Scuola
Il governo irlandese contro le mascherine per i bambini

Siamo quasi alla metà di Agosto, e i bambini irlandesi stanno tornando a scuola – e senza mascherina. Lo ha deciso il governo.
Il vantaggio di indossare le mascherine nel ridurre la trasmissione di COVID -19 tra i bambini più piccoli nelle scuole è probabilmente piccolo, secondo un documento di ricerca commissionato dal governo irlandese e fatto uscire lo scorso marzo e riportato dal quotidiano dell’isola Irish Times.
L’Autorità per l’informazione e la qualità della salute irlandese (HIQA) ha informato la squadra nazionale di emergenza sanitaria (NPHET) che potrebbero esserci «conseguenze indesiderate» con l’uso di mascherine da parte dei bambini più piccoli, in particolare tra i bambini molto piccoli che hanno difficoltà a indossare correttamente i rivestimenti per il viso.
«Possono verificarsi più toccamenti dei volti, anche da parte di coloro che supervisionano i bambini (ad esempio gli insegnanti) quando hanno bisogno di assistere un bambino con una copertura per il viso; questo può portare a un contatto più stretto e potenzialmente al contatto con le secrezioni ad alto rischio», ha affermato l’HIQA nel suo documento consultivo sulla questione.
L’ente sanitario si è guardato dallo sconsigliare l’uso della mascherina, tuttavia ha affermato che l’obbligo per la fascia di età più piccola non dovrebbe essere implementato.
«Diversi membri di un gruppo di esperti HIQA hanno scoperto che ci sarebbe un potenziale di ansia o impatti negativi sullo sviluppo delle abilità comunicative e linguistiche, in particolare nei bambini più piccoli, dall’indossare mascherine»
Del resto, gli effetti dell’uso della mascherina sui bambini non sono una materia da prendere sottogamba.
«Diversi membri di un gruppo di esperti HIQA hanno scoperto che ci sarebbe un potenziale di ansia o impatti negativi sullo sviluppo delle abilità comunicative e linguistiche, in particolare nei bambini più piccoli, dall’indossare mascherine» scrive il giornale irlandese.
«Qualsiasi decisione di richiedere o raccomandare l’uso della maschera facciale nei bambini deve essere bilanciata con gli svantaggi percepiti associati al loro uso, ad esempio i potenziali effetti sulla comunicazione», ha affermato il regolatore.
Di questo studio governativo della scorso primavera, che sta determinando la politica scolastica sui bambini di un Paese membro della UE, in Italia, non si ha avuto alcuna eco.
Nemmeno negli USA: «Hai sentito questa storia? Forse no. Forse raccontarti cosa sta succedendo in Irlanda potrebbe sollevare domande scomode qui, come perché stiamo facendo il contrario negli Stati Uniti? Perché impostiamo le mascherine ai bambini? Quali dati stiamo utilizzando per giustificare tale decisione?» ha detto il giornalista TV Tucker Carlson nella sua trasmissione di ieri sera.
«Ad oggi, non c’è stato un singolo studio completo negli Stati Uniti che dimostri che i bambini dovrebbero indossare maschere a scuola o che le maschere aiuterebbero loro o chiunque altro in qualche modo».
«Ad oggi, non c’è stato un singolo studio completo negli Stati Uniti che dimostri che i bambini dovrebbero indossare maschere a scuola o che le maschere aiuterebbero loro o chiunque altro in qualche modo»
Ma della scienza, come della logica, non ce ne facciamo più nulla – lo abbiamo capito.
Nelle settimane in cui gli enti sanitari irlandesi pubblicavano i risultati della loro ricerca per escludere l’obbligo di mascherina dalle scuole, un ospedale pediatrico italiano, il celeberrimo Bambin Gesù di Roma, pubblicava un articolo dal titolo illuminante: «La mascherina all’aperto: perché è importante»
«Probabilmente una mascherina non impedisce direttamente a chi la indossa di contrarre il virus perché eventuali spazi vuoti tra la mascherina e il viso della persona possono far passare il virus SARS-CoV-2 – riconosce l’articolo del Bambin Gesù – ma un recente studio ipotizza che indossare una mascherina possa ridurre la quantità di virus inalata, riducendo così potenzialmente i sintomi e (a seconda del tipo di mascherina che si usa) di essere infettati».
Lo studio non è riportato quale sia, né tantomeno linkato. Tuttavia c’è la conclusione diretta: «Per questo motivo è molto importante che tutti anche i bambini indossino la mascherina anche all’aperto, fondamentalmente perché riduce il rischio di incontrare il virus».
Capito? Ad aprile gli irlandesi discutevano di la mascherina a scuola. Il Bambin Gesù invece la vuole mettere all’aperto, a «tutti i bambini».
Soprattutto oggi, mica ci stupiamo. Al Bambino Gesù lavora Franco Locatelli, direttore del dipartimento di oncoematologia, terapia cellulare, terapie geniche e trapianto emopoietico. Locatelli è membro del mitico CTS, il mistico direttorato tecno-sanitario che da quasi due anni ha le redini delle nostre vite.
