fare la cosa giusta, e aiutare il prossimo?   Ecco raggiunto il vero scopo del processo dell’anarco-tirannide. Una società atomizzata, dove la paura costante del prossimo, dove l’ansia primaria per la sopravvivenza previene la possibilità della coesione sociale, così da lasciar liberi i padroni del vapore di far quel che vogliono senza timore di resistenza popolare.   Una società divenuta preda del malvagio è una società che può essere manipolata a piacimento. Nessun gruppo umano si oppone ai comandi del vertice, per quanto soverchianti e contraddittori: e lo abbiamo visto in pandemia. Quindi l’anarco-tirannia è, diciamo, una fase del Regno Sociale di Satana.   E quindi, cosa dobbiamo fare?   Quale politica per prevenire che le nostre vite divengano incubi?   Facciamo qualche semplice proposta.   Innanzitutto, si deve andare oltre al rifiuto più assoluto l’immigrazione: si deve chiedere, secondo una parola sempre più usata nel mondo germanofono, la remigrazione. Milioni e milioni di migranti, portati qui per infliggerci questa ingegneria sociale del male, vanno espulsi dal Paese, e questo a costo di svuotare interni quartieri.   Secondo: si deve istituire una forma di punizione dura al punto da essere considerata un vero deterrente: la galera, al momento, non lo è. Ricordiamo che, per quanto possano aver detto preti e papi postconciliari, la pena di morte non è contraria alla dottrina cattolica. E ricordiamo che i lavori forzati, che aiuterebbero economicamente il Paese, darebbero finalmente un senso all’esistenza dei carcerati: in passato si è detto che non è possibile farli lavorare davvero perché nella Costituzione, segnata dalla mentalità sovietica dei padri costituenti PCI permessa dai padri costituenti DC – c’è scritto che il lavoro va retribuito. Noi qui rammentiamo che anche quel tabù lo abbiamo perso: la Costituzione, negli ultimi anni, è stata violata in ogni modo.   Terzo: è necessario che qualcuno si intesti davvero il discorso politico sul porto d’armi inteso come nel concetto americano di carry: vi sono stati americani in cui si ha l’open carry, ossia la possibilità di circolare per strada visibilmente armati, in altri si ha il concealed carry, dove l’arma può essere portata seco quando nascosta. È inutile evitare il pensiero, nella giungla anarco-tirannica, l’unica deterrenza, e oltre l’unica forma di difesa, potrebbe divenire l’essere armati sempre ed ovunque – cosa triste ed orrenda, forse, ma anche qui, va così.   Purtroppo, causa di recenti incresciosi episodi consumatisi nel capodanno di parlamentari di Fratelli d’Italia, è difficile che il governo Meloni voglia avventurarsi in questa direzione, che pure dovrebbe essere la sua. C’è da ringraziare chi, secondo quanto ricostruito, avrebbe avuto l’idea geniale di tirare fuori una pistola in pubblico…   Quanto ai tempi che ci aspettano, abbiamo iniziato a scriverne un paio di anni fa. Quando terminerà la guerra ucraina, una quantità di veterani di Kiev, tra cui i molti tatuati neonazisti, potrebbero finire da noi. Forse esiliati, forse solo in tour a trovare la mamma, la zia, la sorella badante. Difficile che, a questo punto, quei ragazzi non si raggrupperanno in bande amalgamate da lingua, storia, esperienza (chi ha fatto la guerra insieme, non si molla mai) e credenza fanatico-religiosa nell’ideale ucronazista.

