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I pro-life italiani vogliono tenersi la legge 194. Mentre qualcuno dissemina il Paese di feti in barattolo

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Oggi mi ha chiamato un amico per chiedermi se avevo sentito di una nuova iniziativa del mondo prolife italiano.

 

Io rispondo che no, è difficile, se non impossibile, perché, secondo una comprensione ingeneratasi in me nel tempo, considero storicamente l’antiabortismo organizzato come un fenomeno ingenuo se non stupido nel migliore dei casi, venduto se non corrotto nel peggiore, e comunque sempre deleterio, con forte nocumento finale alla stessa causa che credono di portare avanti, la difesa della vita umana.

 

Forse qualche lettore sa cosa ne penso: l’aborto è uno stalking horse, uno specchietto per le allodole, un’arma di distrazione della massa cattolica: mentre mandano tante brave persone a protestare contro l’interruzione di gravidanza, questi dall’altra parte continuano a sprone battuto con la produzione di esseri umani in laboratorio, che tecnicamente ad oggi, dati governativi ufficiali, uccide più embrioni che l’aborto chirurgico e/o chimico.

 

L’amico comincia a raccontarmi per sommi capi di cosa si tratta: è un insieme di tutte le sigle possibili, sempre le stesse, della giostra catto-attivistica degli ultimi lustri.

 

Quelli che dicevano di lottare contro l’aborto, ma poi hanno mandato alle elezioni politiche personaggi che dichiaravano che la legge feticida non andava toccata.

 

Quelli che dicevano di combattere contro il matrimonio gay, che poi si è materializzato sotto i loro occhi senza che potessero fare niente, pur avendo ampie proiezioni parlamentari (deputati, senatori, ministri, sottosegretari) negli allora partiti di governi.

 

Quelli che dicevano di essere in trincea contro il gender nelle scuole, che ora è percolato sin negli asili, senza che questi, a parte chiedere soldi o fare congressi infertili ed altre trovate pubblicitarie, potessero fare nulla.

 

Quelli che parlavano di dignità umana, per poi fare le conferenze con il green pass – cioè la sottomissione biologica della persona, realizzata attraverso un farmaco derivato dall’aborto.

 

Insomma, capite con quale difficoltà, per ascoltare la storia di questa telefonata, freno il disgusto.

 

Ecco che mi racconta: «si tratta di una raccolta di firme – sì, un’altra… – per modificare la legge 194». Già qui cadono le braccia, e non solo. Ma come? Davvero ancora propongono di stare dentro quella legge, invece che abolirla?

 

In verità non mi sorprendo: da Ruini sino al ministro Roccella, sono decenni che il potere democristiano ancora infiltrato ovunque ci dice che la 194 non si tocca. Tuttavia, possibile che almeno sigle e movimenti (compresi quelli fatti magari da una solo persona, o anche due), perennemente ingannati dalla classe politica ed episcopale, siano rimasti ancora lì, e pure senza vergognarsi?

 

L’amico va avanti, e la racconta tutta: «in pratica si aggiungerebbe un comma nella legge sull’aborto per obbligare il medico che visita la donna che vuole abortire a fargli ascoltare il battito del cuore del bambino, magari farle pure vedere delle ecografie».

 

A questo punto il sangue, e lo schifo, ribollono nelle vene.

 

A questo punto tocca di analizzare il processo cerebrale che sta alle spalle di tale idea, di figurarsi come possa essere venuta loro in mente una cosa del genere.

 

Dobbiamo immaginarci la storia che si sono fatti in testa questi pro-life pro-194: cercate di vederlo proprio come una striscia a fumetti.

 

Primo riquadro: donna triste che va dal tizio in camice, e dice «dottore voglio abortire».

 

Secondo riquadro: il dottore (che magari ha prescritto o eseguito centinaia e migliaia di aborti, o ha visto e lasciato fare quantità di colleghi con cui pranzava continuamente, il tutto votando PD, Radicali, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, quello che volete) che a questo punto esclama, perché intimamente obbligato dalla legge: «prima dobbiamo ascoltare il battito cardiaco del nascituro!»