Poche ore fa Locatelli ha cominciato a parlare non delle mascherine per i bambini che vanno a scuola, ma del vaccino alle elementari
Come riportato da Renovatio 21, poche ore fa Locatelli ha cominciato a parlare non delle mascherine per i bambini che vanno a scuola, ma del vaccino alle elementari.
«Vaccinando i bambini eviteremo focolai anche nelle scuole elementari e dunque il ricorso alla didattica a distanza. Limiteremo la circolazione del virus e la possibilità che contagino genitori e nonni. Sia la società pediatrica italiana, sia quella americana sono favorevoli alla vaccinazione dei bambini».
Possibile che in Italia non vi sia alcuna opposizione a questa follia? Possibile che l’Italia sia diventata così indifferente rispetto ai rischi della salute dei suoi figli più indifesi?
Intelligenza Artificiale
Scuola e Intelligenza Artificiale, le linee guide verso «conseguenze personali e sociali sconosciute» per i nostri figli

A ridosso del ritorno sui banchi (è un’immagine vintage, lo sappiamo e lo facciamo apposta), il ministero dell’Istruzione e del Merito ha pubblicato le Linee guida per l’introduzione dell’Intelligenza Artificiale nelle Istituzioni scolastiche.
Il documento consta di 34 pagine e qui non se ne vuole fare un’esegesi – anche perché non se la merita. Ciò non toglie però che leggerlo sia un’esperienza tutta particolare, per certi versi estrema, capace di suscitare una gamma di sentimenti che spazia dall’ilarità allo stupore alla rabbia, con una netta prevalenza per la rabbia alla conta finale, ché in effetti a pensarci c’è poco da ridere, e anche poco di cui stupirsi.
Impressionisticamente, senza alcuna pretesa di sistematicità e tanto meno di esaustività, cerchiamo allora di dare conto di ciò che resta dopo questo breve ma intenso viaggio ai confini della realtà.
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Uso consapevole e responsabile, come la droga
Al malcapitato che si appresta a leggerle, viene subito spiegato nelle prime righe che le linee guida vogliono fornire «un quadro di riferimento strutturato per l’adozione consapevole e responsabile dei sistemi di Intelligenza Artificiale», affinché «diventino uno strumento per rafforzare la competitività del sistema educativo italiano». Dopo di che parte il primo elenco (ne seguiranno vari altri) delle meraviglie che, nell’ambito della propria discrezionalità, ciascuna istituzione scolastica può realizzare con l’IA.
Come potevano mancare la consapevolezza e la responsabilità? È questo infatti il mantra numero uno che è stato conficcato nelle teste soprattutto dei genitori/educatori/animatori dei tecnoutenti in erba, per far credere loro che sia giusto dotare il pargolo di protesi elettroniche di ultima generazione e immergerlo nel metaverso, che sia anzi una scelta necessaria per non condannarlo a crescere nel medioevo; con l’unica accortezza, per mostrarsi davvero coscienziosi, di fargli spiegare dall’esperto come affogare in modo consapevole.
Un po’ come l’uso consapevole della droga, insomma: drògati, ma fallo con responsabilità. Non è un parallelo stravagante, perché il digitale ottunde i sensi e genera dipendenza, alla stregua della cocaina. Lo diceva a chiare lettere anche la relazione finale dell’indagine conoscitiva promossa dalla VII Commissione permanente del Senato nel 2019 (quindi ancora in era pre-Covid, prima del Piano Scuola 4.0 uscito dal laboratorio della pandemia) intitolata Sull’impatto del digitale negli studenti, con particolare riguardo ai processi di apprendimento e che si può trovare sul sito governativo.
È insomma un narcotico dell’intelligenza umana, specie di quella che dovrebbe essere educata a crescere. Privarsi del dispositivo elettronico, infatti, è come subire l’amputazione di un arto, e del resto gli algoritmi sono programmati per adescare l’utente, catturarlo e tenerlo in ostaggio il più a lungo possibile.
Poi quella relazione diceva molte altre cose, basandosi su un ricco compendio di letteratura ed esperienza consolidate. Tipo che l’uso-abuso del digitale sta decerebrando le nuove generazioni (proprio così): riduce la neuroplasticità del cervello e frena lo sviluppo delle aree cerebrali responsabili di singole funzioni; fa sì che si inibiscano sul nascere, o si atrofizzino, facoltà cognitive, abilità psicofisiche, attitudini relazionali.
Inoltre genera isolamento, danni fisici di varia natura, psicosi assortite. Insomma, un disastro. Tutte conclusioni peraltro che, oltre a radicarsi in una bibliografia ormai sterminata, sono raggiungibili in autonomia da qualunque persona di buon senso che abbia a che fare con un cucciolo d’uomo contemporaneo e con i suoi coetanei. Bastava una mamma sensata qualunque, per arrivarci.
In ogni caso, nel tempo in cui invocare la scienza equivale a calare la carta vincente, il fatto di disporre di evidenze pressoché unanimi che certificano il fallimento della didattica digitale e, ancor più, la sua fenomenale dannosità, e al contempo fregarsene completamente per dedicarsi a pompare le sue prestazioni miracolose, bisogna riconoscere che richiede una buona dose di sfrontatezza.