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C’è da dire che forse arriveranno anche armati, perché la quantità di armi inviate da USA e Paesi NATO – già finite a mafie in Finlandia, in Spagna, ai narcos in Messico, ai terroristi in Siria – è talmente vasta che qualcosa resterà con loro. A differenza del tranquillo contribuente italiano, la futura banda post-bellica – fenomeno cui abbiamo assistito negli anni Novanta con i gruppi di veterani della guerra di Bosnia che assaltavano le ville – sarà armata fino ai denti.   La situazione che si ingenererà per la giungla fuori da casa vostra ha un nome: gli strateghi dell’ISIS, nel loro mirabile manuale, la chiamavano Idarat at-Tawahhus, cioè «gestione della barbarie», o «gestione della ferocia».   I jihadisti teorici dello Stato Islamico concepivano il crollo di uno Stato come l’apertura di possibilità immani: dopo una prima fase che definivano «vessazione e potenziamento» – dove si estenua la popolazione di un territorio con estrema violenza e paura – si fa partire una seconda fase, dove, sulla scia del crollo dell’ordine dello Stato e l’instaurazione di una «legge della giungla» sempre più belluina, prevale tra i sopravvissuti pronti ad «accettare qualsiasi organizzazione, indipendentemente dal fatto che sia composta da persone buone o cattive».   Appunto: «fatti gli affari tuoi». «Non ti immischiare».   Siamo davvero disposti ad accettare la trasformazione della società in un incubo satanico?   Davvero vogliamo assistere alla fine della civiltà guardando inani dalla finestra, e pregando che il caos non arrivi a trucidare anche noi ed i nostri cari?   Quali gruppi umani possono davvero opporsi a questo processo di morte e distruzione?   Domande a cui bisogna rispondere quanto prima. Nel frattempo, le brave persone, gli innocenti, i virtuosi, vengono ammazzati, sacrificati all’altare dell’anarco-tirannide progettata per sottomettervi.   Roberto Dal Bosco

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Pensiero

Giorgio Agamben: l’Europa senza Dio, la NATO e l’invenzione del nemico

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Renovatio 21 pubblica questo scritto di Giorgio Agamben apparso sul sito dell’editore Quodlibet su gentile concessione dell’autore.

 

Credo che molti si siano chiesti perché l’Occidente, e in particolare i Paesi europei, cambiando radicalmente la politica che avevano perseguito negli ultimi decenni, abbiano improvvisamente deciso di fare della Russia il loro nemico mortale.

 

Una risposta è in realtà senz’altro possibile. La storia mostra che quando, per qualche ragione, vengono meno i principi che assicurano la propria identità, l’invenzione di un nemico è il dispositivo che permette – anche se in maniera precaria e in ultima analisi rovinosa – di farvi fronte.

 

È precisamente questo che sta avvenendo sotto i nostri occhi. È evidente che l’Europa ha abbandonato tutto ciò in cui per secoli ha creduto – o, almeno, ha creduto di credere: il suo Dio, la libertà, l’uguaglianza, la democrazia, la giustizia.

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Se nella religione – con la quale l’Europa si identificava – non credono più nemmeno i preti, anche la politica ha perduto ormai da tempo la capacità di orientare la vita degli individui e dei popoli.

 

L’economia e la scienza, che hanno preso il loro posto, non sono in grado in alcun modo di garantire un’identità che non abbia la forma di un algoritmo.

 

L’invenzione di un nemico contro il quale combattere con ogni mezzo è, a questo punto, il solo modo di colmare l’angoscia crescente di fronte a tutto ciò in cui non si crede più.

 

E non è certo prova di immaginazione aver scelto come nemico quello che per quarant’anni, dalla fondazione della NATO (1949) alla caduta del muro di Berlino (1989), ha permesso di condurre sull’intero pianeta la cosiddetta Guerra Fredda, che sembrava, almeno in Europa, definitivamente sparita.

 

Contro coloro che cercano stolidamente di ritrovare in questo modo qualcosa in cui credere, occorre ricordare che il nichilismo – la perdita di ogni fede – è il più inquietante degli ospiti, che non soltanto non si lascia addomesticare con le menzogne, ma non può che portare alla distruzione chi lo ha accolto nella sua casa.

 

Giorgio Agamben

 

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