 

Terzo riquadro: la donna, sentendo il toc-toc del cuore del figlio, esclama (col fumetto seghettato e abbondanza di punti esclamativi): «ma allora è vivo! Non abortisco più!»

 

Quarto riquadro: il bambino nasce e la mamma è felicissima. (Del padre non si sa nulla, mica possiamo metterlo nel fumetto: di fatto la 194/78 lo estromette dall’assassinio del figlio, e questa è una fantasia ad inchiostro sub speciem centum nonaginta quattuor).

 

Quinto riquadro: il bambino cresce e diventa un ingegnere, un geniale musicista, un contribuente dell’8 per mille. L’aborto, grazie a questa piccola gabola inserita nella legge genocida, è sconfitto per sempre. Trionfa il bene e il futuro dell’umanità. Fine.

 

Il lettore capisce da sé che i fumetti della Marvel, paragonati a questo, sono puro neorealismo: L’Uomo Ragno, I fantastici Quattro, L’Incredibile Hulko si danno a questo punto come opere veriste. Mostrano d’improvviso la loro cifra di realismo sociale anche Topolino e Dylan Dog (il quale esclamerebbe, con molta ragione visto il contesto, «Giuda ballerino!»).

 

Siamo nell’antiabortismo fantasy, nella fantascienza pro-life: eppure qualche anziano presente nelle varie sigle dovrebbe ricordarsi di quando la visita per l’aborto poteva essere fatta di un dentista (professione medica che con la ginecologia non c’entra nulla, a parte quel famoso irripetibile canto d’osteria, il duodecimo).

 

Altri, più giovani, possono ricordare che le visite pre-aborto prescritte dalla legge vengono eseguite con tale cura che, anni fa, accadde che mandarono a far abortire una signora che non era nemmeno incinta. È una storia che circolava: scommettiamo che i casi sono molteplici, ma, certamente, non raggiungono i giornali.

 

Non è finita, perché di qui, come la nobile iniziativa contro l’aborto, si va in peggio.

 

L’amico mi legge il testo del comunicato: «La donna ha il diritto di essere resa consapevole della vita che porta nel grembo, una vita con un cuore che pulsa. Solo in tal modo può essere realmente libera e responsabile delle sue azioni».

 

Ammettiamo di non capire cosa ci sia davvero scritto: aiutiamo la donna a capire davvero di stare per divenire un’assassina figlicida?

 

Oppure c’è scritto: lasciamo la donna libera di uccidere il figlio in piena consapevolezza?

 

La parola «responsabile», cosa significa? «Responsabile» di che, visto che l’aborto (con la produzione di esseri umani in vitro e lo squartamento per predazione degli organi) è, al di fuori della guerra, l’unica forma di terminazione della vita altrui (dicesi anche: «omicidio») senza alcuna conseguenza penale, anzi, con dietro una spinta morale dello Stato e della società?

 

Nemmeno ora è finita: la proposta di legge «intende dare piena applicazione alla legge sul consenso informato».

 

Eh?

 

Consenso informato? Ma stiamo scherzando, vero? Il «consenso informato» vale una vita umana? Un bambino vale un bugiardino?

 

E poi, scusate, parliamo di consenso informato, dopo anni di vaccinazioni obbligatorie mRNA? Dopo che milioni di persone (e quanti antiabortisti viscidi, scappati di casa e/o para-democristiani?) si sono iniettati un siero genico sperimentale senza sapere nemmeno cosa fosse – come non lo sapevano nemmeno i produttori dell’intruglio stregonesco genetico-nanolipidico?

 

Massì. I prolife italici cianciano «consenso informato» dopo che hanno accettato – praticamente tutti – il vaccino venuto dal niente, che è stato derivato, memento, proprio dall’aborto.

 

Arrivati qui, non riesco nemmeno a definirmi bene in testa la magnitudine dello schifo che provo.