Vien da pensare che ci sia sotto una faccenda grossa di bilanciamento di interessi, e che gli interessi dei colossi della tecnologia educativa debbano avere la meglio, per ordine superiore, su quelli della gente comune, dei giovani e della società.
Tanto più che il ministero che oggi celebra i prodigi dell’IA con la pecetta (l’additivo cautelare) dell’«uso consapevole», è lo stesso che ieri – dicembre 2023 – mandava in giro sottoforma di circolare la relazione di cui sopra nelle scuole di ogni ordine e grado. Uno strano caso di strabismo istituzionale, passato del tutto sotto silenzio forse per l’abitudine diffusa, divenuta rassegnata assuefazione, di sentir predicare simultaneamente tutto e il contrario di tutto dagli stessi identici predicatori. Pare normale.
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Inevitabile tecnolatria
Ma la sensazione più irritante che, scorrendo quelle pagine, assale il lettore non tecnolatra deriva dal fatto che esse danno per presupposto che uno per forza lo sia. Cioè, non è nemmeno lontanamente contemplata l’eventualità che non tutti tutti – nella grande ammucchiata di genitori, studenti, docenti, dirigenti, personale di altro genere – non aspettassero altro che aderire felici all’utilizzo dell’IA nella propria scuola.
«L’introduzione dell’IA nelle istituzioni scolastiche rappresenta una grande opportunità, che richiede un impegno costante da parte di tutti gli attori coinvolti». Lo hanno deciso loro. Qualcuno è stato consultato? No. Si è registrata approvazione unanime? No. Ma entra in gioco qui un altro tic verbale e mentale (il mantra numero due) appiccicato ad arte al fenomeno della IA: la sua pretesa inevitabilità.
Il progresso non si può scansare, va cavalcato per una questione di destino invincibile, qualunque esso sia. Una species del suggestivo genus «there is no alternative» (TINA) coniato, al tempo, dalla lady d’oltremanica. Non ha quindi senso manifestare contrarietà verso qualcosa di ineluttabile: tanto vale buttarcisi a pesce, forti dell’illusione indotta di essere più scafati degli altri e di essere in grado di governare la macchina.
Siccome però in questa fattispecie specifica abbiamo visto che si va incontro a rischi e danni certi, severi e documentati, con l’aggravante che ad esserne travolti sono i più indifesi, la dichiarazione di inevitabilità equivale praticamente ad ammettere che abbiamo creato un mostro che ora vive di vita propria e non si può più fermare, o – detta altrimenti – che abbiamo aperto il vaso di Pandora, abbiamo perso il coperchio, ma amen, lasciamolo aperto e restiamo a guardare l’effetto che fa.
Niente male come tacita confessione di impotenza per l’uomo del terzo millennio che si crede onnipotente.
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Effetti avversi sconosciuti
Tra l’altro le linee guida in esame non fanno affatto mistero della quantità dei rischi derivanti dalla adozione della IA nelle scuole e nemmeno della loro gravità. Si parla ripetutamente di rischi, così, in scioltezza, quasi come un intercalare. In fondo perché drammatizzare, se siamo di fronte all’inevitabile? I sistemi di IA vengono divisi, ai fini della diversa disciplina applicabile, in due categorie: sistemi ad alto rischio, se presentano una serie di caratteristiche espressamente elencate; sistemi non ad alto rischio tutti gli altri (categoria residuale).
È bellissimo però che a un certo punto (p. 30), nel mezzo di un lunghissimo discorso sul trattamento dei dati personali – dove con ammirevole disinvoltura si elenca una serie interminabile e complicatissima di passaggi burocratici prescritti, che è prevedibile porteranno in manicomio più di qualcuno – si dice anche che le istituzioni scolastiche, in qualità di titolari del trattamento, tra gli adempimenti e i sottoadempimenti cui sono obbligate, devono procedere alla «esecuzione di una valutazione di impatto (DPIA)» sulla protezione dei dati personali «volta a individuare i rischi connessi al trattamento di dati».
E poco più avanti si spiega che «la DPIA risulta necessaria in considerazione della innovatività dello strumento tecnologico utilizzato nonché del volume potenzialmente elevato dei dati personali trattati» (i grassetti sono nel testo originale). Infatti, continua il testo «il ricorso a tale nuova tecnologia può comportare nuove forme di raccolta e di utilizzo dei dati, magari costituendo un rischio elevato per i diritti e la libertà delle persone. Infatti le conseguenze personali e sociali dell’utilizzo di una nuova tecnologia potrebbero essere sconosciute» (qui il grassetto è nostro).
Conseguenze personali e sociali sconosciute. Cioè, un salto nel vuoto, messo nero su bianco nei documenti ufficiali. La popolazione scolastica, composta in buona parte di minorenni, è travolta (ancora una volta) in un mega esperimento di massa condotto (ancora una volta) con prodotti dei quali è nota a priori la dannosità, la quale comunque potrebbe esprimersi in forme ulteriori ancora non note.
Sostanze sperimentali – farmaci, droghe e simildroghe – inoculate nel cuore pulsante della società che fu democratica, ad effetto sorpresa: senza nemmeno un bugiardino e, quindi, senza un vero consenso informato possibile.
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La partecipazione democratica è una beffa
Nonostante queste premesse, il ministero dà per scontato che tutti insieme appassionatamente partecipino al grande gioco di società apparecchiato in tutte le scuole d’Italia dalle aziende Ed Tech e dall’indotto che ne discende: un’orgia digitale collettiva alla quale nessuno deve sottrarsi. A p. 21 si afferma, sempre in modo assertivo, che «il processo di transizione digitale richiede un coinvolgimento sinergico e sistemico del dirigente scolastico, del direttore dei servizi generali e amministrativi, del personale tecnico, ausiliario, amministrativo, dei docenti, degli studenti, tenendo conto del diverso grado di sviluppo connesso all’età, e delle rispettive rappresentanze di tali categorie di soggetti, delle famiglie, degli organi di indirizzo e di gestione degli aspetti organizzativi in ambito scolastico (ad esempio i Consigli di Istituto)».
Insomma, si tratta di allestire un balletto brulicante di ballerini improvvisati che saltellano sulla pelle di incolpevoli scolari tutt’intorno a una grande mangiatoia per predatori privati, più e meno corpulenti ma tutti parimenti affamati. Per non farsi mancare nulla, si suggerisce anche il coinvolgimento di stakeholder «attraverso la costituzione o l’adesione a parternariati, a reti di scuole, oppure stabilendo accordi con startup, università, istituti di ricerca, con approccio di ricerca-azione (…)».
Dulcis in fundo, al fine di «facilitare il coinvolgimento di tutti gli attori nel processo di cambiamento», il ministero veste pure i panni del coach motivazionale e consiglia di predisporre un «piano di comunicazione strutturato», perché si sa bene che «una strategia operativa efficace facilita il consenso e motiva i singoli a contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni» (p. 24) e incoraggia «il senso di appartenenza, il clima positivo».
Naturalmente per implementare tutta questa giostra, occorre che i docenti acquisiscano particolari «competenze digitali, approccio critico e attenzione a etica e professionalità, da sviluppare attraverso specifici percorsi formativi» (altra miniera d’oro, per i tenutari dei corsi). E così essi potranno finalmente accedere a un repertorio infinito di funzioni sostitutive delle proprie normali mansioni – fa tutto lei, e lo fa meglio di te – e predisporsi felici, in modalità suicidaria, alla soppressione prossima ventura della propria figura professionale.
Questa enfasi sulla partecipazione, di interni ed esterni, vuole evidentemente dare una mano di vernice di simil-democrazia sopra un gigantesco apparato industriale – la scuola è la più grande industria al mondo di estrazione dati (cit.) – che con i connotati propri di un’istituzione pubblica, specie se di natura educativa, non ci piglia neanche di striscio.
Forse a questo punto si può capire l’irritazione del lettore non conforme, al quale le linee guida si rivolgono come a uno scimunito che passa di là, pronto a farsi trascinare nelle danze dall’animatore del villaggio vacanze.
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Il Paese dei Balocchi e il mantra del pensiero critico
Quanto al regno incantato che si spalanca davanti agli studenti, la sua descrizione è lussureggiante. La campagna pubblicitaria del ministero sulle prodezze della IA punta a coprire e far dimenticare tutte le magagne sui pericoli e gli inconvenienti che, al confronto, sono bazzecole.
Basti pensare che l’IA (pp. 27 e 28): rende il processo educativo più coinvolgente, crea percorsi formativi su misura in linea con le esigenze individuali, permette di ampliare e diversificare l’offerta formativa adattandola agli interessi di ciascuno, dà supporto nella creazione di materiali didattici personalizzati; favorisce l’approfondimento di argomenti specifici, stimola la curiosità e il desiderio di apprendere e una naturale voglia di scoprire, potenzia le competenze digitali, fa diventare co-creatori attivi di contenuti, nonché futuri leader che definiranno il rapporto di questa tecnologia con la società, supporta nelle attività didattiche orientate nella produzione di contenuti.
Ancora: l’IA è un facilitatore della curiosità intellettuale, capace di alimentare la voglia di esplorare, aiuta nella scomposizione di problemi complessi e nella analisi di varie tipologie di informazioni; semplifica l’integrazione delle conoscenze, evidenziando punti di interconnessione tra diverse discipline; individua fonti di approfondimento pertinente, crea simulazioni interattive e ambienti virtuali. Promuove l’autonomia: chatbot o piattaforme di apprendimento personalizzate permettono di ricevere assistenza senza essere vincolati dagli orari scolastici tradizionali, facilitando la gestione autonoma del tempo e delle risorse, approccio che sviluppa capacità di autogestione e competenze trasversali come il pensiero critico e la capacità di problem solving. Aiuta a rimanere coinvolti e motivati rendendo il processo di apprendimento continuo e interattivo e incoraggiando a identificare i propri punti di forza e le aree di miglioramento.
Un panegirico che pretende dal lettore un atto di fede, mentre tocca vette spudorate di impostura. Contiene passaggi esemplari da sfruttare nelle lezioni di italiano (ci sono ancora, le lezioni? e l’italiano?) per spiegare il significato dell’ossimoro: l’Intelligenza Artificiale che promuove l’autonomia, facilita la gestione autonoma del tempo e delle risorse, sviluppa capacità di autogestione, il pensiero critico e la capacità di problem solving.