 

Perché sento addosso le ore-uomo passate in questi anni a riflettere e a scrivere sulla fine del «consenso informato» decretata dalla pandemia, la cancellazione di Norimberga, l’istituzione di un biototalitarismo spietato ed onnipervadente che non ha bisogno né di informarci né di avere il nostro consenso, perché, toltici i diritti e le costituzioni, siamo solo schiavi.

 

Eccoli, discutono di «consenso informato», in un argomento, quello dell’aborto, dove inserirlo non poteva venire in mente neanche sotto tortura – perché è ridicolo, non c’entra nulla con la vita del bambino, che è l’unica cosa che conta! – in un mondo dove, con estrema probabilità, già si muovono i vaccini autopropaganti: cioè, piccole epidemie vaccinali che si diffondono non con programmi statali sanitari di sierizzazione, ma con la diffusione virale tipica delle malattie.

 

Su Renovatio 21 ne parliamo da anni: i vaccini autopropaganti – che sono materialmente la fine del feticcio del «consenso informato» – stanno avanzando, oltre che nei discorsi dei bioeticisti, anche negli esperimenti. E non è detto che quello che chiamano lo «shedding», la diffusione involontaria interpersonale delle proteine spike e possibilmente dell’mRNA (e pure delle particelle LNG che trasportano il materiale genetico del vaccino), una questione che sta impegnando diversi scienziati al momento, non abbiamo un esempio di vaccino autopropagante già con la siringa anti-COVID-19.

 

Il che significa, che c’è chi dice che i non vaccinati si stiano contaminando anche solo rimanendo a contatto con i vaccinati – e non solo con i contatti sessuali (dove, con orrore, si è osservata l’incidenza della spike negli spermatozoi!) ma pure per trasmissione aerea.

 

Gli antiabortisti, che magari si sono fatti il siero fatto con l’aborto, vogliono la clausola di «consenso informato», mentre magari stanno contagiando, con la loro pozione diabolica derivata da sacrificio di bambino, il prossimo loro, senza che questi possa essere informato, o consentire, ad alcunché.

 

Bisogna dire che non sono solo stanco delle ingenuità, così come dei traffici dell’immortale network democristiano para-episcopale, con la loro programmatica opposizione simbolica all’aborto, che mi sono ritrovato ovunque, nel governo Berlusconi, nel governo Monti, nel governo Letta, nel governo Renzi e pure ora, a volte ritornano, nel governo Meloni. Ne ho scritto, negli anni, ad nauseam.

 

Il fatto è che sto cominciando a maturare una visione più ampia, e tetra, che mi rende la dabbenaggine catto-attivista ancora più intollerabile. Non è solo il fatto che il maggiore numero di morti non lo fa la 194/78, ma la 40/2004: cioè muoiono più embrioni con la riproduzione assistita (legge vergata, come quella abortista, da democristiani) che con l’interruzione volontaria di gravidanza. Non è solo il fatto che mi è chiaro, e da anni, che il Vaticano, con i suoi omini piazzati in politica e le capriole bioetiche nei Sacri Palazzi, sta preparando lo sdoganamento del bambino artificiale, dell’umano concepito in provetta, magari bioingegnerizzato col CRISPR.

 

No, il mio livello di disillusione, e di timore, oramai è passato di livello.

 

Ho capito che mentre tutto il mondo pro-vita – per decenni, me compreso – parlava di 194, legge 40, uteri in affitto, DICO, PACS, unioni civili, fecondazione eterologa, gay, testamento biologico, DDL e pontificie accademie, qualcuno nascondeva in giro per il Paese barattoli contenenti feti.

 

Se siete nuovi su Renovatio 21 e questa non l’avete sentita, andate a leggervi qualcuno degli articoli. Bambini perfettamente formati, figli di chissà chi, abortiti chissà come (per cesareo? I bambini abortiti normalmente escono a pezzi, «frullati») inseriti in barattoli pieni formaldeide, e disseminati sul territorio, specialmente in zone verdi.