Cioè: a delegare alla macchina pensieri, parole e opere, a esternalizzare le funzioni fondamentali in un prolungamento artificiale del corpo, uno conquisterebbe autonomia.
Notare, tra l’altro, l’evocazione qua e là del pensiero critico, altra stucchevolissima formuletta magica (mantra numero tre), estratta dal cilindro del prestigiatore come il classico coniglio, per legittimare se stesso da un lato e per nobilitare qualsiasi ciofeca dall’altro. Basta spruzzare in giro, a casissimo, qualche «pensiero critico», e la coscienza va subito a posto, e ci si gode l’applauso assicurato del pubblico pagante.
Ma non c’è solo il pensiero critico. Sparse per il testo, tutte le classiche esche per i benpensanti, quelle che piacciono alla gente che piace, sfoderate per il lancio del grande gioco di società a cui siamo tutti chiamati coattivamente a giocare.
Ecco infatti che, per raggiungere i traguardi stellari elencati a più riprese nel documento, «è necessario che l’IA supporti la crescita personale e l’acquisizione di competenze autentiche, promuovendo l’apprendimento critico e creativo senza sostituire l’impegno, la riflessione e l’autonomia degli individui». Essa «deve promuovere un’innovazione etica e responsabile», essere utilizzata «in modo trasparente, consapevole e conforme ai valori educativi delle Istituzioni scolastiche italiane»; deve essere sostenibile nel lungo termine e «per traguardare (sic) questo obiettivo deve garantire un equilibrio nei tre pilastri della sostenibilità: sociale, economica e ambientale».
In sintesi: l’AI promuove l’autonomia, stimola il pensiero critico, ma per raggiungere questi fantastici obiettivi deve promuovere l’autonomia e stimolare il pensiero critico. Una autolegittimazione tautologica e circolare, formulata per la stessa banda di presunti scimuniti cui si accennava sopra.
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Accendere la resistenza
Viene da ridere, sì, ma poi sale la rabbia. L’onda d’urto di tanto delirio si abbatterà sui nostri figli se non ci predisponiamo a difenderli.
Che dall’altra parte ci sia un grumo di potere non solo economico, ma soprattutto politico (nel senso che il suo intento egemonico sta nel controllare l’esistenza altrui e pilotarla a proprio uso e consumo) non è forse nemmeno il problema più grande.
Il problema più grande è che la gente abbocca, anche se l’imbroglio è così plateale, e si lascia attirare nel girotondo per via di quel «piano di comunicazione strutturato» che funziona alla grande; oppure perché è semplicemente stanca, rassegnata, tanto da lasciarsi persuadere dalla narrazione truffaldina che fa leva sulla parola magica della «inevitabilità». E allora si convince a salire sulla giostra che gira sempre più forte, ma si sente rassicurata dall’essere «consapevole e responsabile», il tranquillante prescrittole dall’impresario circense.
L’imposizione dell’IA ai nostri figli – proprio come è stato per l’mRNA – calpestando la Costituzione, uccidendo il diritto e disintegrando il concetto stesso di democrazia, mira dritto dritto al cuore della natura umana per colpire la sua integrità e un po’ alla volta sostituirla. Ma in pochi sembrano farci caso: la maggior parte obbedisce, zitta e mosca, al programma di sottomissione.
E invece questo è proprio il momento della responsabilità. Dunque, che la forza sia con noi: con i docenti che non mollano, con i genitori che tengono ai propri figli, con gli scolari capaci di sopravvivere al trattamento loro riservato, e determinati a continuare a farlo per conquistarsi in premio una vita da vivere, e non da subire.
Elisabetta Frezza
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Scuola
Elisabetta Frezza: tra raccolta massiva di dati e isolamento dei bambini «la scuola è il nuovo campo di sorveglianza»

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Pensiero
Scuola, la tempesta sui nostri figli: dal terrore pandemico all’«educazione al consenso»

Stiamo assistendo a una operazione, tanto patente quanto capillare, di rimozione e mistificazione pilotata della realtà con tutti i suoi esiti distruttivi. Va di conserva alla edificazione di un immaginario collettivo capace di riassorbire in una visione (in apparenza) coerente le rovine causate.
Un grande lavacro mediatico, insomma, che consente di depistare le responsabilità e mandare assolti i colpevoli, di cancellare tante vergogne contando sulla memoria corta dello spettatore passivo: quello stesso che canta in coro il ritornello dell’aggressore e dell’aggredito perché si beve sereno la storia che la storia del mondo inizia precisamente da lì, non un istante prima.
Ecco allora fioccare articoli e servizi su scala più o meno vasta i quali, strumentalizzando fatti e atti del vivere quotidiano, li distorcono per costruirci sopra casi esemplari e nuovi paradigmi: dal cilindro spuntano i nuovi totem da adorare, le nuove streghe da bruciare a favore di masse rimbambite chiamate a raccolta intorno a una metafisica prêt-à-porter fatta di pseudovalori da strapazzo, perché c’è pur bisogno di credere in qualcosa se questo qualcosa non è più un dio.