 

Uno è stato ritrovato poco tempo fa nella campagna veneta. Uno lo avevano rinvenuto nel 2019 in un parchetto di Torino. Indietro con gli anni spuntano gli stessi feti imbarattolati, con la formaldeide, vicino ai fiumi, nei cimiteri… un caso su cui sto cercando materiale, di anni fa, riguarderebbe addirittura una chiesa: enigmatico aborto in bottiglia, piazzato dentro la Casa di Dio.

 

Non nascondo, infine, che nonostante la mia tenacia, ancora nulla ho capito riguardo a cosa fossero quelle decine di barili pieni di feti ritrovati in quel capannone di Granarolo… Chi erano? Come erano stati ottenuti? A cosa servivano? All’uomo che tenta di unire i puntini, può uscire il pensiero più folle, e finire per ipotizzare che siano in qualche modo correlati a questi feti in barattolo occultati nel territorio – un fenomeno il cui pattern, ci rendiamo conto, è stato ipotizzato solo da Renovatio 21.

 

Torno a parlare di questa storia perché, qualora avessi ragione, saremo davanti alla necessità di capire che la lotta contro l’aborto è condotta sul piano sbagliato, con i mezzi sbagliati, e magari pure con le persone sbagliate.

 

E se l’aborto, invece che essere una faccenda di raccolta di firme e di marcette, di comma di legge, di incontri con vescovi e parlamentari farlocchi… fosse una guerra con forze sataniste, post-sataniste, organizzate in reti di cui mai abbiamo avuto sentore?

 

Quanto è importante l’aborto per questi attori invisibili, se arrivano a incastonare nelle provincie – a loro pericolo – questa serie di capitelli occulti fatti di feti morti?

 

Quella motivazione esoterica, prima che sociopolitica, ha davvero la persistenza dell’aborto legale nel nostro Paese?

 

Dovete capire che per me non è una domanda campata in aria. Qualche idea mi gira già per la testa, e da tempo. Ci sono alcune cose che mi hanno riportato riguardo ad antiche figure che sulla carta dovevano combattere l’aborto (hanno fallito, o anzi hanno fatto peggio) che, messe insieme con altre informazioni, mi hanno portato ad unire altri puntini ancora… facendo uscire disegni indicibili, che lambiscono scandali e misteri del Paese.

 

Non lo sto dicendo per una qualche forma di vanteria, per gongolare stile «io-so-una-cosa-che-voi-no», anche perché con certezza non so nulla, sono solo stato gettato, con la mente, in quadro che è spaventoso, e ogni passo che faccio in avanti, più mi rendo conto che l’abominio è radicato in cose che nulla hanno a che fare con la politica, con la CEI, con gli attivismi inetti e babbalei.

 

Non è una ricerca che ho portato a compimento: non ho certezze, perché so che nel momento in cui mi dedicassi a cercarle, ne verrei divorato, non potrei pensare ad altro, finirei come tutti quegli scrittori la cui esistenza finisce consumata dall’ossessione per un serial killer… e mi rendo conto che è proprio questa la questione, perché qui parliamo di persone e strutture che hanno consentito l’omicidio seriale non di decine, non di centinaia, ma di milioni di persone.

 

Qualcuno, operante su un livello ancora incompreso, ha impostato questo immane sacrificio umano – e lo sta mantenendo, forse pure con segni occulti.

 

Mi fermo qua. Il fastidio per l’ingenuità pro-vita sta lasciando il passo alla paura, all’orrore.

 

Il fumetto che descrive ciò di cui sto scrivendo è, quello sì, davvero un pezzo di letteratura fantastica. Tuttavia, esso è aderente alla realtà: mostruosa e oscura, la storia più orrenda che abbiate mai sentito, il racconto che più nella vita dovrebbe intimorirvi, la maledizione concreta che dovrebbe terrorizzare tutti i cristiani, e non solo loro.

 

Nell’orrore e nell’incomprensione, nel mistero e nella stupidità, il sacrificio umano nazionale va avanti.

 

Mentre i catto-ebeti continueranno, ad aeternum, a non capire un cazzo.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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