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Che l’operazione comporti l’effetto collaterale di stritolare persone per bene, o sacrificarne altre al monolite ideologico, pazienza. L’importante è non intralciare il flusso inebriante del progresso, tenere fede al copione e, in omaggio alla sua trama, lanciare progetti, costruire culti e altarini, inventare molte «educazioni» in grado di fabbricare ominidi di serie bravi a pappagallare a vita slogan di ordinanza.
Come sempre accade, i primi destinatari della fiction sono le nuove generazioni: del resto, i grandi laboratori a cielo aperto, come quello della pandemia, sono apparecchiati soprattutto per loro.
E come per magia si scopre d’improvviso che oggi i ragazzini sono quasi tutti stressati, sofferenti, fragilissimi. Vegetano, stanno male sia nel fisico sia nell’anima.
Giornaloni, giornaletti e rotocalchi emanano i bollettini di guerra dell’ultimo terribile contagio: parlano di impennata di suicidi e di atti di autolesionismo, di reparti di neuropsichiatria intasati, di sindromi post traumatiche dalle mille manifestazioni, di disturbi alimentari fuori controllo, di manie ossessivo-compulsive, di dipendenze, di distacco dalla realtà, di ansia e depressione, di difficoltà di socializzare, di frustrazione e incertezza verso il futuro, di disturbi del sonno, di aggressività, di solitudine siderale senza vie d’uscita, di psicofarmaci come se piovesse.
Dolori proteiformi e senza confini, e incapacità di esprimerli per incapacità di comunicare e quindi di compatire, ovvero di sciogliere il male interiore in un bacino un po’ più ampio del proprio cuore ferito.
In parallelo, si registra un crollo delle facoltà cognitive, espressive, logiche, speculative; della capacità di concentrazione, di memorizzazione, elaborazione, calcolo; l’inabilità diffusa a scrivere in modo intelligibile persino a se stessi, e in generale a interagire con i propri simili attraverso un linguaggio appena articolato; l’inettitudine a comprendere la propria lingua madre, coi suoi lemmi, la sua grammatica, la sua sintassi, e di analizzare un testo, e di afferrarne il senso.
Di fatto, mutismo e sordità sono diventate piaghe endemiche e ingravescenti: circostanza di cui la scuola che non è più scuola prende atto, compiacente.
Ora, una persona normale che abbia abitato questo disgraziato pianeta negli ultimi anni penserebbe subito che non poteva andare a finire diversamente per le cavie di una sperimentazione che ha voluto vedere l’effetto che fa isolare dei cuccioli d’uomo per un tempo infinito in proporzione alla loro età, terrorizzarli senza tregua, costringerli a obbedire a ordini demenziali cui i grandi obbedivano senza fiatare come soldatini sotto ipnosi (tipo sensi unici pedonali nei corridoi degli edifici, così come nelle vie della città; fogli di carta messi in quarantena, stanze di segregazione per uno sternuto; facce e voci deformate dagli schermi; palombari vaganti, distanze di sicurezza; occultamento dei volti, sterilizzazione di oggetti, di cibarie, di giardini e di spiagge; non hai diritto a un bicchier d’acqua, puoi bere solo in piedi e dopo le diciotto e quindici; fai una giravolta, falla un’altra volta, guarda in su, guarda in giù; e molto altro).
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E ancora, vedere l’effetto che fa impedire loro di giocare, di fare sport, di salire sull’autobus, di trovarsi (di assembrarsi), di sorridersi e di litigare, di correre e cascare e sporcarsi, di muoversi liberamente al chiuso e all’aperto, stando relegati in apnea nel loro fazzolettino di pavimento recintato e compulsivamente disinfettato, simpatica gabbietta per topolini domestici.
Vedere l’effetto che fa mostrare loro morti, imbustati dentro sacchetti neri, sparire nel nulla senza un addio, senza la pietà che ci ha insegnato Antigone agli albori di una civiltà dimenticata.
Infine, vedere l’effetto che fa ricattarli – loro, che manco si ammalavano di un raffreddore – per svuotare i magazzini di un farmaco sperimentale che si sapeva (quantomeno) inefficace: ti concedo un brandello di libertà vigilata, in cambio dell’ipoteca sul tuo corpo e sulla tua salute, corri a ritirarlo gratis allo hub più vicino, panino in omaggio. Insieme al distintivo di bravo cittadino da appuntarti al petto e sfoggiare in società, quella stessa che aveva elevato la delazione a valore civico supremo.
E sopra tutto questo inferno, una costante, frutto dell’addestramento coatto durato un paio d’anni di esercizio intensivo: fornire la carica perenne a una calamita invincibile che impone di restare appiccicati fissi a una scatoletta elettronica, unico tramite con l’altro da te nella «società senza contatto», unica valvola della pentola a pressione in cui ti hanno trasformato. Senza più giorno né notte, senza ritmi cicardiani, senza tocchi o aliti di vita.
La vita infatti era tossica; il primo comandamento, quello di scansarla. Vade retro, vita.
Qualcuno sano di mente poteva davvero pensare che i cuccioli d’uomo uscissero indenni dall’esperimento? Che a comando tornassero in forma, come un qualsiasi materiale elastico e comprimibile che riprende il suo spazio non appena liberato dalla morsa? Qualcuno può non vedere un nesso causale grande così tra l’esperimento condotto con tanta ferocia, e gli eventi dannosi che abbiamo oggi sotto gli occhi, per cui torme di espertoni si strappano i capelli?
A quanto pare, sì. Anche questo disastro – troppo imponente per essere taciuto – sono riusciti ad appenderlo al vuoto pneumatico dell’hic et nunc, recidendo ogni collegamento con il passato. A beneficio di tutti quanti, a ogni livello della piramide sociale, devono guadagnarsi prima l’oblio e poi l’impunità, e sono parecchi: aguzzini, carcerieri, delatori, sceriffi e sbirri improvvisati, psicopoliziotti, impegnati tutti a infierire sul proprio simile, specie se indifeso, persino sui bambini. Persino sui bambini. I volontari si arruolano a frotte.
Si capisce bene, allora, come sia altrettanto facile far evaporare il passato, anche recente, dalla mente collettiva, distratta su altri fronti di intrattenimento. Così, dopo aver scaricato per anni su spalle non ancora formate un peso emotivo ed esistenziale insostenibile, dopo aver organizzato la transumanza di massa nella dimensione straniante dell’artificio, giornali e TV ci raccontano adesso che a stressare i ragazzi è la scuola.
La scuola li rattrista, sì, ci dicono, perché è troppo esigente, vecchia e ingessata, poco amichevole, incapace di rendere gli scolari protagonisti della propria formazione. E quindi, è urgente che la scuola si aggiorni, si metta al passo con il progresso, si digitalizzi completamente; si faccia più inclusiva e ricca di attrazioni, assecondando l’indole dei suoi frequentatori che vanno divertiti e distratti perché così raggiungono il loro personale «successo formativo» e allora, finalmente, si autostimeranno.
Del resto, a cosa servono gli insegnanti, se non ad animare scolaresche annoiate e a gratificarle con tanti complimenti, ricchi premi e cotillons?
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Se i più giovani sono stressati, dunque, la colpa è di quegli insegnanti superstiti che ancora cercano di insegnare con rigore e serietà le proprie materie di studio, e con esse la vita. Costoro vanno sputati fuori da questo sistema «educativo» socio-assistenziale e pseudo-sanitario lanciato verso il tracollo di obiettivi e risultati, perché è l’allievo l’unità di misura di se stesso e, per non turbarlo, va coccolato nel suo status quo, dentro un bozzolo autoreferenziale inviolabile da chiunque eccetto che dallo psicoesperto.
E giù di psicologi e di psicopedagogisti, di psichiatri e di certificatori, che fanno affari d’oro per spianare a tutti la strada alla conquista di diplomi vuoti e luccicanti.
A nessuno passa per la testa che a distruggere questa generazione è stata proprio l’eclissi della scuola, che li ha completamente abbandonati, prima incarcerandoli nella loro cameretta, poi riaprendo le porte sottoforma di caserma a nonnismo libero, infine rimettendo in moto la macchina pedoburocratica come nulla fosse accaduto, e omettendo qualsiasi spiegazione dell’incredibile che è accaduto per davvero.
Manco delle scuse per il trattamento inflitto, per gli orrori perpetrati. Zero, come fosse solo una parentesi un po’ anomala da chiudere e dimenticare, e chi s’è visto s’è visto.
Così, schiere di ragazzini arrugginiti e inselvaggiti, disorientati e smarriti, contenitori viventi di ordigni inesplosi, sono tornati a condividere gli spazi fisici che per inerzia chiamiamo ancora scuola, ma sarebbe ora di trovare un altro nome. Dalla regia suggeriscono «ecosistema di apprendimento» (e però ci andrebbe spiegato quale apprendimento) o eduverso, che le sta già meglio perché non significa niente.
E siccome stanno tutti male, che si fa? Si elimina dal loro orizzonte ogni spinta al miglioramento e tutta la dimensione dell’impegno e dello sforzo, si personalizza il percorso di studi ritagliandolo sulla misura all’indole (immatura, per definizione) e ai limiti (presunti e provvisori, per definizione) individuati dallo scrutatore esperto; li si psicopedagogizza in serie; si mette loro in mano qualche giochino colorato dei colori dell’arcobaleno, alcune volte ancora sottoforma di vecchio libro, con tante immagini, poche parole e le poche parole ridotte a slogan; li si rieduca ai dogmi inventati a uso e consumo di una società morente: è stupendo che l’ultima trovata si chiami «educazione al consenso» (cioè imparare a dire sì) e serve a martellare nella testa degli scolari che i maschi in quanto maschi devono o castrarsi, o sparire, e comunque pentirsi di essere nati sbagliati.
Ma sono bellissimi anche i millemila corsi contro il bullismo, nella cui definizione entra qualsiasi cosa, dagli atti persecutori a uno scherzo innocente tra amici, di quelli che tante volte aiutano a crescere ma che bisogna imparare a reprimere per sempre. Non si può più scherzare, ragazzi, né prendersi in giro, perché l’occhiuto addetto antibullista vigila e punisce. Magari è quello stesso che pochi anni fa, con l’avallo dell’istituzione, bullizzava i ragazzini non marchiati di verde. Il bullo-antibullismo, sicofante dentro, è un altro capolavoro di questa temperie nata e cresciuta sotto il segno dell’assurdità.
Non dimentichiamoci infatti che era l’istituzione a discriminare gli scolari privi di lasciapassare, legittimando un trattamento differenziato tra chi era vaccinato e chi no. Che era l’istituzione, quindi, a permettere che fossero additati al pubblico ludibrio i pochi che non avevano bruciato il granello di incenso all’imperatore.
E che era l’allora ministro dell’istruzione ad affermare con sicumera che l’imposizione del bavaglio permanente a scuola rispondeva, più che a motivi sanitari – e infatti è dimostrato come fosse non solo inutile, ma dannoso, specialmente per i soggetti in crescita (e non ci voleva un genio a capire che tappare naso e bocca per ore con una pezza umida e sporca non è proprio un bagno di salute) – a esigenze «educative», perché serviva ad abituare i giovani alla «nuova normalità». Un addestramento su modello zootecnico, insomma.
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Ora che, davanti a una catastrofe di proporzioni mai viste, non si può non riconoscere la nocività della esposizione perpetua ai dispositivi digitali, e la dipendenza che generano – del resto sono progettati per quello –, ci si dà ai giochini delle tre carte mascherati dietro la logica del fatto compiuto: siccome la tecnologia non si può fermare, allora occorre educare i ragazzini all’«uso consapevole», sul presupposto che si debba sempre e comunque cavalcare il progresso.
Che è poi come dire, insegniamo l’uso consapevole del veleno, o della droga, o dei superalcolici. Avvelènati, drògati, ubriàcati, ma in modo consapevole, così tu sei spacciato, ma le coscienze degli altri profumate di bucato.
Oppure, l’altra novità: squilli di tromba ovunque per il divieto del telefonino in classe, e però via libera al tablet, cioè al telefonone; no allo smartphone, sì al megasmartphone. E che sia una megapresaingiro ce lo dice, oltre al buon senso minimale, anche l’ultimo prodotto commercializzato negli USA (che stanno sempre un passo avanti rispetto alle colonie): la tavoletta inerte con le fattezze dell’Ipad ma senza connessione, chiamata «metadone tecnologico», che va a ruba. Non è uno scherzo.
La verità è che, per frenare la corsa di questo treno impazzito a bordo del quale viaggiano i nostri figli a tutta velocità – che è partito ben prima della pandemia, ma che la pandemia ha accelerato in modo furibondo – ci sia una sola cosa e semplice da fare: restituire alla scuola il suo statuto, il suo senso e la sua dignità. E ai docenti la loro professione, che non è quella dell’animatore, dell’inserviente informatico o dell’assistente psicologico: è altro.
Oltre ad essere il primo luogo di aggregazione al di fuori della famiglia dove si sperimenta la socialità, dove si misura il proprio carattere nel confronto quotidiano con i propri pari e con i maestri, che pari non sono, la scuola possiede in esclusiva un compito fondamentale cui ha rovinosamente abdicato: quello di alfabetizzare e di trasmettere le conoscenze nelle materie disciplinari, che vanno studiate, imparate, capite, mettendo in campo le migliori risorse e gli sforzi necessari per farlo.
Albergano lì dentro, dentro quel sapere durevole e forte che ha resistito alla prova del tempo, i semi che producono frutto nel tragitto lungo della vita, perché non scivolano via alla prima pioggia della moda stagionale, delle idee effimere, del simil-pensiero usa e getta.
E la fatica fa parte del gioco e pretendere di toglierla di mezzo per raggiungere la pax scolastica e il «successo» a prescindere è una truffa ai danni degli studenti, perché così li si priva del gusto della conquista e si costruisce per loro un destino gramo da invertebrati, incapaci di affrontare ogni difficoltà, deprivati a priori del senso del sacrificio e dell’attitudine al combattimento, fluttuanti nell’eterno presente ipertecnologico come tante docili rotelline dell’ingranaggio che si muove al ritmo salmodiato dei mantra ipnotici mandati in filodiffusione.
Solo quelli dotati di una struttura spirituale e culturale robusta saranno in grado di resistere al potere fagocitante del meccanismo, e di padroneggiarlo. Saranno attrezzati per ragionare in autonomia senza restare ostaggio di narrazioni mendaci dettate dall’esterno. Sapranno comprendere dove stanno di casa le menzogne, per liberarsene. Avranno il privilegio di conoscere e assaporare la vita.
La scuola è uno spazio sacro, dove si impara e si cresce, e si impara a crescere (con licenza di cadere e di rialzarsi, di sbagliare e di correggersi senza essere etichettati da uno stupido algoritmo). Uno spazio, oggi abusivamente occupato, che va restituito ai suoi legittimi abitanti, bonificato dall’artificio, protetto dai predatori.
Non serve ammassare altri orpelli sopra un edificio già sfigurato e cadente. Serve una energica operazione di sgombero. Di purificazione.
Elisabetta Frezza
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
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